Miles Away

Le cose strane della vita?

Qualche anno fa lessi un articolo su Miles Davis che mi è rimasto molto impresso. Raccontava dei suoi ultimi anni di vita, passati tra la depressione e la paranoia, mangiato dalla cocaina e da un blocco artistico spaventosamente grande. Tre episodi in particolare, di tutto il lungo e bell’articolo che ora non ritrovo, mi colpirono tantissimo.

Il primo era riferito ai problemi con se stesso, e alla sua paranoia che lo accompagnò per gli ultimi cinque, dieci anni di vita. Aiutato da un uso esagerato di cocaina, cominciò ad avere una generica paura degli spigoli, in particolare per quelli di casa sua: sedie, divani, soprammobili, scrivanie, persino gli stipiti di porte e finestre. Decise però non di trasferirsi, ma di cambiare cas. Da dentro. Tutto venne smussato, addolcito, arrotondato, tutto liscio come un piccolo scivolo di plastica per bambini.

Il secondo fatto parlava del suo rapporto col mondo esterno. Un giorno, in piena crisi di astinenza da polvere bianca, prese la sua Ferrari e andò di corsa al centro di Los Angeles in cerca del primo pusher per ricchi. Scese dalla macchina, salì su un ascensore di un hotel e ci trovò una signora imbellettata dell’alta, più finta società di quei plasticosi anni ’80. Convinto di essere ancora sulla sua Ferrari, tirò un pugno alla signora, intimandole di scendere dalla macchina prima di subito. Passò una notte al fresco, e la mattina dopo fece l’unica cosa per lui logoca: trovare la cocaina e sfondarcisi.

Il terzo e ultimo episodio riguardava invece il suo rapporto col suo grande amore, la musica, diventata ormai la cosa più difficile da affrontare. La scena prendeva spunto da un suo live, uno degli ultimi, quando ormai le sue produzioni erano diventate un delirio di elettronica, un qualcosa che come sempre nessuno aveva mai fatto e che ormai si era stancato anche lui di eseguire.
Il video lo immortalava già sudato a inizio concerto, curvo su se stesso, gli enormi occhiali da sole a coprirgli mezzo volto. La tromba in piedi su un tavolino nero, al centro, con la band che aveva iniziato il tappeto ritmico ma lui nulla: guardava lo strumento di una vita intera e non sapeva cosa farci. Si avvicinava per poi ritirarsi subito, la guardava da lontano, pareva fosse la prima volta che vedeva quell’oggetto sinuoso, una donna magra con una lunga e ampia gonna, il braccio sul fianco in attesa di essere presa e fatta sua. All’improvviso l’afferra, ma anche lì non inizia subito a suonarla. Avvicina le labbra, le poggia, le stacca, ci guarda dentro come se sperasse di trovarci l’ispirazione.
Alla fine suona, e inizia a fare Miles Davis. Quello si quegli anni, ma sempre Miles Davis era.

Le cose strane della vita?

Che uno che ha cambiato le regole della musica suonasse per tormento, per dolore, per espiare colpe mai avute, io lo ascolto per rilassarmi, godendomi la sua musica ma soprattutto pensando sempre a questi tre episodi. E facendone tesoro per non cadere nell’errore di pensare che i grandi talenti abbiano avuto una vita facile, agile, piena di gioie, perché altrimenti non avrebbero avuto nulla da dire.
I tormenti, i dolori, i sensi di colpe mai avute sono la vera benzina dell’arte, e gli incendi che tutto bruciamo e distruggono le opere finali più belle.

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