Diciassette Anni Fa

Happy Birthday

Diciassette anni fa mi ero appena trasferito nella nuova casa, dopo un periodo di stallo a casa di mia nonna. Ci avevano mandato via dalla vecchia, e per mesi abbiamo vissuto a San Saba tutti quanti. Ricordo che mio padre non dormiva per i rumori di quelli che abitavano sopra, abituato com’era al silenzio di quella che “una volta era tutta campagna”.
Io ero contento da morire: ero sempre con i miei ma allo stesso tempo con mia nonna, che come tutte le nonne non poteva crederci al fatto di potermi viziare tutti i giorni, tutto il giorno, e non solo nei mesi estivi o i weekend. Anche se stavamo stretti, dovevo svegliarmi ancora prima del solito per arrivare a scuola, anche se le abitudini per un po’ erano cambiate, io ero contento da morire. Ci festeggiai anche il mio compleanno, il mio decimo per l’esattezza, ed i miei zii mi regalarono l’orologio di Topolino, quello col sorcio al centro con le braccia a le lancette. Quanto mi faceva ridere quando erano tutte storte, perché lui comunque manteneva il classico sorrisone a bocca aperta tipico del topo più antisemita del mondo.

Diciassette anni fa ho visto la mia nuova casa costruirsi “da sola”. È un prefabbricato in legno, e gli operai insieme a papà dopo aver gettato la colata per le fondamenta, avevano piazzato le basi di legno che delimitavano le pareti esterne e quelle della camera. Era bello: sembrava una mappa, una planimetria, però vera, fisica. Ricordo che passavo da una stanza all’altra semplicemente scavalcando una trave. C’è una foto, che conservo ancora adesso, dove sono lì con quei capelli a caschetto (lisci), la felpa de Il Manifesto col bimbo che dorme, pugno chiuso e la scritta “La Rivoluzione Non Russa”, gli occhiali da sole rossi tondi alla John Lennon che adoravo appesi intorno al collo col cordino. Ma la cosa divertente era lo sfondo: una parete in legno a metà, più bassa di me, ed una finestra incastrata nel mezzo. Perché casa l’hanno costruita così: due travi in verticale, due travi in orizzontale, due travi in verticale.. e così via. Poi arrivava il momento di piazzare le finestre, e quindi rimaneva questa casa, un’immagine a metà tra la costruzione e la distruzione. Ricordo che con mamma abbiamo buttato 200 lire tra due delle travi che formavano la parete divisoria tra la mia (ormai ex) camera e la loro. Dicevano portasse fortuna. Ma l’immagine più forte è quella del tetto, poggiato sopra come un tappo su una scatola, fissato alle pareti ed alle due colonne.. e fine. Sembrava un’enorme costruzione in Lego, ma di legno. La Leg(n)o.

Diciassette anni fa usciva “One Hot Minute”, dei Red Hot. Io non sapevo nemmeno chi fossero, all’epoca ascoltavo.. boh, manco gli 883. Forse ero fermo a “Don Raffaè” ed a tutta la discografia di Battisti. Meglio di niente, per carità.
Ovviamente l’ho scoperto tardi, quell’album, e come molti non l’ho apprezzato subito. Il mio primo album dei Red Hot che comprai fu “Californication”, quasi cinque anni dopo. Poi seguì “Blood Sugar Sex Magik”, uscito che avevo cinque anni, che tutt’ora reputo il loro disco migliore, ed uno dei miei preferiti in assoluto.
Quando ascoltai OHM per la prima volta, non lo capivo proprio. Cronologicamente si piazza esattamente a metà tra i due prima citati, ma musicalmente è totalmente fuori da ogni schema musicale seguito dai quattro di L.A. (se mai ce n’è stato uno). Considerando che Frusciante aveva dato di matto durante l’estenuante tour per promuover il precedente album, e qui veniva sostituito da Navarro che veniva dai Jane’s Addction, l’aria in casa RHCP cambia totalmente. Per la prima volta il funk viene mischiato al metal. Il disco a volte si fa pesante come un tir di macigni che ti viene scaricato in faccia (vedi l’apertura con “Warped”), a volte dolce come il miele mischiato nello zucchero (“Tearjerker”). Flea è impazzito come non mai, tarantolato e “slappato” come non lo si sentiva da tempo, talmente galvanizzato da concedersi un solo con “Pea”. Chad Smith.. vabbè ho sempre considerato Smith il migliore del gruppo, e qui si capisce davvero perché: una ritmica pazzesca, una perfezione ed una carica tale da reggere tutto e tutti, per l’intera durata del disco. Kiedis, infine, è in totale stato di grazia. Oltre a strillare come sempre, in quasi tutte le canzoni, tira fuori una parte melodica a tratti lisergica, anche se coca ed eroina avevano fatto, di nuovo, la comparsa nella sua vita, oltre al Valium che aveva cominciato ad assumere dopo una imponente operazione ai denti. Questo però non lo trattiene dall’esprimersi al meglio, influenzando oltre il suo modo di cantare, anche quello di scrivere. (anche se meno rispetto agli album precedenti). Escono perle rare, tra cui le ballate come la già citata “Tearjerker”, “Falling Into Grace” e la splendida “Walkabout”.
Ne esce fuori un capolavoro per pochi, ed un album strano per molti. Di certo qualcosa che esula dal fantomatico percorso dei Red Hot Chili Peppers, qualcosa che solo la rabbia per la lontananza di Frusciante e l’irruente comparsata di Navarro hanno contribuito a farlo diventare il mio secondo album preferito della band, dopo “Blood Sugar Sex Magik” e “Californication”.

Tanto per la cronaca, se non erro la mia copia originale la regalai alla mia ex. O forse me l’ha ridata con un sacco di roba l’anno scorso. In caso contrario, spero esploda.

Diciassette anni fa un album mi ha cambiato la vita, anche se anni dopo.
E non smetterò mai di ringraziarli.

[ma grazie anche a Wil di Non Leggerlo per avermi ricordato, senza volerlo, del compleanno del disco e perché gli ho rubato l’immagine]

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