Trecentosessantasei Giorni Fa

“Era un anno fa spaccato.
Sedici Agosto Duemiladiciannove.
Che lo so che le date andrebbero scritte a numero, ma mi pare che qui poche cose vanno come dovrebbero quindi chi sono io per non rompere qualche regola?
Ti dicevo, trecentosessantasei giorni fa (che quest’anno non fosse abbastanza demmerda ha pure un giorno in più), avevo preso un treno la mattina. Ero al paese della mia ex ragazza, e dovevo tornare qui a Lisbona per ricominciare a lavorare.
Le premesse per quello che è successo poi c’erano tutte eh, e suoneranno male ma quello era.
Non andava bene da un po’ di tempo, e i giorni della scorsa estate erano passati lenti e male. I tentativi dei mesi precedenti erano stati un buco nell’acqua, di quelli che fanno mulinello e cominciano a tirarsi dentro tutto quello che incontrano: giorni, notti, parole, approcci.
Son passati trecentosessantasei giorni, da quel Sedici Agosto Duemiladiciannove, e io di colpe me ne son fatte almeno il doppio. Colpe espiate, o per lo meno esplicitate.
Ché lo sai, mi conosci, sono duro di capoccia quando mi ci metto. Sto zitto, ho lo sguardo torvo, aspetto la prima mossa sbagliata del prossimo per incazzarmi ancora di più e sto ancora più zitto e così via. E quel periodo ero davvero antipatico.
Non cerco giustificazioni, non ne ho, ma sentirmi incompreso (perché non ci si riesce a spiegare, perché la foga di voler risolvere preso brucia ogni soluzione) e sentirmelo appiccicare addosso per tanto tempo mi ha fatto pensare che non fossi più in grado di spiegarmi per davvero. Solo che poi, quando tutto il resto del mondo ti capisce, qualche dubbio che non sia solo tu il problema ti viene.
Insomma, quei giorni passarono tra finte risate a cena con altri, e cupi silenzi quando si rimaneva da soli. Faceva caldissimo, quei giorni, e alla sofferenza di non riuscire ad avere un contatto con lei si univa un affaticamento fisico incredibile. Ricordo interi pomeriggi passati a provare a dormire tra finestre aperte e ventilatori. I passagi in cucina per prendere l’acqua, ignorandosi a vicenda quando ci si incrociava. Se potessi tornare indietro e prenderci entrambi a schiaffi giuro lo farei, perché in quei giorni stavamo decidendo di non fare nulla per provare a recuperarci e non lo volevamo capire. Ci andava bene, ecco quale è il punto. Ci andava bene andasse così, sapevamo di andare contro un muro su una macchina senza freni lanciata a folle velocità guidata da me, che nemmeno ho la patente. Solo che questa consapevolezza l’assumi un sacco di tempo dopo, e lì per lì ti pare tutto giusto quello che fai e tutto sbagliato quello che fanno gli altri. E un sacco di tempo dopo ancora, tipo settimane o mesi, non solo devi riuscire a guardarti dentro abbastanza da saper chiedere scusa, ma anche prepararti al fatto che probabilmente dall’altra parte non arriverà nulla. Sempre per il discorso che non ti fai capire, e tu non capisci perché giustamente come fai a far capire a chi non si fa capire, come farsi capire? Soprattutto se pure tu non hai il Nobel in spiegazionismo.

Trecentosessantasei e un giorno fa si banchettava per Ferragosto. Tavola immensa, finalmente una giornata di sorrisi veri e luminosi discorsi. Vino, cibo, vino, piscina, vino, caffè, vino, amaro, piscina, amaro. A fine giornata mi sentivo come si deve essere sentito James Gandolfini dopo cena in quell’hotel a Roma.
La mattina dopo, trecentosessantasei giorni fa, il Sedici Agosto Duemiladiciannove, mi sveglio affannato e stanco, e ovviamente è colpa della sequenza vino, cibo, vino, piscina, vino, caffè, vino, amaro, piscina, amaro che, dovrebbero saperlo tutti e  Gandolfini per primo, finisce con morte. Devo prendere il treno per andare a Roma e poi prendere l’aereo di ritorno. Mi accompagna alla stazione, e insieme a noi viene un’ombra enorme che oscura un sacco tutto quanto. Io fumo e non dovrei: non riesco nemmeno ad aspirare decentemente ma nonostante tutto fumo. Lei guida in silenzio, la mano destra che si nasconde tra le gambe quando non deve cambiare le marce. Entrambi sappiamo che il non aver affrontato nulla, in quei giorni, ci porterà a dover fare doppia fatica una volta che lei sarà rientrata a Lisbona. Sappiamo tutto benissimo ma facciamo gli ignoranti. Arrivati alla stazione aspettiamo il treno insieme, come sempre, come se nulla fosse. Di nuovo ci sono il distanziamento sociale prima del Corona, e pochissimi tentativi di approccio. Il treno arriva più stanco di noi, stancamente apre le porte e il caldo dentro è la prima cosa che mi disturba, il primo indizio che non colgo: sembra di camminare dentro la marmellata, sudando un sacco provandoci. Ci salutiamo mestamente, e mestamente mi siedo a uno dei primi posti che trovo. Non mi va di girare a vuoto per vedere il vuoto che c’è intorno. Nello scompartimento ci siamo io, un ragazzo con gli auricolari che dorme e una signora intenta a fare *bling bling* col giochetto sul telefono.
La seconda cosa che mi disturba è il fatto che non ci sia segnale di aria condizionata: metto la mano sotto il bocchettone come farei per vedere se una persona respira ancora, e spero che in quel caso il risultato sia ben diverso dal momento che aria, da lì, non esce. Mi tolgo zaino e borsa, li metto sulla rastrelliera e mi siedo. L’ultimo indizio, che a questo punto trasforma il tutto in una prova, è il fatto che i finestrini siano chiusi ermeticamente.

Vado in tilt.

Il mio cervello non riceve più segnali utili tipo “Jacopo se non qui, magari da un’altra parte c’è aria, o un finestrino aperto” no, lui cerca la soluzione immediata, sente che qualcosa non va e pensa alla sopravvivenza di tutto il sistema corpo. Quindi riprendo zaino e borsa, che in quel momento pesano come tutti i sensi di colpa della mia vita, e imbocco il corridoio direzione capotreno. I vagoni sono vuoti, lunghissimi e caldi come la febbre, non finiscono mai, mi sembra il treno più lungo del mondo, i battiti impazziti del mio cuore mi stanno trapanando le orecchie e vorrei solo che alla fine ci sia un capotreno fatto di ghiaccio, ossigeno e con la voce di Elodie che mi abbraccia e mi sussurra che andrà tutto bene. La capotreno invece, che trovo dopo quattordici chilometri, non ha voce di Elodie né sembianze rinfrescanti, e quando mi guarda per rispondermi che al massimo può provare ad alzarla un po’ fa una faccia che non mi piace per niente.

“Si sente bene?”

Non mi sembrasse di stare per essere colpito da un acuto attacco di morte, mi offenderei per quel lei.
Invece non me ne frega un cazzo, potrebbe pure darmi del merda ma io voglio solo l’aria e poi giuro poi sto bene davvero. Anche se sento che mi serve altro, ma non so cosa.
Lei riprende il suo giro dopo che io declino la sua proposta di farmi scendere alla prossima, chiamando intanto un’ambulanza.
Comunque scendo.
Sono passate solo quattro fermate ma mi sembrano due giorni di viaggio ormai.
La chiamo.

“Sto male.”

Tutto quello che c’era stato fino a quella mattina, quell’ombra nera sopra di noi, sparisce.
Mi tiene compagnia mentre non so cosa fare.
Sono fermo alla banchina nel punto dove sono sceso e non so che fare.
Sudo, ho il cuore a mille, il respiro più corto del mio pene e

non
so
che
fare.

Grazie a dio lei è lucida e mi consiglia di prendere il primo treno per tornare indietro, e saremmo andati insieme al pronto soccorso.
Bisbiglio qualcosa, va bene ecco il treno per tornare, sono salito, mi tieni compagnia?

Salgo e mi fermo subito tra due vagoni, davanti alle porte, dove un mamma nera enorme e bellissima tiene in braccio una bimba, con l’altra mano tiene il passeggino e con gli occhi severi guarda il più grande, che mi fissa. Quei due occhietti teneri aggiungono ansia all’ansia all’ansia all’ansia e adesso non riesco a pensare ad altro che alla morte, alla morte dietro l’angolo, dietro il corrimano curvo che porta al secondo piano del vagone. La morte che mi fa rodere il culo, mi prenda così, che non sono felice, che non so come risolvere delle cose che però voglio provare a.
Solo che, sarà perché sto su un treno in Italia, la morte non arriva quando te l’aspetti.

Solo ansia.

Sudo tantissimo.
Lei mi consiglia di prendere qualcosa con dello zucchero, che chiedo alla mamma davanti a me. Mi guarda come se fossi un tossico e solo ora mentre lo scrivo mi rendo conto che in quel paese di merda che è l’Italia, a lei quello sguardo lo rivolgeranno cento volte al giorno.
Lascia il passeggino e fruga nella borsa, mentre con la coda nell’occhio tiene sotto controllo i tre figli e me, che sudo tantissimo e sto letteralmente facendo cadere a terra zaino e borsa. Mi dà una mou, la ringrazio, mi metto in un angolo e la mangio.
Mi fa schifo, mi viene la nausea, la sputo senza farmi vedere ma non ci riesco, perché me la sputo malamente sulla mano e la mamma se ne accorge, aggiungendo orrore al suo sguardo.
Sudo tantissimo.
Nel frattempo lei è ancora al telefono con me, telefono che mi scivola da mani e orecchie perché sudo tantissimo.

“Non ce la faccio, scendo alla prossima, se vuoi vieni qui.”

Scendo e non ci penso due volte, anche perché è l’unico pensiero che ho: vado sparato verso la guardiola della polizia. Balbetto qualcosa a lei e attacco.
Appena entro, dimentico dell’erba legale e non nella tasca del mio zaino, uno di loro mi guarda e capisce.
“Siediti, chiamiamo un’ambulanza.”

Da lì solo terrore e disperazione: la faccia dell’infermiera appena scesa dall’ambulanza, la sua faccia ancora più contrita quando vede i battiti di cui non mi dice il numero, ma solo “dai andiamo a farci un giro va”.
E da lì l’orrore mentre capisco che mi vuole mettere la cannula della flebo (ancora ricordo il punto esatto di dov’era infilata nel mio braccio), l’essere portato dentro il Pronto Soccorso, la caposala severa e gentile che mi fa l’elettrocardiogramma, la dottoressa severa e stronza che dopo un paio d’ore di attesa, senza farmi entrare nello studio, annuncia davanti a tutti che quell’ECG non le piace proprio, e quindi sta me dimettermi o rimanere per tre prelievi, uno ogni sei ore. Anche qui non ci penso su troppo, e le dico che rimango.

Trecentosessantasei giorni fa, il Sedici Agosto Duemiladiciannove, ho avuto il mio primo attacco di panico e ho passato diciassette ore al Pronto Soccorso, facendo tutti e tre i prelievi, conoscendo fin troppa gente col mio stesso cognome (persino l’ospedale, aveva il mio stesso cognome), facendo amicizia con i pazienti e andando ogni tanto a rubare un po’ di pietà da lei, che delle diciassette ore se ne fece parecchie aspettandomi, preoccupata almeno quanto me.
Non ho niente, sto bene e ho imparato a gestire quei momenti, per fortuna rari, dove capisco che c’è qualcosa che non va.
Ci ho ragionato tanti dei trecentosessantasei giorni che son passati e fin da subito era chiaro che fosse tutto nella mia testa. Che la situazione non poteva essere (non)gestita in quel modo. Che bisognava tirare via un respiro profondo e un sacco di cose dalle spalle.

Oggi, Sedici Agosto Duemilaventi, dopo trecentosessantasei giorni da quel giorno in cui morire era l’opzione migliore, in questi dodici mesi in cui son successe mille e mille altre cose son qui, vivo, comunque vegeto, con l’ansietta che fa parte della mia quotidianità e le spalle un poco più leggere.
Le colpe sono state esposte, le conseguenze son state naturali come artificiose erano le cause.
Io mi ascolto un poco di più, anche se ancora vado in palla e mi sembra di non capirci nulla.
Ho vissuto giorni peggiori, tipo quello di trecentosessantasei giorni fa.
Dovranno passare almeno altri trecentosessantasei giorni, e poi trecentosessantasei ancora prima di fare davvero i conti con quello che è successo nel frattempo. Ma il tempo è l’unica cosa che abbiamo, e farlo passare in qualche modo la miglior cura per capire ccome cazzo ci siamo ritrovati così.

Al momento so che potevamo fare di meglio, questo è certo, ma almeno ci abbiamo provato.”

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