Coi tempi che corrono

La discussione aveva preso una piega strana. Erano entrambi intensamente concentrati sull’argomento, di cui toglievano piano piano vari livelli di lettura fino a volerne scoprire il cuore. Ma l’esterno aveva cominciato a farsi intimo. I rumori della strada avevano iniziato a farsi suoni, ritmo che non andava a tempo con le loro parole.

Lui girò il cellulare, poggiato a schermo in giù sul tavolino di vetro, e mentalmente collegò i rumori che sentiva arrivare da fuori da fuori all’ora che segnata sul telefono. Alba piena. La vita si stava riprendendo quanto lasciato in sospeso il giorno prima, e lo faceva sì con calma, ma anche con la consapevolezza di chi sa che c’è un intero giorno da affrontare. Un altro. L’ennesimo. Ma non si scappa un cazzo, e la vita lo sa e te lo dice col martello degli operai nel palazzo vicino, gli spaccini che tornano a casa con la trap sparata dalle casse bluetooth, il camioncino che si ferma a scaricare le bottiglie del giorno al bar e quello della nettezza urbana che si carica quelle della sera prima. Tutto sembra scandire un ritmo che nessuno dei due aveva previsto o voluto, ovattati dalle parole dell’altro e dal silenzio della notte passata a parlare, interrotta solo da qualche ubriaco che cantava amore alla fortuna. Avevano entrambi notato quanto, post pandemia, ora che per la prima volta ci si affacciava su questa nuova normalità, le persone avessero cominciato a ululare alla luna molto presto, rispetto al pre-pandemia. Vuoi per le restrizioni sugli orari, vuoi per la voglia immensa di violarle tutte, la gente alle 22.30 era costretta a uscire da qualunque bar, ristorante o pub in cui si trovasse e tornarsene a casa. Poi sì, trovavi posti che sforavano un po’, altri che ti lasciavano portar via le cose da bere nei bicchieri in plastica chiedendoti, però, di non nominare mai il nome del loro locale invano, soprattutto se a chiederlo sarebbe stata la polizia. Erano tempi strani e incredibilmente (ma neanche troppo, col senno di poi che adesso era ora) gli esseri umani del 2020 si stavano comunque adattando.

Loro due no. E non a quello che la pandemia gli aveva lasciato addosso e intorno. Anche loro uscivano, bevevano, ballavano e sembravano più che felici che mai. Lo erano pure, in realtà, ma per la prima volta erano felici di quello che c’era fuori loro due, e non di quello che c’era in mezzo.

La discussione aveva preso una piega strana da quando, entrambi scherzando ed entrambi incredibilmente in sincrono, si erano detti ti amo. Una di quelle cose che, dopo la battuta di qualcuno, di solto dici “va beh, ti amo”. Un gergo finto giovanile, un qualcosa alla Chandler che vede Monica con la testa infilata nel tacchino gigante, quei qualcosa che poi silenziano pure gli annunci registrati che dichiarano la fine del mondo in tv:

“Le autorità consigliano a tutta la popolazione di rimanere in casa. Questa non è una simulazione. Rimanete in casa e OH MIO DIO SI SONO DAVVERO DETTI TI AMO?” e poi il silenzio, col mondo fuori che finisce scoppiando, urlando, implorando.

Il peso di quelle cinque lettere (facciamo dieci, visto il sincrono perfetto di tempi e cadenza con cui si erano scontrati), ecco il peso di quelle quattro parole dette come davanti allo specchio, nel mondo della gravità scientifica, delle cose della chimica, equivaleva a zero. Ma come per la temperatura d’estate, anche qui c’era il peso reale e il peso percepito. E quello che si sentivano addosso ora equivaleva a centotrentotto portaerei cariche e pronte ad affrontare una guerra annunciata da anni, ma ancora mai scoppiata.

Un tram rompe di nuovo il silenzio, sferragliando e tirando giù quella scampanellata tipica dei tram di Lisbona. Una lunga, interminabile trillata, peculiare alfabeto morse che in questo caso, probabilmente, si poteva tradurre in insulti per chi aveva parcheggiato la macchina troppo vicino, se non sopra, ai binari. Ma neanche quello scampanellare riuscì a tirarli fuori da quel torpore di imbarazzo. Coi tempi che correvano, ogni parola arrivava ancora più diretta. Con le loro esperienze alle spalle, fatte di delusioni che simpaticamente e in maniera assolutamente originale lui etichettava come “prendersela nel culo”, ogni cosa che sembrava avere una base di solida positività (un datore di lavoro che vuole metterti in regola e pagarti, un amico che ti fa i complimenti per qualcosa, un ti amo detto sorridendo) diventava immediatamente una cosa di cui preoccuparsi. L’idea e il terrore di chinarsi a raccogliere quel piccolo fiore di gioia, sicuri che i pantaloni si sarebbero stracciati insieme alle mutande e subito dopo un forte, improvviso dolore nel retto che si sarebbe palesato in tutta la sua brutalità, senza nemmeno la soddisfazione di un poco di piacere prostatico.

Coi tempi che correvano era più facile credere ai fantasmi, che godersi la fisicità delle cose. I fantasmi son pure più comodi, che li vedi solo tu e nessuno dovrebbe biasimarti se ogni tanto, nel cuore della notte o nel culo del giorno, ti trovi con l’ansia e l’extrasistole che nemmeno il miglior olio essenziale di biancospino può riparare. Nessuno dovrebbe prendersela, se quei fantasmi ti paralizzano di tanto in tanto, semplicemente perché ognuno ha i suoi, e ognuno li combatte a modo suo. C’è chi se li va a cercare nella casa dei ricordi che casca a pezzi, scendendo in cantina se sente un rumore. C’è chi li evita, e si crea i suoi mostri che almeno lo distraggono dai fantasmi, trovando un’altra cosa da combattere, o evitare. Perché poi c’è chi, appunto, vorrebbe solo scapparne ma non ci riesce, perché i fantasmi son bravi a tormentarti, anche e soprattutto quando non ne vorresti sentir parlare.

Coi tempi che correvano, i fantasmi erano molto meglio delle cose vere.

Ma era pure vero che i tempi che correvano sarebbero stati altri tempi poi. Erano stati altri tempi, prima. Una volta, qui, era tutta campagna marketing. Si vendevano i sentimenti un tanto al chilo, signora mia. Tutti dicono di cambiare affinché le cose cambino davvero così velocemente da far sembrare tutto fermo.

Ma le cose cambiano, alla fine.

Chiamala entropia, chiamala telepatia, chiamala come cazzo te pare, amica mia, ma le cose stanno ferme per cambiare e noi possiamo pure stare qui a farci spaventare dai fantasmi, oppure capire che ‘sto peso sulle spalle ce lo possiamo togliere con un sorriso e un abbraccio, con il parlare senza freni, senza inibizioni per le proprie figure di merda, senza giudizio per quelle dell’altro. Ce le possiamo togliere, queste portaerei sulle spalle, con delle cose sotto le coperte che rimangono lì, che è il posto loro, dove lasciarle per ritrovarcele la volta dopo e quella dopo ancora, portandone altre ogni volta. Le cose cambiano e cambiano pure dopo un ti amo così sincronizzato che a confronto i tuffatori alle olimpiadi sembrano in differita l’uno con l’altro. Però non è che se le cose cambiano, dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento nei loro confronti. Quindi che ci si voglia bene, ecco, l’importante è questo, compagna mia.

Facciamo che ci vogliamo bene e che sia il resto, per una volta, a prendersela nel culo.

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