Una Manciata di Minuti

“L’altro giorno ero in un parco e a un certo punto dal cielo sono arrivati versi sguaiati e gracchianti, dal nulla. Era l’ora del tramonto, e i colori di ‘sta città a quell’ora raramente sono anonimi. Quella sera c’era tutta la scala di rosso e blu senza nemmeno l’appoggio di una nuvola in cielo. Solo rifrazione su quella che sarà stata l’umidità folle di queste sere.
Insomma, son lì a provare a non pensare quando uno stormo di pappagalli mi passa sopra la testa, in formazione, per poi dividersi senza senso (per me, stupido umano) e alcuni poggiarsi su un paio di alberi, e altri tirare dritto verso altri posti.
Sia chiaro, non è la prima volta che vedo i pappagalli in città. A Roma anni fa li vedevi solo nelle zone dei parchi, ma ormai è facilissimo trovarseli a volare sopra le macchine, per le strade, sempre al tramonto.

In quel momento però sono arrivati un po’ a squarciare il silenzio di quell’attimo, e pure i pensieri non pensieri che stavo cercando di avere. E un po’ a ricordarmi che alla fine c’è un sacco di roba, a Lisbona. Son cazzate eh, poi tu mi conosci e lo sai bene, ma son quelle cazzate che mi fan fare tutta una serie di associazioni mentali e mi portano a pensare ad altre cose, magari più importanti, magari meno, ma che arrivano sempre al punto (almeno in questo periodo) di farmi arrivare a un qualche tipo di conclusione.

Provo a spiegarti: vedere quei pappagalli così, all’improvviso, mentre ero lì a cercare di non pensare che alla fine mi pare sempre tutto uguale, ha spezzato quel non pensiero e mi son detto

– Oh, anvedi i pappagalli!

Non me li aspettavo, capito? Ché non è che sto lì a pensare tutto il tempo che alla fine, dopo piccioni, gabbiani, passeri, papere, oche, cigni e pavoni, puoi vedere pure i pappagalli.
E allora ho pensato

– Cazzo, sarebbe fico vedere i delfini, pare si facciano notare spesso nel fiume ultimamente!

Che la gente racconta di averli visti, vedi le foto sui social degli account ufficiali della città ne promuovono il ritorno, insomma cazzo i golfinhos a duecento metri da macchine e smog e umani è roba che fa impressione.

E poi ti ricordi che ‘sta città ha un sacco di cose. Ti ricordi, e allo stesso tempo lo scopri per la prima volta davvero. Scopri che c’è gente che non conoscevi e con cui all’improvviso ti ritrovi a chiacchierare per ore. Gente simpatica, gente meno, gente anonima e gente che ti rimane impressa sulel retine. Ci sono locali e posti in cui mangiare dove non eri mai stato, che ora poi per bere dopo le 20 devi per forza mangiarci qualcosa e allora andiamo allo spiedinaro, mi ritrovo in un Capoverdiano, la sera dopo in un messicano a mangiare nachos.
Ti ricordi di gente bella che è sempre stata qui, ne scopri tante cose nuove e capisci che se quella gente bella ti piaceva prima beh, adesso la ammiri e la stimi ancora di più.
Capisci che hai fatto bene qualcosa (anche se non so cosa, quando, come) e ti ritrovi invitato a casa dei tuoi amici a berti tanti bicchieri e a parlare di altrettante cose, a sentire la musica e a raccontargli delle tue decisioni.

Ti ritrovi pure a fare piani che poi non rispetti, perché vuoi un po’ di anarchia e perché trovi di meglio da fare, che rispettare i dogmi della routine pure quando stai in ferie. Monti e smonti, giri e ti fermi, capisci che intorno a te c’è sempre stata un sacco di roba che ti darebbe da fare per i prossimi decenni.

Che poi oh, son momenti eh.
Roba di giorni fa, durata una manciata di minuti.
Passa subito, veloce come uno stormo di pappagalli.”

La Morale

CR

“Mi chiedi dove sta la morale, in tutto ciò?
Dipende che intendi, per morale.
E poi dai, la morale alla fine delle storie è una cazzata. Son lineeguida, ma uno può anche non rispettarle. Magari vai fuori binario ma non ci sarà mai nessuno a dirti

– Eh però Cappuccetto Rosso finisce così per un motivo no?

Sì, perché la madre manda una ragazzina di 10 anni nel bosco vestita di un solo trench, per farsi i chilometri per andare dalla nonna. La morale non dovrebbe essere che non devi fidarti degli sconosciuti, ma che certe persone non dovrebbero fare figli.

Quindi la morale, qui, manco so se c’è.
Che poi appunto, quale?
Perché qua non c’è manco quel tipo di morale, non c’è etica, non c’è manco proprio il rispetto del prossimo su cui uno potrebbe basare i suoi valori e costruirci qualcosa.
Qui la morale non c’è, punto.

Qui c’è solo confusione, istinto, una serie di cose che invece di fare somma diventano lista di accuse da spuntare: tu sei così, tu cosà, non possiamo fare questo o quello, dovresti fare quell’altro. Non c’è una serie di più sulla destra né un uguale alla fine. E se non sai il risultato, non puoi nemmeno capire le cifre prima.

La morale mi chiedi.
Me fai ride.

Qua c’è solo cattiveria, orgoglio, codardia.
C’è l’essere convinti di essere sopra a tutto, senza essersi mai fermati un secondo a guardarsi davvero dentro. Oppure è stato fatto e quello che si è visto ci fa schifo, perché per anni si era convinti di essere in un modo e invece, guarda un po’, sei fatta in un altro. Sei una persona mediocre che vive una vita mediocre e trasforma il suo disagio con se stessa in problemi da riversare sull’altro.

Ecco guarda, se proprio ci dev’essere la morale, facciamo sia questa:

mai, mai, mai pensare di poter salvare qualcuno.
Non siamo pompieri né infermieri, non lavoriamo sulle ONG, e non sappiamo nemmeno come salvare noi stessi. Quindi la morale, o il consiglio, chiamalo come cazzo te pare, è mai essere bastone di qualcuno che invece sa camminare benissimo.
Perché alla fine pensi di essere zoppo tu, mentre l’altro comincia a correre fortissimo.”

E invece parla

“Ma perché cazzo la gente dice le cose e poi non le fa? Quale contorto ragionamento ti porta a dire, parlare, qualche disperato tentativo vuoi fare se poi, alla fine, son parole al vento?
Prendi me: mi piace parlare, ma tantissimo. Posso star lì ore a chiacchierare cambiando argomento senza grossi problemi. Ho dialettica, metto bene insieme le parole e questa cosa spesso mi ha aiutato a sembrare un po’ più meglio assai di come io sia veramente. Ma non ho mai fatto credere a qualcuno qualcosa. Non è che abbia mai detto a qualcuno

– Oh, domani non hai capito, andiamo qui e lì e anche là!

per poi sparire.
E parlo di cazzate poi eh. Nel senso, ne dico tante e in questo momento parlo di cazzate, cioè di cose stupide che sto prendendo ad esempio ora per dire che certa gente a volte dovrebbe stare zitta e basta.
E invece.

E invece parla.
Parla spesso nei momenti sbagliati, raramente in quelli giusti ma comunque dicendo vaccate, parla a vanvera pur di riempire un silenzio che magari, in quel momento, va affrontato e basta.
E invece parla.
Parla lanciando piccoli sassi che ti colpiscono senza lasciar segni, la mano subito nascosta e l’altra con l’indice alzato a roteare, della serie

– Chi sarà stato?

‘sto cazzo.
Ci siamo solo io e te qui eh.
Si poteva star zitti.

E invece parla.
Parla per riempire il vuoto che si sta per creare, parla per disperazione, parla perché non ha parlato per troppo tempo.

E tu?
Tu stai lì e ascolti.
Stai disarmato a sentire cose che ti montano dentro come il bianco dell’uovo nella ciotola, crescono dentro e rimangono appiccate, appiccose dentro la tua testa.
E mentre la gente parla tu, che hai tutti i difetti del mondo, in quel momento quasi ti incazzi e sai già che quello verrà usato contro di te nel tribunale del torto. Sarai unico imputato contro giudice e giuria e accusa tutti con la stessa faccia dura, orgogliosa, che punta il dito verso di te per rispondere alla domanda

– Può indicare la persona che si è alterata durante la discussione, portando l’accusa a pensare di avere ragione?

E tu che sei lì, solo, senza avvocato, che provi a difenderti ma scopri che in realtà tutto il processo è finto, fin dall’inizio. Costruito ad arte solo per metterti alla gogna e sperare tu venga divorato dai sensi di colpa dopo, quando il verdetto è che sei un tiranno, uno stronzo, uno che non ha lasciato spazio o parola o movimento alle persone, uno che parla per soggiogare, uno che sta zitto per ferire.

– Vostro Onore, sa che c’è? Ma andate tutti quanti affanculo!

Vilipendio!
Oltraggio!
Come ti permetti?
Adesso, basta, non parlo più!

E invece parla.

O anzi, a quel punto, ha parlato.
E non c’è appello, contro appello né tribunale speciale che possa assolverti ormai. Tutto è deciso, tutto quanto è stato già certificato: sei una merda.

La fortuna mia è che so come sono fatto, quello che ho fatto e (più o meno) quello che vorrei fare.
Ho dei punti fermi, ho provato a farci girare sopra altre persone ma tant’è, gli altri son gli altri e puoi dirgli (e non dirgli) tutto quello che vuoi.
Alla fine c’è il libero arbitrio, anche se certe persone lo scambiano per

– Io faccio come me pare, tu puoi anche morire.

senza pensare che magari un poco di empatia farebbe bene a tutti.

Ma ognuno è libero di fare come vuole, ma deve ricordarsi che ci sono sempre conseguenze per le cose dette, e anche non dette.
Perché un giorno si realizzano.
Mentre ci si sta per addormentare, mentre si scopa con una persona, mentre sembra che tutto vada bene un piccolo, piccolissimo ictus di ricordi esploderà nella testa delle persone, che in quel momento realizzeranno quanto sarebbe stato importante star zitti, per davvero.”

Ma pensa a te!

 

“Eccolo, il groppo al petto. Io la gola in questi momenti ce l’ho libera eh. È il petto che mi si contorce. È come se il cuore mi cominciasse a rimbalzare da una parete delle costole all’altra, tipo palletta di gomma lanciata con prepotenza dentro la tromba dell’ascensore. Quello, e lo stomaco che sembra avere un inizio di nausea da celiachia / sbronza / intossicazione alimentare, ma poi non fa altro che rigirarsi senza mai farti fare una vomitata liberatoria.
È un po’ la sensazione che provavo quando sapevo di dover essere interrogato, al liceo, ma non avevo fatto un cazzo di niente per prepararmi. La mattina mi svegliavo col cuore impazzito, lo stomaco in subbuglio, divorato dai sensi di colpa e dal terrore della figura di merda che avrei fatto di fronte ai miei compagni. E anche lì, non che m’importasse molto della classe in generale, ma di quelle poche persone che ci tenevano alla mia salvezza scolastica, e che puntualmente deludevo tra scene mute e ripetizioni disastrose.

Ora però quello che non capisco è che onestamente qui, io, i sensi di colpa mica ce li ho. Cioè, in questo caso specifico dico, che se poi devo pensare alla vita mia ho più sensi di colpa stupidi, meschini, cristiani che manco tutti i preti del mondo passati / presenti / futuri.
Io dico qui, ora, in questo momento storico, mi sento la coscienza abbastanza pulita but still il cuore rimbalza e lo stomaco si contorce.
Allora mi rendo conto che è rabbia. La rabbia dei finti impotenti. La rabbia di chi, diciamocelo onestamente, non è che abbia tutti ‘sti problemi nella vita a parte pochi soldi e la celiachia, e che quindi deve riversare da qualche parte le frustrazioni che la vita, e qui non c’è un cazzo da fare, le frustrazioni che la vita ti spinge nel culo.
Ognuno reagisce come meglio crede, ma io onestamente quelli che non soffrono per amore, o dicono di non soffrire per amore, ecco io a quelli gli spaccherei la faccia. Ma senza pensarci eh. La soglia del dolore è unica per tutti, quindi c’è chi (tipo me) si lamenta per una scheggia nel polpastrello, e chi sbatte la testa una cappa troppo bassa e non fa un fiato.
Però in amore non può esserci soglia del dolore dai. L’amore è quella merda totale che ti fa sentire vivo e bene e intorno tutto è un cazzo de arcobaleno e orsacchiotti di gomma poi quando finisce è il Sottosopra di Stranger Things e quindo o sei Eleven e c’hai i poteri e riesci in qualche modo ad allontanare i demoni (soffrendo e sanguinando e perdendo la retta via), oppure sei Duftin che strilla a ogni rametto che scrocchia e speri solamente che presto presto prestissimi qualcuno ti si porti via da quel luogo di morte e distruzione e immagini della tua ex che si fa ingroppare da Costaricani belli e neri come la morte.

Ecco vedi, poi ti ritrovi a pensare a ‘ste cose mentre il mondo ti strilla “pensa a te! pensa a te!” e tu a te ci stai pensando, solo che è un te pieno di voglia di vendetta tremenda vendetta ma non stai nell’età della pietra, non hai una clava in mano e per queste cose le rivolte in piazza non si fanno.
Io a me ci penso sempre tutti i giorni perché quello che penso son cose che mi riguardano e quindi, di conseguenza, pure se delocalizzato come un call center a Tirana negli anni 2010, io sto lì nei miei pensieri. Sono centrale e lontano allo stesso tempo, ma anche se penso solo ed esclusivamente a un’altra persona, a che fa, a quello che dovrebbe fare per, alla fine parliamo di una persona che conosce me, con me che la penso e che le auguro il meglio (o il peggio) e sempre con me che dovrei pensare più a me, è vero.
Se penso alle volte che ho pensato agli altri e mi son messo in disparte, anche solo in testa, per cinque minuti beh, in effetti son 300 secondi che potevo farmi (e letteralmente eh) i cazzi miei.

E poi ho notato una cosa, un cosa che prima non avevo e invece adesso guarda un po’. A volte mi pare io mi scordi di respirare. Pare possibile? Pare. Sono lì che guardo un Netflix, o che magari sto provando anche a dormire, ed ecco che il cuore batte due colpi della serie “ehi zio, manca ossigeno” e BAM! ti ritrovi a tirare una boccata d’aria così intensamente che nemmeno Sasha Grey agli esordi.
È la prima volta, dall’attacco di panico, che la merda in testa scende nel corpo e lo confonde, lo spiazza e gli fa dimenticare anche le cose basilari come respirare.

Roba strana la testa eh?
Certe volte penso di averla troppo piena, altre volte troppo vuota, di sicuro ci passa un botto di roba e forse è per quello che poi deve scendere giù a farmi rimbalzare e contorcere tutto.
Che fuori ridi e scherzi e dentro c’hai solo morte e distruzione.
Oh, uno poi ne esce eh. Uno ne esce sempre.
Come la merda, come l’aria dai palloncini, come i ricchi, come i bianchi, come non fosse mai successo.
Però intanto succede e allora un qualche modo lo devi trovare, per uscirne il prima possibile, e forse il modo migliore rimane smettere di empatizzare e diventare egoista, pure se non sai come si fa e lo fai male. Però ecco, l’unico modo per uscirne è fare lo stronzo, che tanto c’hai una scuola intorno che non chiude mai, manco con la pandemia.”

Dieci anni di Musica, secondo me

Niente protagonismi.
Leggerete nemmeno troppo tra le righe che non sono certo un critico musicale.
Sono solo un criticone, di solito.
Però la Musica è un bel pezzo di vita mia, le liste mi fanno impazzire e l’Alzheimer è alle porte, quindi lascio qui questa traccia sulle tracce principalmente per me.
E magari per dare qualche chicca a voi.
Bonus: cliccando sul titolo del disco di ogni artista, verrete portati sul tubo e più nello specifico alla mia traccia preferita di quell’album.

Arctic Monkeys – AM (2013)

Il disco in cui lasciano le cantine e si prendono i palchi.
Si pettinano, si mettono le giacche di pelle e tirano fuori uno dei dischi più importanti dell’anno 2013, della decade che si chiude e più in generale della storia della musica. Un passaggio di consegne tra loro e loro stessi, con l’eco di quattro album alle spalle che si aggira per le tracce di AM e le prima sonorità che avrebbero invece riempito quel gioiello che è Tranquility Base Hotel & Casino. Un colpo di coda pieno di rock, ballate e testi fuori dal comune, pieno di quell’acido da gastrite che senti quando capisci che stai crescendo, e devi farci per forza i conti.


Willie Peyote – Educazione Sabauda (2015)

Anche questo un disco di transizione. Guglielmo era partito l’anno prima con Non è il mio genere, il genere umano, e prima ancora con un gruppo punk. In mezzo, un gioiello raro che è la sua partecipazione come cantante nel progetto Funk Shui Project.
Qui arriva prendendo tutto quello che ha imparato e lo mette in rima, e in riga. Una tracklist piena di rap, cantautorato, ironia, ma soprattutto intelligenza: nel mettere insieme concetti profondi e ritornelli leggeri, citazioni di Guccini e audio dal film Santa Maradona, nel cucire insieme la scena indie / rap italiana, la politica, i vizi di un popolo poco educato.


Kendrick Lamar – DAMN. (2017)

Io sono ignorante come la merda. Faccio le classifiche delle cose e realizzo che Kendrick prima di due anni fa mi era praticamente sconosciuto. Ormai ascolto sempre la stessa roba, e graziaddio ho un amico così in fissa con l’hip hop ben fatto che alla fine qualcosa di nuovo, in questo capoccione, ci entra.
Ed ecco infatti che Kendrick mi ha fatto prendere un aereo in più oltre a quello che avevo per Lisbona: un Roma – Londra – Roma – Lisbona che difficilmente dimenticherò, così come il concerto all’O2 Arena, uno dei più belli della mia vita.
DAMN. è un disco così importante per la storia della musica, che mi sento uno stronzo anche solo a parlarne. Per me è stato scoperta, emozione, rabbia e tante belle cose che mi son rimaste appiccicate addosso. È stato enorme, gigantesco e allo stesso tempo così piccolo da insinuarsi in tantissimi momenti dei miei ultimi due anni su ‘sta terra dove tutto quello che succede, qui rimane.


Bud Spencer Blues Explosion – Fuoco Lento (2011)

Due anni prima Adriano e Cesare avevano tirato fuori un gran bel disco che li aveva portati direttamente sul palco del Primo Maggio nel 2010, e dove per la prima volta dimostrano a tantissima gente quanto potente può essere un duo. Quel duo, dal vivo.
Per questo, pochi mesi prima di pubblicare il loro secondo, per me miglior disco (Do It – Dio Odia I Tristi), pubblicano la registrazione di un live elettrico, caldo e potente come un fulmine. Una tracklist breve ma intensa, fatta quasi tutta di cover, un pubblico infoiato che fa casino almeno quanto quei due sul palco. Di quelli a cui avrei potuto assistere, questo live al Circolo degli Artisti è uno dei miei più grandi rimpianti. Ma poi mi son rifatto per bene intervistandoli l’anno dopo.

 


Mac Miller – Swimming (2018)

Ok, lo ammetto. Mac Miller l’ho scoperto due mesi fa grazie ai Tiny Concert di NPR Music. E sono rimasto folgorato. Non avevo idea di chi fosse, di che musica facesse, ma quei diciassette minuti mi hanno impressionato, emozionato, allibito. Una potenza di liriche impressionante, una facilità di composizione e realizzazione rari, per un ragazzo di 26. Non avevo idea di chi fosse, e scoprire che pochi mesi dopo quel live è stato trovato senza vita per un overdose di droghe e alcool, mi ha distrutto come se se ne fosse andato un carissimo amico che non sentivi da anni, ma che sapevi avrebbe fatto grandi cose, prima o poi.


Jovanotti – Ora (2011)

Va beh, Lorenzo.
Vi vedo storcere il naso fin da qui.
Il fatto è che ok, Lorenzo Cherubini è ormai parte del mio organismo, sta nel cuore e in testa e nel fegato e nei polmoni, anche se da parecchio tempo non lo seguo come prima.
E anche nel 2011 me l’ero un po’ perso: Safari, 3 anni prima, era stato un bel disco dopo un po’ di roba che mi aveva effettivamente rotto il cazzo, tra singoli forzati e ballate strappa palle.
Ora cambia tutto, prende quello che sapevamo di Jovanotti (la gioia, l’infantile voglia di divertirsi e far divertire, una cultura musicale ampissima) e lo mette sul piano dell’elettronica, della festa su disco, di un disco da mettere alle feste che è già festa di per sé.
Fu anche l’ultimo suo concerto a cui andai, e mi sono divertito davvero tanto. E Jovanotti pure.


Colle Der Fomento – Adversus (2019)

Aspettare 11 anni per qualcosa dovrebbe essere illegale. Però loro sono il Colle der Fomento, hanno fatto 4 dischi in 23 anni e ogni volta hanno cambiato le carte in tavola. Il gioco è lo stesso, quello del rap, e ogni volta che scendono in campo è come l’Italia dell’82: fa scuola.
Danno e Masito, questa volta con Dj Craim ai piatti, tirano fuori il disco della maturità, quello adulto, direbbero i critici veri. Quattordici tracce pensate, ragionate, filtrate, curate fino al più piccolo dettaglio. Ognuna è un colpo alla testa e uno al cuore, dove Masito per la prima volta sembra essere il protagonista di una storia personale, sua, che diventa immediatamente di tutti, con Danno a fare spesso da gregario ma senza mai mancare un colpo, sempre pronto a coprire le spalle al compare di una vita.
Un disco bello, che affonda le radici nell’hip hop più puro e lo mischia con l’autorialità romana, sanguigna, de còre.

 


A Casa Tutto Bene – Brunori Sas (2017)

Il disco che mi ha fatto ricredere sulla musica italiana, quella dei cantautori capelloni che parlano di dolore e sofferenza. Il disco che ha iniziato ad accompagnarmi che era già uscito da un annetto, e che non mi si è staccato più di dosso. Certo, sembra di sentire De Gregori da giovane, ma non per forza è un difetto: Brunori riesce ad attingere da tutto quel cantautorato da voce stanca e spezzata, e lo porta a un livello nuovo. Almeno per me, che lo odiavo fino a due minuti prima.
Un album pieno di parole belle, di concetti personali, di emozioni globali che vanno dall’amore fanciullesco a quello omicida, dalla canzone impegnata a quella spensierata.
Un bel disco, davvero.


Dutch Nazari – Amore Povero (2017)

La prima volta che ho sentito “Proemio” credo di essere svenuto. Troppa roba tutta insieme, e messa insieme così bene da farti vergognare di aver anche solo pensato, anni fa, di iniziare a scrivere.
Dutch Nazari è forse quello che più di tutti, senza una chitarra e senza la voce, fa il cantautore con il rap. Riesce in qualche modo a tessere trame complicatissime ma di magnifica realizzazione. Quadri complessi fatti di giochi di parole, intrecci di rime che sembrano non arrivare mai, pennellate di ironia, sferzate su sesso, amore, politica, sociale che una volta esposti li vedi e ci rimani di stucco. Magari lì per lì non li capisci nemmeno subito, ma non è mica arte contemporanea che pensi “se va beh, questo lo sapevo fare pure io!”. Eh no, col cazzo. Questo lo sa fare solo Dutch, e lo fa di cristo.

 


Apollo Brown – Clouds (2011)

Che uno scorre la playlist e si sente male. 27 tracce ventisette che io, da ignorante come la merda come sempre, a non sapere chi fosse Apollo Brown ci son rimasto secco.
E invece è una strumentale lunghissima, un susseguirsi di basi che prima o dopo tutti nel mondo hip hop hanno usato. Brown è un misto tra un compositore e un produttore, qualcuno che vive di beat e li cerca, scava, scova, rimesta fino a trovare quei pochi secondi che insieme a decine di altri vanno a creare quella che è una vera e propria base per le tracce a venire.

 


Coez – Non Erano Fiori (2013)

Sirvano si era già fatto il suo giro da solo con “Figlio di Nessuno”, ma era ancora fedele alla linea dei Brokenspeakers, con staffilate hardcore che arrivavano fin dalla traccia di apertura (“Ch-Ch-Ch-Coez con il macello nel cervello, hello!”).
Qui invece prende la svolta che l’avrebbe portato, nel giro di 6 anni, a diventare il Coez che riempie palazzetti e fa bagnare le pischelle di tutta Italia. Ancora acerbo, ancora con un po’ di bava alla bocca, dondola e gongola in un universo nuovo che comincia ad esplorare e fare suo, con quei ritornelli che ti rimangono attaccati addosso per sempre. Quello che non tradisce è il modo di rappare cantare, che ha solo lui e che a me piace un sacco: quelle rime spezzate e sospese le ho sempre trovate geniali.


BADBADNOTGOOD – IV (2016)

Il jazz e il funk e la disco e il rap e l’elettronica e tutto quello che ha un ritmo fico in culo loro lo mettono insieme e tirano fuori uno dei miei dischi preferiti di sempre. Anche loro scoperti con questo album, anche loro mi han fatto mangiare i gomiti per le volte che non conoscendoli me li son persi, i BADBADNOTGOOD tirano fuori undici tracce magnifiche, impeccabili, la perfezione fatta suono che potresti sentirti sorseggiando tè e leggendo un libro, che puoi mettere in sottofondo per fare il figo con la tipa nuova, o che puoi anche spararti a tutto volume nelle cuffie mentre cammini e balli e muovi le mani per fare la batteria che tanto, alla fine, non ci riesci mai.

 


Dead Shrimp – Dead Shrimp (2013)

Un trio romano con la passione per il blues da piedi ammollo nel Mississippi. Tre musicisti maiuscoli con la pagliuzza in bocca, un bottleneck fatto in casa e una batteria minimal. I Dead Shrimp, con la formazione originale composta da Alessio Magliocchetti Lombi (chitarra slide), Sergio De felice (voce) e Gianluca Giannasso (batteria, voce), debuttano con un disco pazzesco, un blues di quelli che, appunto, ti portano via lontano mettendoti un cappello di paglia in testa, una salopette addosso e una bottiglia di Moonshine. Ti trovi scalzo a godere della giornata, balli canti e passa tutto. Una sinergia davvero rara, quella tra i tre ragazzacci romani, che ha portato a un disco che avrebbe meritato molto più ascolto e attenzione.

 


Calibro 35 – Ogni Riferimento a Persone Esistenti O a Fatti Realmente Accaduti è Puramente Casuale (2012)

Io dico boh, come cazzo si fa a fare un disco dalle atmosfere poliziottesche anni ‘70 nel 2012? I Calibro 35 lo sanno e lo fanno lo stesso. E pure bene. Minchia, lo fanno daddio.
Li vidi una volta in qualche paesino in Salento qualche estate fa, dopo qualche mese iniziai a lavorare all’Angelo Mai, dove tutti i componenti erano praticamente di casa. Li ho rivisti live qualche altra volta, e difficilmente ho visto roba simile in vita mai. Una macchina perfetta, una fabbrica di ritmo impressionante. Nessuno mi leverà mai dagli occhi l’immagine di Enrico Gabrielli che suona due tastiere mentre vola sul sax. Un trauma.


Lucio Leoni – Il Lupo Cattivo (2017)

Lucio è bravo a scrivere e a cantare. Lucio è simpatico. Lucio ha fatto un sacco di cose, in trent’anni e spicci di vita. Ma io non lo sapevo fino a che me lo sono ritrovato a Bologna, in un circolo di Rifondazione, a cantare per pochi intimi che dopo dieci minuti stavano fumando e bevendo come se si fosse in salotto a casa con gli amici di una vita. Poi con Lucio ci siamo intrattenuti dopo il concerto, poi ci siamo ribeccati, abbiamo provato a collaborare ma poi, sapete com’è no, la vita.
Io a questo disco sono tanto affezionato, che è uscito che io e Lucio già ci conoscevamo e l’emozione sua per l’esordio era pure un po’ la mia, e di tutti quelli che gli vogliono bene. E sono tanto.
Quest’anno esce il suo nuovo disco, e mi sa che lo metto già il lista per il 2030.


Miniature – Miniature (2013)

Qui si va sul personale.
Perché è vero, verissimo che il disco d’esordio di Gabriele Pierro e Silvia Caracristi è un gioiello di tecnica, strumenti, voce e intesa che la senti pure in mono, con una cuffia sola e un orecchio tagliato.
Ma è anche vero che gli voglio bene come due fratelli, che mi hanno pure fatto una nipotina, e che sono due delle persone più belle che io abbia avuto la fortuna di incontrare. Se ultimamente faccio stand-up, è anche perché ai loro concerti mi facevano riempire la pausa con le mie cretinate ubriache.
Posso dire che mi hanno dato una casa, una giacca della North Face, alcuni dei migliori pranzi improvvisati di sempre, che mi hanno accolto fin da subito nella loro vita e per me è uno degli onori più grandi che mi siano stati fatti.
Quindi posso dirlo: il loro è uno dei dischi per me più importanti degli ultimi dieci anni, così come loro sono due delle persone più importanti che abbia conosciuto nella mia vita.