Una Teoria del Cactus

New Girl, stagione 1, episodio 14.

Nick Miller, colui il quale riesce a rappresentare tutte e cinquanta le sfumature dei maschi trentenni bianchi, etero e soprattutto cazzoni, si frequenta con una ragazza bellissima.  Avvocatessa, impegnatissima con il suo lavoro, riesce comunque a dedicarsi a Nick, colui il quale lavora in un bar, sogna di diventare scrittore e che io ancora non ho capito perché gli autori non lo abbiano chiamato Jacopo.

Insomma Julia, la ragazza di Nick, parte per un viaggio di lavoro e gli invia un cactus, come regalo. Nick, che non sa prendersi cura nemmeno dei suoi vestiti, immagina sia un segnale che lei voglia finire la loro storia.

“È un test”, pensa Nick.
Un test per vedere se so prendermi cura di una pianta e, sapendo già che non sono in grado, per arrivare a lasciarmi.
E in tutto questo, mentre formula questa teoria solo dopo pochi minuti aver ricevuto il cactus, comincia ad annaffiarlo pesantemente per poi farlo cadere a terra, spezzandolo in più parti.

Ora, già solo questo rende perfettamente l’idea di quanto un uomo come Nick (come me, come la maggior parte dei trentenni cresciuti a metà, quelli che hanno una bustina di plastica come portafogli e nessuna idea di come si paghino le tasse) possa autodistruggersi nel giro di due minuti. Far implodere una storia bella, con solide basi solo perché non riesce a smettere di pensare a quanto tutto non gli spetti. A quando arriva la gioia e tu non sai cosa fartene, che sembra un meteorite rovente caduto tra le tue mani e ne rimani abbacinato dalla luce per tre secondi, e poi le mani ti si sciolgono e muori di radiazioni soffocato dal tuo stesso sangue.

Nick soffre della sindrome dell’impostore: quando ti capita qualcosa di bello (una relazione, un nuovo lavoro, un progetto in cui ti includono) godi della luce riflessa di quella gioia. Lo specchio su cui sbatte la luce, però, ti acceca il giusto per non farti vedere la tua immagine per quella che è e cioè degna, meritevole di quel calore. Vedi poco, male, e ti pare di non meritare di essere lì. Non realizzi che basterebbe girarsi, mettersi un bel paio di occhiali da sole e godersi quel bello direttamente, avendo la giusta dose di orgoglio per meritarsi quella luce.
E quindi Nick, che sono io e blablabla, di impanica così tanto che comincia a lasciare a Julia una serie di messaggi in segreteria uno più imbarazzante dell’altro, partendo dal primo che dopo una serie di frasi sconclusionati (tra una supplica di non lasciarlo e un passivo-aggressivo mettere le mani avanti) conclude con un “I love you”.
Da lì, a cascata, altri messaggi pieni di insicurezza, disagio, incapacità di saper gestire le proprie emozioni traducendole in mugugni e scuse e paura.

A fine puntata, quando Julia ritorna all’appartamento nemmeno entra, lasciandosi sulla soglia con la valigia: spiega a Nick che il cactus era semplicemente un regalo, che le faceva piacere inviargli, ma che la sua reazione l’ha spaventata al punto che adesso sì, forse è il caso di finire la loro storia in quel momento.
E se ne va.

La reazione di Nick è quasi cartoonesca, con una finta calma esterna che comincia a creparsi dopo pochi minuti fino a terminare in un pianto disperato.

In sostanza Nick sono davvero io, è davvero la maggior parte dei trentenni cresciuti a metà, quelli che hanno una bustina di plastica come portafogli e nessuna idea di come si paghino le tasse.
Nick non riesce a tradurre un suo sentimento in questo caso positivo, come la reazione che ti provoca il ricevere un regalo. Ma visto che il regalo è qualcosa che si crede non essere in grado di gestire, allora è un messaggio. Ovviamente negativo. E le emozioni diventano molte di più, e molto più complicate da tradurre.
Mandando tutto in merda, auto-distruggendosi fino all’ultimo atomo rimasto. Riuscendo a trasformare una cosa decente in una montagna di merda che il Triceratopo di Jurassic Park in confronto era stitico.

Lo so, è una Teoria del Cactus, ma a trentacinque anni per un maschio bianco, etero, cis e con la paura delle altezze e dei ragni, è già qualcosa.

Santo Mai: di uomini, ciclo e donne.

Io non lo che cosa vuol dire avere il ciclo.
Di certo non so di dolori e sangue che mi esce dal pene. Sverrei per cinque giorni al mese.

Ma a livello emozionale, di quello che senti e provi, anche solo livello sensoriale, boh, a volte penso di avere un vago sentore di quello che vuol dire stare nella testa di una donna una volta al mese.
Gli altri 25 e spicci non lo so eh, quello rimane un mistero ancor più misterioso.

Però ecco, qualche sera fa son passato dall’iperattività di non avere canne nel giorno di riposo, e quindi trovandomi a staccare e risistemare le foto sul muro, disfare e rifare l’armadio, uscire di casa e girare, alla voglia di morire sotto un piumone, mangiando cioccolata e facendomi mancare ogni singola ex mai avuta in vita mia. Ho lavorato, passando dall’essere super felice di servire gente, e arrivando a non vedere l’ora di andarmene per non ammazzare qualcuno a mani nude.
Volevo un taxi che, per miracolo, vedo arrivarmi incontro. La gioia, il tripudio di dopamina.
Rallenta, accosta, poi all’improvviso cambia la luce del tetto da verde a rossa, si reimmette in strada e tira dritto.

Rimango immobile a fissare il punto in cui si stava per fermare, tipo Giovanni quando trova “non una, tre!” righe sulla macchina. Inizio la discesa di Voz do Operaio che mi viene da piangere. Arrivo a metà che la lacrimuccia sta proprio lì lì. Poi faccio un respirone, mi monta la rabbia e poi, fulmine a ciel sereno, mi ricordo che non ho portafogli dietro. Il taxi lo avrei pagato col cazzo, immerso nella merda della figura grama che avrei fatto.

Mi rilasso.

Passo davanti Ti-Natércia, guardo dentro ma ovviamente è troppo tardi. Di acceso è rimasta solo la luce d’emergenza, che illumina il locale poco, di una sfumatura blu, che sembra quasi abbiano acceso gli ultravioletti dopo aver spruzzato il luminol, in cerca di tracce di un delitto appena compiuto. Passo, penso questo e mi dico che Tina è uno dei miei tanti luoghi del delitto di questa città. Di tutte le volte che ci sono stato, mi viene in mente subito quella con la mia famiglia e lei. Una delle migliori, poche serate da quando si stava insieme qui.

Tiro dritto.

Mi risale la tristezza, Lisbona è vuota come gli scaffali del mio reparto certezze. Incrocio solo una volante, da cui il passeggero mi guarda mentre cammino senza mascherina. So che non mi dirà nulla, ma comunque mi sale un po’ della classica tensione che arriva quando mi trovo a tiro di una guardia.
Li becco di nuovo di nuovo poco più avanti, incespico nei sanpietrini proprio mentre gli passo vicino. Sento il sangue affluire tutto insieme in faccia, con una botta di caldo inaspettata.

Mentre scendo da Santa Luzia, ripenso alla serata e per tutta una serie di cose mi viene in mente che, alla fine, le delusioni maggiori le ho avute da figure maschili. E non parlo di quelle fondanti, tipo mio padre, esempio perfetto di quanto una figura che più vicina di quella paterna c’è solo mamma, possa allontanarsi all’improvviso lasciandoti talmente basito che gli sceneggiatori di Boris perderebbero i sensi, per il colpo di GENIO! così de botto, senza senso.
Parlo anche di amici, semplici maschi che ho conosciuto e che dopo pochi mesi mi han fatto cascare ogni ottimo giudizio che mi ero fatto di loro, oltre che i coglioni con un gran tonfo.

Ma visto che non mi escludo mai dall’equazione di nessun giudizio che mi creo degli altri, ovviamente mi dico che anche io ho deluso uomini, donne e bambini eh.
Santo mai, stronzo a volte.

E penso che sì, certo, anche le donne mi hanno ferito tantissimo. Mi hanno straziato, sorpreso, usato, si sono approfittate di me ma anche qui. Santo mai.

Però se devo pensare a quali persone mi han lasciato a bocca aperta, la maggior parte aveva il cazzo. Ma non le palle.
Maschi che ci han provato con la mia ex fresca di un giorno, o che lo facevano con una con cui ero insieme in quel momento.
Maschi che per stare con la loro partner hanno pisciato in testa a tutto e tutti, provando pure a dire che fosse pioggia.
Maschi che nel momento del bisogno mi han voltato le spalle, maschi i cui silenzi mi hanno assordato, maschi le cui urla mi hanno ammutolito.

Non siamo tutti uguali, sia chiaro.
Guardo ai miei amici, quelli che oltre un pene hanno anche le palle, quelli che nonostante li abbia delusi io mi han sempre preso per i capelli e tenuto lì con loro. Nonostante fossi da buttare perché già gettato da qualcun altro, loro mi hanno riciclato e dato nuova vita così tante volte che la plastica a confronto si consuma prima.

E le donne nemmeno, sono mai le stesse.
La teoria per cui, presi per genere, siamo tutti uguali tra di noi, non regge.
Con un minimo di consapevolezza di sé, non ci vuole molto a considerarsi diversi anche dal nostro amico più intimo, vicino, quello che ogni cosa si sia detta in sua presenza la si è detta insieme.
Nemmeno io e mio fratello che santiddio abbiamo lo stesso sangue, siamo poi così uguali.
Se mi fermo a pensarci, mi ritengo invece quasi più simile a tante mie amiche per stile di pensiero, modo di agire, ragionamenti.

In questo periodo mi ritrovo, e per fortuna, a confrontarmi con alcune donne completamente diverse tra loro per carattere, personalità, esperienze, età. Eppure più ci parlo e più vedo i punti in comune tra loro e me, ed è proprio questo il motivo: ci parlo. Il dialogo, il confronto anche duro. Le critiche.
Noi, tra uomini, non ci si critica. Al massimo si accentua il mostrare i propri pregi, le nostre capacità, ci si pavoneggia e ci si paragona agli altri. Ma va sempre comunque tutto bene (il capo è stronzo ma contento, la Roma vince, la tua ragazza ti aspetta a casa con la cena pronta) e quindi non c’è confronto, e senza confronto non ci si guarda poi nemmeno allo specchio.

Parlare con le donne invece ti mette spesso di fronte ai tuoi difetti. Magari sei lì che pensi che bello sarebbe star nudi tutti e due e invece ti ci ritrovi solo tu senza qualcosa addosso, spogliato di alcune certezze, e la cosa ci fa sentire un po’ di quel freddo da cui spesso, infatti, scappiamo.
Ma basta imparare a reggere le botte, una dopo l’altra.

Quando quella che poi sarebbe diventata la mia migliore amica mi ha rifiutato con una classe tale che quella in cui saremmo rientrati da lì a poco, dopo l’intervallo, sarebbe sembrata una baracca.
Quando mia madre mi ha guardata delusa per la mia ennesima cazzata adolescenziale, e ho sentito che qualcosa dentro di lei, anche se piccolo e molto in fondo, si era rotto.
Quando non mi si alzava per l’ansia e i pensieri, mi sono ritrovato a essere coccolato, ascoltato, compreso.
Quando trovo chi mi apprezza per quello che sono, mi fa dei complimenti e allo stesso tempo riesce a farmi stare coi piedi per terra, senza idolatrarmi o riempirmi di cazzate solo per riempire qualche silenzio.
Quando dentro mi rimangono i silenzi di donne che se ne sono andate per davvero, più che le parole di uomini ancora in vita.

Proprio qualche giorno fa, una donna con cui (e per fortuna di nuovo) ho la possibilità di confrontarmi, ha detto una cosa che mi ha fatto molto pensare.

“Le donne agiscono in base al contesto.”

Il discorso è poi andato avanti in modo sempre più interessante, ma questa frase mi è rimasta dentro.
Perché, semplicemente, è vero.
Per forza di cose, inteso come essere state forzate a comportarsi / agire / vivere in un certo modo a seconda di tempi e luoghi del mondo, le donne devono agire in base al contesto. E non parlo di quelle buffonate di paragoni tipo donne che non sanno parcheggiare o senza manualità per i lavori di casa, se state pensando a quello. Conosco donne che potrebbero guidare mentre montano una cassettiera Ikea senza istruzioni.
Poche eh.
Ma le conosco.

Parlo di contesti sociali, di quelli che ci mettono decenni a formarsi e che devono poi essere modificati, aggiornati, se non abbattuti del tutto. Contesti quotidiani di molestie fisiche, di sottomissione salariale, di torture psicologiche.
Mentre per noi uomini le cose son state sempre abbastanza facili (io non me la ricordo mica, l’ultima volta che mi han pagato meno di una donna, o quand’è stato che qualcuno si è tirato fuori il cazzo per strada davanti a me), le donne un poco han dovuto reagire in base a quello che succedeva loro intorno, no?
Il #metoo non è (stato?) solo un movimento di denuncia contro decenni di silenzi autoimposti per mantenere una carriera, una famiglia o anche solo la cazzo di dignità. Ma ha aperto un discorso più ampio su quanto sia effettivamente diverso il contesto in cui viviamo noi uomini e quello in cui vivono le donne. Anche se siamo nello stesso ufficio, o strada.

Io non lo so che cosa vuol dire avere il ciclo.

Mi sa che alla fine di ‘sto discorso che avevo in testa da giorni, non so manco minimamente che voglia dire essere donna. Nemmeno di striscio.
Però so come loro fanno sentire me, e non solo nel momento in cui ci si ritrova a interagire in qualunque modo. Ma nel modo in cui mi lasciano qualcosa su cui pensare, riflettere, magari cambiare. Gli strascichi di un discorso, l’odore su una felpa, un capello sul letto o un messaggio incazzato. C’è sempre margine di ragionamento, anche se a volte risulta davvero tanto, tanto difficile starvi dietro.

Però siete l’altra metà del cielo, e pure quando piove alla fine è sempre un bel vedere.

Trecentosessantasei Giorni Fa

“Era un anno fa spaccato.
Sedici Agosto Duemiladiciannove.
Che lo so che le date andrebbero scritte a numero, ma mi pare che qui poche cose vanno come dovrebbero quindi chi sono io per non rompere qualche regola?
Ti dicevo, trecentosessantasei giorni fa (che quest’anno non fosse abbastanza demmerda ha pure un giorno in più), avevo preso un treno la mattina. Ero al paese della mia ex ragazza, e dovevo tornare qui a Lisbona per ricominciare a lavorare.
Le premesse per quello che è successo poi c’erano tutte eh, e suoneranno male ma quello era.
Non andava bene da un po’ di tempo, e i giorni della scorsa estate erano passati lenti e male. I tentativi dei mesi precedenti erano stati un buco nell’acqua, di quelli che fanno mulinello e cominciano a tirarsi dentro tutto quello che incontrano: giorni, notti, parole, approcci.
Son passati trecentosessantasei giorni, da quel Sedici Agosto Duemiladiciannove, e io di colpe me ne son fatte almeno il doppio. Colpe espiate, o per lo meno esplicitate.
Ché lo sai, mi conosci, sono duro di capoccia quando mi ci metto. Sto zitto, ho lo sguardo torvo, aspetto la prima mossa sbagliata del prossimo per incazzarmi ancora di più e sto ancora più zitto e così via. E quel periodo ero davvero antipatico.
Non cerco giustificazioni, non ne ho, ma sentirmi incompreso (perché non ci si riesce a spiegare, perché la foga di voler risolvere preso brucia ogni soluzione) e sentirmelo appiccicare addosso per tanto tempo mi ha fatto pensare che non fossi più in grado di spiegarmi per davvero. Solo che poi, quando tutto il resto del mondo ti capisce, qualche dubbio che non sia solo tu il problema ti viene.
Insomma, quei giorni passarono tra finte risate a cena con altri, e cupi silenzi quando si rimaneva da soli. Faceva caldissimo, quei giorni, e alla sofferenza di non riuscire ad avere un contatto con lei si univa un affaticamento fisico incredibile. Ricordo interi pomeriggi passati a provare a dormire tra finestre aperte e ventilatori. I passagi in cucina per prendere l’acqua, ignorandosi a vicenda quando ci si incrociava. Se potessi tornare indietro e prenderci entrambi a schiaffi giuro lo farei, perché in quei giorni stavamo decidendo di non fare nulla per provare a recuperarci e non lo volevamo capire. Ci andava bene, ecco quale è il punto. Ci andava bene andasse così, sapevamo di andare contro un muro su una macchina senza freni lanciata a folle velocità guidata da me, che nemmeno ho la patente. Solo che questa consapevolezza l’assumi un sacco di tempo dopo, e lì per lì ti pare tutto giusto quello che fai e tutto sbagliato quello che fanno gli altri. E un sacco di tempo dopo ancora, tipo settimane o mesi, non solo devi riuscire a guardarti dentro abbastanza da saper chiedere scusa, ma anche prepararti al fatto che probabilmente dall’altra parte non arriverà nulla. Sempre per il discorso che non ti fai capire, e tu non capisci perché giustamente come fai a far capire a chi non si fa capire, come farsi capire? Soprattutto se pure tu non hai il Nobel in spiegazionismo.

Trecentosessantasei e un giorno fa si banchettava per Ferragosto. Tavola immensa, finalmente una giornata di sorrisi veri e luminosi discorsi. Vino, cibo, vino, piscina, vino, caffè, vino, amaro, piscina, amaro. A fine giornata mi sentivo come si deve essere sentito James Gandolfini dopo cena in quell’hotel a Roma.
La mattina dopo, trecentosessantasei giorni fa, il Sedici Agosto Duemiladiciannove, mi sveglio affannato e stanco, e ovviamente è colpa della sequenza vino, cibo, vino, piscina, vino, caffè, vino, amaro, piscina, amaro che, dovrebbero saperlo tutti e  Gandolfini per primo, finisce con morte. Devo prendere il treno per andare a Roma e poi prendere l’aereo di ritorno. Mi accompagna alla stazione, e insieme a noi viene un’ombra enorme che oscura un sacco tutto quanto. Io fumo e non dovrei: non riesco nemmeno ad aspirare decentemente ma nonostante tutto fumo. Lei guida in silenzio, la mano destra che si nasconde tra le gambe quando non deve cambiare le marce. Entrambi sappiamo che il non aver affrontato nulla, in quei giorni, ci porterà a dover fare doppia fatica una volta che lei sarà rientrata a Lisbona. Sappiamo tutto benissimo ma facciamo gli ignoranti. Arrivati alla stazione aspettiamo il treno insieme, come sempre, come se nulla fosse. Di nuovo ci sono il distanziamento sociale prima del Corona, e pochissimi tentativi di approccio. Il treno arriva più stanco di noi, stancamente apre le porte e il caldo dentro è la prima cosa che mi disturba, il primo indizio che non colgo: sembra di camminare dentro la marmellata, sudando un sacco provandoci. Ci salutiamo mestamente, e mestamente mi siedo a uno dei primi posti che trovo. Non mi va di girare a vuoto per vedere il vuoto che c’è intorno. Nello scompartimento ci siamo io, un ragazzo con gli auricolari che dorme e una signora intenta a fare *bling bling* col giochetto sul telefono.
La seconda cosa che mi disturba è il fatto che non ci sia segnale di aria condizionata: metto la mano sotto il bocchettone come farei per vedere se una persona respira ancora, e spero che in quel caso il risultato sia ben diverso dal momento che aria, da lì, non esce. Mi tolgo zaino e borsa, li metto sulla rastrelliera e mi siedo. L’ultimo indizio, che a questo punto trasforma il tutto in una prova, è il fatto che i finestrini siano chiusi ermeticamente.

Vado in tilt.

Il mio cervello non riceve più segnali utili tipo “Jacopo se non qui, magari da un’altra parte c’è aria, o un finestrino aperto” no, lui cerca la soluzione immediata, sente che qualcosa non va e pensa alla sopravvivenza di tutto il sistema corpo. Quindi riprendo zaino e borsa, che in quel momento pesano come tutti i sensi di colpa della mia vita, e imbocco il corridoio direzione capotreno. I vagoni sono vuoti, lunghissimi e caldi come la febbre, non finiscono mai, mi sembra il treno più lungo del mondo, i battiti impazziti del mio cuore mi stanno trapanando le orecchie e vorrei solo che alla fine ci sia un capotreno fatto di ghiaccio, ossigeno e con la voce di Elodie che mi abbraccia e mi sussurra che andrà tutto bene. La capotreno invece, che trovo dopo quattordici chilometri, non ha voce di Elodie né sembianze rinfrescanti, e quando mi guarda per rispondermi che al massimo può provare ad alzarla un po’ fa una faccia che non mi piace per niente.

“Si sente bene?”

Non mi sembrasse di stare per essere colpito da un acuto attacco di morte, mi offenderei per quel lei.
Invece non me ne frega un cazzo, potrebbe pure darmi del merda ma io voglio solo l’aria e poi giuro poi sto bene davvero. Anche se sento che mi serve altro, ma non so cosa.
Lei riprende il suo giro dopo che io declino la sua proposta di farmi scendere alla prossima, chiamando intanto un’ambulanza.
Comunque scendo.
Sono passate solo quattro fermate ma mi sembrano due giorni di viaggio ormai.
La chiamo.

“Sto male.”

Tutto quello che c’era stato fino a quella mattina, quell’ombra nera sopra di noi, sparisce.
Mi tiene compagnia mentre non so cosa fare.
Sono fermo alla banchina nel punto dove sono sceso e non so che fare.
Sudo, ho il cuore a mille, il respiro più corto del mio pene e

non
so
che
fare.

Grazie a dio lei è lucida e mi consiglia di prendere il primo treno per tornare indietro, e saremmo andati insieme al pronto soccorso.
Bisbiglio qualcosa, va bene ecco il treno per tornare, sono salito, mi tieni compagnia?

Salgo e mi fermo subito tra due vagoni, davanti alle porte, dove un mamma nera enorme e bellissima tiene in braccio una bimba, con l’altra mano tiene il passeggino e con gli occhi severi guarda il più grande, che mi fissa. Quei due occhietti teneri aggiungono ansia all’ansia all’ansia all’ansia e adesso non riesco a pensare ad altro che alla morte, alla morte dietro l’angolo, dietro il corrimano curvo che porta al secondo piano del vagone. La morte che mi fa rodere il culo, mi prenda così, che non sono felice, che non so come risolvere delle cose che però voglio provare a.
Solo che, sarà perché sto su un treno in Italia, la morte non arriva quando te l’aspetti.

Solo ansia.

Sudo tantissimo.
Lei mi consiglia di prendere qualcosa con dello zucchero, che chiedo alla mamma davanti a me. Mi guarda come se fossi un tossico e solo ora mentre lo scrivo mi rendo conto che in quel paese di merda che è l’Italia, a lei quello sguardo lo rivolgeranno cento volte al giorno.
Lascia il passeggino e fruga nella borsa, mentre con la coda nell’occhio tiene sotto controllo i tre figli e me, che sudo tantissimo e sto letteralmente facendo cadere a terra zaino e borsa. Mi dà una mou, la ringrazio, mi metto in un angolo e la mangio.
Mi fa schifo, mi viene la nausea, la sputo senza farmi vedere ma non ci riesco, perché me la sputo malamente sulla mano e la mamma se ne accorge, aggiungendo orrore al suo sguardo.
Sudo tantissimo.
Nel frattempo lei è ancora al telefono con me, telefono che mi scivola da mani e orecchie perché sudo tantissimo.

“Non ce la faccio, scendo alla prossima, se vuoi vieni qui.”

Scendo e non ci penso due volte, anche perché è l’unico pensiero che ho: vado sparato verso la guardiola della polizia. Balbetto qualcosa a lei e attacco.
Appena entro, dimentico dell’erba legale e non nella tasca del mio zaino, uno di loro mi guarda e capisce.
“Siediti, chiamiamo un’ambulanza.”

Da lì solo terrore e disperazione: la faccia dell’infermiera appena scesa dall’ambulanza, la sua faccia ancora più contrita quando vede i battiti di cui non mi dice il numero, ma solo “dai andiamo a farci un giro va”.
E da lì l’orrore mentre capisco che mi vuole mettere la cannula della flebo (ancora ricordo il punto esatto di dov’era infilata nel mio braccio), l’essere portato dentro il Pronto Soccorso, la caposala severa e gentile che mi fa l’elettrocardiogramma, la dottoressa severa e stronza che dopo un paio d’ore di attesa, senza farmi entrare nello studio, annuncia davanti a tutti che quell’ECG non le piace proprio, e quindi sta me dimettermi o rimanere per tre prelievi, uno ogni sei ore. Anche qui non ci penso su troppo, e le dico che rimango.

Trecentosessantasei giorni fa, il Sedici Agosto Duemiladiciannove, ho avuto il mio primo attacco di panico e ho passato diciassette ore al Pronto Soccorso, facendo tutti e tre i prelievi, conoscendo fin troppa gente col mio stesso cognome (persino l’ospedale, aveva il mio stesso cognome), facendo amicizia con i pazienti e andando ogni tanto a rubare un po’ di pietà da lei, che delle diciassette ore se ne fece parecchie aspettandomi, preoccupata almeno quanto me.
Non ho niente, sto bene e ho imparato a gestire quei momenti, per fortuna rari, dove capisco che c’è qualcosa che non va.
Ci ho ragionato tanti dei trecentosessantasei giorni che son passati e fin da subito era chiaro che fosse tutto nella mia testa. Che la situazione non poteva essere (non)gestita in quel modo. Che bisognava tirare via un respiro profondo e un sacco di cose dalle spalle.

Oggi, Sedici Agosto Duemilaventi, dopo trecentosessantasei giorni da quel giorno in cui morire era l’opzione migliore, in questi dodici mesi in cui son successe mille e mille altre cose son qui, vivo, comunque vegeto, con l’ansietta che fa parte della mia quotidianità e le spalle un poco più leggere.
Le colpe sono state esposte, le conseguenze son state naturali come artificiose erano le cause.
Io mi ascolto un poco di più, anche se ancora vado in palla e mi sembra di non capirci nulla.
Ho vissuto giorni peggiori, tipo quello di trecentosessantasei giorni fa.
Dovranno passare almeno altri trecentosessantasei giorni, e poi trecentosessantasei ancora prima di fare davvero i conti con quello che è successo nel frattempo. Ma il tempo è l’unica cosa che abbiamo, e farlo passare in qualche modo la miglior cura per capire ccome cazzo ci siamo ritrovati così.

Al momento so che potevamo fare di meglio, questo è certo, ma almeno ci abbiamo provato.”

Quel Gran Genio del mio Amico

“Una volta un mio amico mi disse di non prendere sul serio tutto quello che diceva.
Era uno simpatico, il mio amico.
Ci siamo conosciuti da piccoli e ancora ci sentiamo spesso.
In pratica con ‘sto mio amico io ci ho fatto un sacco di cose insieme, dalle cene alle vacanze alle ore passate a parlare della vita. Si parlava di amicizia, famiglia, sesso, si è discusso di impegno politico e sociale, di manifestazioni, droghe, dividendoci una boccia di Merlot da due soldi nei centri sociali, o andando a un concerto solo io e lui, a goderci il gruppo senza troppe distrazioni.
Abbiamo intervistato gente insieme, e insieme abbiamo sbobinato l’audio.

Non è che sia sempre andata benissimo eh, sia chiaro.
Come in ogni rapporto umano ci siamo scannati, strillati contro, ci siamo odiati per giorni ma alla fine i conti con noi stessi li abbiamo sempre fatti.
Abbiamo idee diverse che cambiano ancora di più col tempo, che non riusciamo ad incastrare, che sono a volte diametralmente opposte l’una dall’altra, ma troviamo sempre una quadra su cui ragionare e poter discutere normalmente.

Insomma, ‘sto mio amico mi dà spesso dei consigli. Non perché abbia più esperienza di me, visto che abbiamo la stessa età e abbiamo fatto un sacco di cose insieme, ma ha un punto di vista tutto suo e questo mi aiuta a vedere le cose da diverse prospettive. Lui in realtà di quelli che non pensa siano consigli, ma solo le cose che gli vengono in mente. Filtra i suoi pensieri in base al suo stato d’animo e li butta fuori, parlando di quello di cui si sta parlando senza troppi giri di parole, in modo molto diretto.
Esempio: se si sta tra amici, e si parla di donne e delusioni e tragedie varie, lui avrà sempre qualcosa da dire, che sia serio o faceto, lui sta lì e qualcosa la dirà sempre. Oh, non è che poi dica sempre cose intelligenti, o illuminanti. Alla fine è un coglione, come me, e ci siamo trovati anche per quello.
Ma lui saprà comunque darti un punto di partenza su cui ragionare, discutere, confrontarsi. Poi non si risolve mai un cazzo, ovviamente, che quello lo devono fare le parti coinvolte e non è che stia qui a far miracoli.
Nessuno li sa fare.

La cosa che però mi ha sempre detto, la cosa più importante per lui che sottolinea sempre, e che son sicuro non smetterà mai di fare, è di non prendere sul serio tutto quello che dice, perché lo dice sempre filtrando con la sua testa. E, boia, siamo sette miliardi e passa su ‘sta palla verdazzurra, avoja a essere diversi tutti.
Lui però lo dice con la stessa trasparenza con cui poi mi dice di buttarmi, di fare, di chiedere, di dire, e dopo settimane mi dice che forse si sbagliava, che magari sono accecato dalla forte luce del periodo di solitudine che (ne sono certo) devo farmi, che fermarmi a respirare un secondo è sempre cosa buona e giusta. O di mollare il lavoro, e ritrovarmi poi a sentirmi dire che “aspetta, meglio aspettare un attimo”, che ‘sta situazione del cazzo non si risolve da sola e subito e mosse avventate equivalgono a un suicidio.

A volte non lo capisco, lo ammetto.
Spesso si sbilancia in consigli estremi da un giorno all’altro, a volte pure da un’ora all’altra. Per carità, persona instabile attira persona instabile, e mi trovo benissimo con lui.
Gli manca giusto un po’ di coerenza e costanza nel mantenere i suoi punti. Perché, sono onesto, dice un sacco di cose interessanti ma non è che sia così fermo nel mantenerle. Insomma, è bravo a parlare per gli altri ma parlare di lui gli fa sempre un sacco di fatica.

Per fortuna di qua ci sto io, insieme a lui, a farlo distrarre un po’ dalla sua finta serietà.
Ripeto, non è mai facile, ma non lo è per nessuno star lì a discutere con sé stessi per oltre trent’anni.”

Uno Con Due Spalle Così

“Io, in vita mia, ho avuto la possibilità di stare con delle ragazze.
Lo so, lo so.
Sounds incredible.
Comunque non tante eh, rispetto ai racconti degli amici dai quindici anni in poi, che è tutto uno scopare e dimenticarsene.
Quando mai.
Però ecco, nonostante non sia un adone pare almeno io sia simpatico, e questo si dice porti a metà dell’opera. Solo che non suono in un orchestra e quindi ‘sta seconda parte dell’opera mi torna spesso difficile. La maggior parte delle volte son state loro a fare un primo passo, almeno per farmi capire che se si erano appena tolte il reggiseno da sotto la canottiera, non era perché faceva caldo (true story!).

Ma si sa, certe cose o le impari o non saprai mai come fare in alcune situazioni.
O meglio, lo sai pure, però poi ti scatta un turbinio di pensieri e dubbi e paura del rifiuto o della denuncia e quindi non ci provi mai.
E così, più o meno, da sempre.

Poi va beh, cresci e fai cose e conosci gente e piano piano ti ritrovi a 35 anni single e con delle domande. Che uno li chiamerebbe complessi ma, di nuovo, non suonando strumenti non mi piace catalogare ‘ste cose in ‘sto modo pesante. Però ecco, uno ce pensa a certe cose.
Mi spiego meglio.

Nella fascia d’età 12 – 18, giocando a basket e avendo ancora un po’ di massa muscolare prima di trasformarmi in Christian Bale ne L’uomo senza Sonno (ma ovviamente meno fregno), stavi fisicamente messo bene. Di nuovo, non ero un adone, per la maggior parte del tempo le pischelle erano già viste come amiche e quindi pure l’altroieri si scopava ieri.
Però ho mantenuto un fisico asciutto ma con una forma decente per qualche anno.
Poi il lento declino della terza età che arriva a vent’anni, tra uffici, sedie scomode, voglia di vivere pari a quella di Monicelli in ospedale, poco sesso discreta droga e rock’n’roll mi ha portato ad avere un fisico diverso.

Qui la premessa però devo fartela: a me, di avere il fisico o un po’ di muscoli o cose del genere, non me n’è mai fregato un cazzo, sia chiaro. Ho sempre accettato il mio corpo, ci ho lavorato sicuramente poco ma non posso dire di star peggio di tanta altra gente. Diciamo che mi è sempre andato bene così e non ho mai sentito la pressione di doverlo scolpire. Non ho manco mai passato più di cinque minuti allo specchio in vita mia. Prendere o lasciare insomma.
Poi è successo qualcosa.

In tutti ‘sti mesi pesanti come un post di Fusaro, ho cominciato a guardarmi con occhi diversi. Tra tutti i vari pensieri che rimbalzano nel mio cranio enorme, alcuni tornano veloci e taglienti. Anni di battutine sulle mie spalle, sulla panzetta, sul fatto che stavo gobbo. Ammiccamenti a uomini con schiene più dritte, culi più sodi, barbe più folte. Sia chiaro eh, anche io ci scherzo e anzi, spesso mi son ritrovato a invidiare genuinamente uomini più attraenti di me. O forse è solo la mia latente omosessualità, ma pure qui è un’altra storia.

Fatto sta che ogni tanto riaffora una frecciatina, una battuta, e tutto finisce nei miei occhi quando mi guardo allo specchio. E lo schema è simile ogni volta: appena mi guardo in faccia mi dico che alla fine, così brutto non sono. Poi scendo, e subito le spalle mi rimettono coi piedi per terra. Le tiro su, comincio a ripetermi che anche solo stare così potrebbe aiutarmi ma dopo dodici secondi sono di nuovo Quasimodo che suona le campane a morte.
Arrivo alla zona panza e lì la cosa si fa strana.
C’ho i fianchetti, sempre avuti e giustificati con il termine maniglie dell’amore anche se, a memoria, non è che ci si sia aggrappata poi tanta gente. C’è quel sottile strato di grassetto sulla vita, e la cosa strana è che ci son giorni in cui mi dico che ci sta, e altri in cui mi sembra di non riuscire manco a vedermi l’uccello.
E poi il gran finale: un culo più assente di me quando andavo al liceo.

Ora, io lo so che sta roba è personale, però penso pure che vada condivisa perché in un periodo di movimenti per la parità, il confronto, l’eguaglianza tra uomini e donne ci si scorda spesso che se da una parte le donne han passato gli ultimi millemila secoli a doversi sentire in costante gara col resto del mondo, negli ultimi anni molti uomini tipo me, che sbagliano tanto ma cercano sempre di correggersi, che non sono nati imparati, che provano a stare sul pezzo di tutto quello che succede nel mondo in questi ambiti, hanno difficoltà a rapportarsi sotto questo aspetto.
Ci sentiamo fuori luogo, fuori tempo, inferiori rispetto a chi fa del suo corpo un piccole tempio. Non è un pianto, il mio, non è una critica, non è la speranza di sentirmi dire

– Ma che dici dai, sei bellissimo!

(grazie Matre)

Questo non è nulla se non un pensiero grosso come il culo che non ho e che mi pesa molto in questo periodo.

So bene, benissimo che tutto è dovuto a quello che è successo negli ultimi mesi, alla rabbia, alle delusioni, e che verrà il momento in cui nella testa scatterà qualcosa e mi ritroverò di nuovo ad apprezzarmi per come sono.

Simpatico.”