
Avevo esattamente 4299 giorni quel pomeriggio in ospedale.
“Undici anni e tre quarti”, come si direbbe a quell’età.
Insomma avevo un’età per cui ancora non arrivavo a quell’enorme vetrina. Vedevo giusto un pezzo riflesso su quella parete enorme, con le tende dentro ancora tirate. Non c’era un appiglio, le dita delle mani scivolavano su quel gradino tra al parete ed il vetro, io scalcio anche se le tende impediscono ogni visuale.
Intorno a me ci sono un sacco di parenti, gli adulti, che però mi lasciano un poco di spazio ché sanno bene quanto quel momento sia importante per me. l‘ho aspettato per questi 4299 giorni, per due volte è andata male ma finalmente ci siamo.
Si sente un poco di trambusto provenire da dietro il vetro. Le tende si muovono, spuntano due mani dallo spacco in mezzo che afferrano un lembo per una. Altre due mani mi cingono i fianchi e mi tirano su, proprio mentre le tende si aprono.
Mi si schiude davanti una stanza piena di piccole gabbie senza soffitto. In ognuna c’è un fagottino: qualcuno si muove piano, altri ondeggiano come indemoniati, altri ancora sono immobili, probabilmente dormono e sognano ancora quel posto magnifico dove erano solo qualche ora prima.
Mentre tutti guardiamo un po’ spaesati quelle decine di gabbiette senza soffitto, uno dei parenti dice
– Lì! Eccolo lì!
Come l’idiota, guardo prima il dito.
Poi seguo con lo sguardo la direzione che punta, e finisco a guardare una di quelle gabbie senza soffitto.
Ed eccoti lì, con il tuo nome ben scritto all’interno.
FLAVIO
Rimango un’eternità a guardare quel.. coso lì, quello scricciolo, quel mezzo metro avvolto in un panno ed insaccato in un cappellino.
Comincio a scalciare: voglio entrare, voglio abbracciarti, voglio prenderti e tirarti su verso il sole e gridare “AAAAAAAAAAAAAZVEGNAAAAAAAA!!!!!!!”.
Comincio a dire
– Quello è mio fratello! Quello è mio fratello!
Poi realizzo e dico
– Ehi sto dicendo fratello! Io ho un fratello!
Muovi piano le dita, le apri e le chiudi, e sono sicuro tu mi stia salutando perché lo hai già capito, che spettacolo di cose faremo insieme.
E ne faremo eh.
Per anni ti ho cullato io, e guai a chi altro lo faceva. Mi ti prendevo in braccio e ti portavo piano in giro per casa, fino a quando piano non chiudevi gli occhi e crollavi con la bocca semi aperta, segnale di gran sonno che ti porti dietro ancora adesso. Ricordo ancora quella volta all’isola di San Pietro, in Sardegna (che è dove è stata scattata la foto del post), quando ti misi nella culla e mentre ti guardavo dormire vedo questa biscia entrare dalla finestra, con io che scatto e dopo averti afferrato corro via manco fosse una scena di Indiana Jones.
Portarti sulle spalle mi piaceva un sacco, e farti ridere era la cosa migliore che potesse capitarmi.
Mi sono vestito da Babbo Natale ed ho aspettato minuti buoni al freddo prima che qualcuno si ricordasse che c’era un povero stronzo fuori, a suonare una campanella al freddo, ad aspettar di vedere giusto il naso di Flavio spuntare per poi scappare via al grido fi “OH! OH! OH!”.
Ti ho fatto morire un pesce rosso, ma giuro che è stato per il caldo terribile di quell’estate, e non perché (forse) mi son dimenticato di dargli da mangiare.
Ti ho regalato i miei libri di Roald Dahl e tutti i miei giochi, intonsi dopo molto più di 4299 giorni, che hai provveduto a distruggere uno per uno, nel tempo.
Ti ho fatto fare il bagno in mari e piscine vari, sempre con mille occhi che non si sa mai. Ancora mi prendono in giro per quanto ero apprensivo a tavola ad ogni tuo colpo di tosse, preoccupato che ti stessi soffocando, non so, con l’acqua.
Ti stoppavo quando tiravi al canestro piccolo di plastica, esultando per ogni palla che spazzavo via mentre tu passavi dal divertito all’isterico all’omicida.
Ti facevo compagnia ogni sera mentre vedevi gli Animaniacs, Mucca e Pollo, Ed Edd & Eddy, a ridere a crepapelle sul divano, che visti da fuori non si capiva chi avesse ‘sti quasi dodici anni di più.
Ti ho osservato dormire in quel lettone d’ospedale dove per giorni stavamo tutti con l’ansia a capire come dover gestire quell’enormità che è il diabete, ed ora vederti andare per conto tuo anche in quello fa una certa impressione.
Ti ho fatto vincere (quasi) sempre durante il Wrestling sul lettone, che mi sfiniva e distruggeva ma è stata la miglior stanchissima fatica che abbia mai provato.
Adesso, se dovessimo lottare, non dovrei fingere di perdere.
Perderei e basta, che a nemmeno trent’anni mi fa male tutto e te invece oggi fai diciotto anni.
BAM!
Diciotto.
Non saprei che dire, se non che sei la cosa più incredibile che mi sia capitata.
Oserei dire che sei il fratello che non ho mai avuto, guarda un po’.
Non sto troppo ad elogiarti, che lo so io quanto sveglio, intelligente e (mortaccitua che sono anche i miei) bello tu sia, ma volevo solo far sapere a più gente possibile che se pensavano di aver trovato in me lo Spaziani perfetto, purtroppo dovranno ricredersi.
Farai grandi cose, lo so.
Intanto però goditi ‘st’età strana e fichissima.
Io intanto preparo il lettone per la rivincita.