Santo Mai: di uomini, ciclo e donne.

Io non lo che cosa vuol dire avere il ciclo.
Di certo non so di dolori e sangue che mi esce dal pene. Sverrei per cinque giorni al mese.

Ma a livello emozionale, di quello che senti e provi, anche solo livello sensoriale, boh, a volte penso di avere un vago sentore di quello che vuol dire stare nella testa di una donna una volta al mese.
Gli altri 25 e spicci non lo so eh, quello rimane un mistero ancor più misterioso.

Però ecco, qualche sera fa son passato dall’iperattività di non avere canne nel giorno di riposo, e quindi trovandomi a staccare e risistemare le foto sul muro, disfare e rifare l’armadio, uscire di casa e girare, alla voglia di morire sotto un piumone, mangiando cioccolata e facendomi mancare ogni singola ex mai avuta in vita mia. Ho lavorato, passando dall’essere super felice di servire gente, e arrivando a non vedere l’ora di andarmene per non ammazzare qualcuno a mani nude.
Volevo un taxi che, per miracolo, vedo arrivarmi incontro. La gioia, il tripudio di dopamina.
Rallenta, accosta, poi all’improvviso cambia la luce del tetto da verde a rossa, si reimmette in strada e tira dritto.

Rimango immobile a fissare il punto in cui si stava per fermare, tipo Giovanni quando trova “non una, tre!” righe sulla macchina. Inizio la discesa di Voz do Operaio che mi viene da piangere. Arrivo a metà che la lacrimuccia sta proprio lì lì. Poi faccio un respirone, mi monta la rabbia e poi, fulmine a ciel sereno, mi ricordo che non ho portafogli dietro. Il taxi lo avrei pagato col cazzo, immerso nella merda della figura grama che avrei fatto.

Mi rilasso.

Passo davanti Ti-Natércia, guardo dentro ma ovviamente è troppo tardi. Di acceso è rimasta solo la luce d’emergenza, che illumina il locale poco, di una sfumatura blu, che sembra quasi abbiano acceso gli ultravioletti dopo aver spruzzato il luminol, in cerca di tracce di un delitto appena compiuto. Passo, penso questo e mi dico che Tina è uno dei miei tanti luoghi del delitto di questa città. Di tutte le volte che ci sono stato, mi viene in mente subito quella con la mia famiglia e lei. Una delle migliori, poche serate da quando si stava insieme qui.

Tiro dritto.

Mi risale la tristezza, Lisbona è vuota come gli scaffali del mio reparto certezze. Incrocio solo una volante, da cui il passeggero mi guarda mentre cammino senza mascherina. So che non mi dirà nulla, ma comunque mi sale un po’ della classica tensione che arriva quando mi trovo a tiro di una guardia.
Li becco di nuovo di nuovo poco più avanti, incespico nei sanpietrini proprio mentre gli passo vicino. Sento il sangue affluire tutto insieme in faccia, con una botta di caldo inaspettata.

Mentre scendo da Santa Luzia, ripenso alla serata e per tutta una serie di cose mi viene in mente che, alla fine, le delusioni maggiori le ho avute da figure maschili. E non parlo di quelle fondanti, tipo mio padre, esempio perfetto di quanto una figura che più vicina di quella paterna c’è solo mamma, possa allontanarsi all’improvviso lasciandoti talmente basito che gli sceneggiatori di Boris perderebbero i sensi, per il colpo di GENIO! così de botto, senza senso.
Parlo anche di amici, semplici maschi che ho conosciuto e che dopo pochi mesi mi han fatto cascare ogni ottimo giudizio che mi ero fatto di loro, oltre che i coglioni con un gran tonfo.

Ma visto che non mi escludo mai dall’equazione di nessun giudizio che mi creo degli altri, ovviamente mi dico che anche io ho deluso uomini, donne e bambini eh.
Santo mai, stronzo a volte.

E penso che sì, certo, anche le donne mi hanno ferito tantissimo. Mi hanno straziato, sorpreso, usato, si sono approfittate di me ma anche qui. Santo mai.

Però se devo pensare a quali persone mi han lasciato a bocca aperta, la maggior parte aveva il cazzo. Ma non le palle.
Maschi che ci han provato con la mia ex fresca di un giorno, o che lo facevano con una con cui ero insieme in quel momento.
Maschi che per stare con la loro partner hanno pisciato in testa a tutto e tutti, provando pure a dire che fosse pioggia.
Maschi che nel momento del bisogno mi han voltato le spalle, maschi i cui silenzi mi hanno assordato, maschi le cui urla mi hanno ammutolito.

Non siamo tutti uguali, sia chiaro.
Guardo ai miei amici, quelli che oltre un pene hanno anche le palle, quelli che nonostante li abbia delusi io mi han sempre preso per i capelli e tenuto lì con loro. Nonostante fossi da buttare perché già gettato da qualcun altro, loro mi hanno riciclato e dato nuova vita così tante volte che la plastica a confronto si consuma prima.

E le donne nemmeno, sono mai le stesse.
La teoria per cui, presi per genere, siamo tutti uguali tra di noi, non regge.
Con un minimo di consapevolezza di sé, non ci vuole molto a considerarsi diversi anche dal nostro amico più intimo, vicino, quello che ogni cosa si sia detta in sua presenza la si è detta insieme.
Nemmeno io e mio fratello che santiddio abbiamo lo stesso sangue, siamo poi così uguali.
Se mi fermo a pensarci, mi ritengo invece quasi più simile a tante mie amiche per stile di pensiero, modo di agire, ragionamenti.

In questo periodo mi ritrovo, e per fortuna, a confrontarmi con alcune donne completamente diverse tra loro per carattere, personalità, esperienze, età. Eppure più ci parlo e più vedo i punti in comune tra loro e me, ed è proprio questo il motivo: ci parlo. Il dialogo, il confronto anche duro. Le critiche.
Noi, tra uomini, non ci si critica. Al massimo si accentua il mostrare i propri pregi, le nostre capacità, ci si pavoneggia e ci si paragona agli altri. Ma va sempre comunque tutto bene (il capo è stronzo ma contento, la Roma vince, la tua ragazza ti aspetta a casa con la cena pronta) e quindi non c’è confronto, e senza confronto non ci si guarda poi nemmeno allo specchio.

Parlare con le donne invece ti mette spesso di fronte ai tuoi difetti. Magari sei lì che pensi che bello sarebbe star nudi tutti e due e invece ti ci ritrovi solo tu senza qualcosa addosso, spogliato di alcune certezze, e la cosa ci fa sentire un po’ di quel freddo da cui spesso, infatti, scappiamo.
Ma basta imparare a reggere le botte, una dopo l’altra.

Quando quella che poi sarebbe diventata la mia migliore amica mi ha rifiutato con una classe tale che quella in cui saremmo rientrati da lì a poco, dopo l’intervallo, sarebbe sembrata una baracca.
Quando mia madre mi ha guardata delusa per la mia ennesima cazzata adolescenziale, e ho sentito che qualcosa dentro di lei, anche se piccolo e molto in fondo, si era rotto.
Quando non mi si alzava per l’ansia e i pensieri, mi sono ritrovato a essere coccolato, ascoltato, compreso.
Quando trovo chi mi apprezza per quello che sono, mi fa dei complimenti e allo stesso tempo riesce a farmi stare coi piedi per terra, senza idolatrarmi o riempirmi di cazzate solo per riempire qualche silenzio.
Quando dentro mi rimangono i silenzi di donne che se ne sono andate per davvero, più che le parole di uomini ancora in vita.

Proprio qualche giorno fa, una donna con cui (e per fortuna di nuovo) ho la possibilità di confrontarmi, ha detto una cosa che mi ha fatto molto pensare.

“Le donne agiscono in base al contesto.”

Il discorso è poi andato avanti in modo sempre più interessante, ma questa frase mi è rimasta dentro.
Perché, semplicemente, è vero.
Per forza di cose, inteso come essere state forzate a comportarsi / agire / vivere in un certo modo a seconda di tempi e luoghi del mondo, le donne devono agire in base al contesto. E non parlo di quelle buffonate di paragoni tipo donne che non sanno parcheggiare o senza manualità per i lavori di casa, se state pensando a quello. Conosco donne che potrebbero guidare mentre montano una cassettiera Ikea senza istruzioni.
Poche eh.
Ma le conosco.

Parlo di contesti sociali, di quelli che ci mettono decenni a formarsi e che devono poi essere modificati, aggiornati, se non abbattuti del tutto. Contesti quotidiani di molestie fisiche, di sottomissione salariale, di torture psicologiche.
Mentre per noi uomini le cose son state sempre abbastanza facili (io non me la ricordo mica, l’ultima volta che mi han pagato meno di una donna, o quand’è stato che qualcuno si è tirato fuori il cazzo per strada davanti a me), le donne un poco han dovuto reagire in base a quello che succedeva loro intorno, no?
Il #metoo non è (stato?) solo un movimento di denuncia contro decenni di silenzi autoimposti per mantenere una carriera, una famiglia o anche solo la cazzo di dignità. Ma ha aperto un discorso più ampio su quanto sia effettivamente diverso il contesto in cui viviamo noi uomini e quello in cui vivono le donne. Anche se siamo nello stesso ufficio, o strada.

Io non lo so che cosa vuol dire avere il ciclo.

Mi sa che alla fine di ‘sto discorso che avevo in testa da giorni, non so manco minimamente che voglia dire essere donna. Nemmeno di striscio.
Però so come loro fanno sentire me, e non solo nel momento in cui ci si ritrova a interagire in qualunque modo. Ma nel modo in cui mi lasciano qualcosa su cui pensare, riflettere, magari cambiare. Gli strascichi di un discorso, l’odore su una felpa, un capello sul letto o un messaggio incazzato. C’è sempre margine di ragionamento, anche se a volte risulta davvero tanto, tanto difficile starvi dietro.

Però siete l’altra metà del cielo, e pure quando piove alla fine è sempre un bel vedere.

Una Cosa Stranissima

“Insomma, quella settimana era già stata parecchio strana, a partire dal Martedì prima.
I giorni avevano fatto il loro sette passi, e io mi trovavo all’una di notte, dopo due turni di lavoro, a fumare a casa di un amico, dopo che i giorni precedenti erano stati pieni di presenze e assenze, e io stavo bene.
Stavo.
Bene.

Capito?

E non è che lo dici perché tu ti ci voglia sentire, o perché devi darti un tono in un mondo in cui tutti fingono di stare bene. Di questi problemi, io, non me ne sono mai fatto, me lo leggi in faccia quando mi rode il culo, nell’essere teso, distratto. E me lo vedi addosso pure quando sono felice, anche solo per mezza giornata, di quella felicità spensierata che cammini sulle punte, hai una battuta per tutto e sei talmente brillante che se piove l’acqua evapora prima di toccarti.

Ecco, io quella sera stavo bene.
Non ero triste, non ero felice.
Stavo.
Bene.

Ero così preso bene, quella sera quando sono uscito da casa del mio amico, che dopo aver fumato una singola canna ma delle dimensioni del Belgio ho deciso di tornare a casa a piedi. E per la prima volta in due anni e mezzo a Lisbona, dopo che nemmeno i primi mesi nonostante la pioggia me ne andavo alla cazzo ma alla fine comunque, e sempre, trovavo la strada dell’ostello, ecco mai come quella sera io mi son perso.
Ma proprio della serie che a un certo punto, tutto fatto e mentre

stavo

bene

ho anche controllato Maps e niente, il vuoto. Attivo la posizione e oh, niente di niente.
Il fatto è, oltre ad essere io, era che continuavo a camminare perché

stavo

bene

e quindi cazzomene di perdermi un po’?

Dopo dieci minuti di dolcissimo panico, mi ritrovo al Miradouro da Penha da França.
Mai stato, manco per sbaglio, manco apposta, manco per il cazzo.
E appena alzato lo sguardo e capito dove fossi, m’è successa una cosa stranissima.

Ho come sentito la sua presenza.
Come se lì ci fosse stata spesso, come se lì le fosse successo qualcosa di bello ma, ovviamente, senza di me.
Ma non è stata questa, la cosa stranissima.
Quella è stato il fatto che io, dopo ‘sta botta allo stomaco, io

stavo

bene.

Ancora.
Senza dubbio o finzione.
Continuavo a fregarmene e anzi, mi sono aperto ancora di più e mi sono preso tutto, mi son preso i fantasmi di morti che non conoscevo, mi son preso la sua figura aggirarsi spensierata, mi son preso la luce fioca di Lisbona delle due di notte, con la luna grande e i lampioni piccoli.
Mi son preso bene, mi son visto da fuori ed ero bello, con gli occhietti gonfi e il cuore ancora di più.

Ho passeggiato intorno alla chiesa, illuminata da un faro così piccolo e potente da sembrare una piccola astronave, paralizzata dinnanzi a cotanta incomprensibile bellezza, che ne scannerizza la facciata con una luce fortissima e non riesce proprio a spiegarsi come, e perché. Mi sono ritrovato davanti a una torre enorme, un incrocio tra un silos e un castello in miniatura, pieno di graffiti, proprio dietro alla chiesa. Chissà cosa ne penserebbe la piccola astronave, se solo sporgesse un poco di più la sua luce-scandaglio, di questa torre con le feritoie, alta poco meno della chiesa, un sacro e un profano, stato e chiesa, casa e bottega ma che sto dicendo? mi son detto.

Mi son poggiato con le gambe al muretto che apre sul panorama, il busto un po’ sporgente e la sigaretta in bocca. È passato un rider di Glovo, lento, una mano sul manubrio e l’altra a provare ad ingrandire il percorso che stava facendo per la consegna. Se n’è andato lento per la discesa in curva, la luce rossa dello stop che già era fioca si è spenta piano come un bel sogno.

Se ho pianto, chiedi?
Una lacrimuccia m’è scesa, lo ammetto.
Ma oh, alla fine

stavo

bene

e piangere non dico di gioia ma ecco piangere di star bene non fa mica così schifo.
Soprattutto se hai pianto di non star bene manco per il cazzo per mesi.

Sono tornato indietro e ho finalmente capito dove fossi.
Minchia, se ero lontano da casa.

Ho chiamato un Bolt, è stato veloce, ho guardato The Office e mi sono messo a dormire.
E il giorno dopo, sai come stavo?

Stavo

meglio.”

Quel Gran Genio del mio Amico

“Una volta un mio amico mi disse di non prendere sul serio tutto quello che diceva.
Era uno simpatico, il mio amico.
Ci siamo conosciuti da piccoli e ancora ci sentiamo spesso.
In pratica con ‘sto mio amico io ci ho fatto un sacco di cose insieme, dalle cene alle vacanze alle ore passate a parlare della vita. Si parlava di amicizia, famiglia, sesso, si è discusso di impegno politico e sociale, di manifestazioni, droghe, dividendoci una boccia di Merlot da due soldi nei centri sociali, o andando a un concerto solo io e lui, a goderci il gruppo senza troppe distrazioni.
Abbiamo intervistato gente insieme, e insieme abbiamo sbobinato l’audio.

Non è che sia sempre andata benissimo eh, sia chiaro.
Come in ogni rapporto umano ci siamo scannati, strillati contro, ci siamo odiati per giorni ma alla fine i conti con noi stessi li abbiamo sempre fatti.
Abbiamo idee diverse che cambiano ancora di più col tempo, che non riusciamo ad incastrare, che sono a volte diametralmente opposte l’una dall’altra, ma troviamo sempre una quadra su cui ragionare e poter discutere normalmente.

Insomma, ‘sto mio amico mi dà spesso dei consigli. Non perché abbia più esperienza di me, visto che abbiamo la stessa età e abbiamo fatto un sacco di cose insieme, ma ha un punto di vista tutto suo e questo mi aiuta a vedere le cose da diverse prospettive. Lui in realtà di quelli che non pensa siano consigli, ma solo le cose che gli vengono in mente. Filtra i suoi pensieri in base al suo stato d’animo e li butta fuori, parlando di quello di cui si sta parlando senza troppi giri di parole, in modo molto diretto.
Esempio: se si sta tra amici, e si parla di donne e delusioni e tragedie varie, lui avrà sempre qualcosa da dire, che sia serio o faceto, lui sta lì e qualcosa la dirà sempre. Oh, non è che poi dica sempre cose intelligenti, o illuminanti. Alla fine è un coglione, come me, e ci siamo trovati anche per quello.
Ma lui saprà comunque darti un punto di partenza su cui ragionare, discutere, confrontarsi. Poi non si risolve mai un cazzo, ovviamente, che quello lo devono fare le parti coinvolte e non è che stia qui a far miracoli.
Nessuno li sa fare.

La cosa che però mi ha sempre detto, la cosa più importante per lui che sottolinea sempre, e che son sicuro non smetterà mai di fare, è di non prendere sul serio tutto quello che dice, perché lo dice sempre filtrando con la sua testa. E, boia, siamo sette miliardi e passa su ‘sta palla verdazzurra, avoja a essere diversi tutti.
Lui però lo dice con la stessa trasparenza con cui poi mi dice di buttarmi, di fare, di chiedere, di dire, e dopo settimane mi dice che forse si sbagliava, che magari sono accecato dalla forte luce del periodo di solitudine che (ne sono certo) devo farmi, che fermarmi a respirare un secondo è sempre cosa buona e giusta. O di mollare il lavoro, e ritrovarmi poi a sentirmi dire che “aspetta, meglio aspettare un attimo”, che ‘sta situazione del cazzo non si risolve da sola e subito e mosse avventate equivalgono a un suicidio.

A volte non lo capisco, lo ammetto.
Spesso si sbilancia in consigli estremi da un giorno all’altro, a volte pure da un’ora all’altra. Per carità, persona instabile attira persona instabile, e mi trovo benissimo con lui.
Gli manca giusto un po’ di coerenza e costanza nel mantenere i suoi punti. Perché, sono onesto, dice un sacco di cose interessanti ma non è che sia così fermo nel mantenerle. Insomma, è bravo a parlare per gli altri ma parlare di lui gli fa sempre un sacco di fatica.

Per fortuna di qua ci sto io, insieme a lui, a farlo distrarre un po’ dalla sua finta serietà.
Ripeto, non è mai facile, ma non lo è per nessuno star lì a discutere con sé stessi per oltre trent’anni.”

Cade Tutto

“Guarda bene ‘sto pezzo:

Ecco, riguardalo prima di continuare a leggere.
Lo so, lo so che il film lo conosci bene, al DVD ci son venute le righe sotto.
Però riguardalo ora, dopo tutto quello che è successo.

Cade tutto.

E lo sai no, che a me le coincidenze fanno impazzire. E mica parlo di pensare a una cosa da mangiare che poi trovi in una tasca.
Parlo di numeri che si ripetono, fatti che accadono a distanze esatte tipo un anno spaccatissimo, canzoni che escono fuori dopo anni quando due giorni prima le avevi anche solo vagamente pensate.
Beh, questo tipo di coincidenza non mi era mai capitata, perché mentre si era lì, dopo due minuti di discussione, ecco che comincia ad avvicinarsi la bufera.

Era impressionante.
Dietro al Cristo Rei i fulmini si aprivano come crepe nei cuori durante un infarto.
Guardavi il cielo verso Setúbal e sembrava solo nero senza stelle, ma bastava un lampo dentro la nuvola per darti un secondo di realtà. Come in un sogno, come se non tutto quello che stava succedendo fosse vero per davvero, capisci? Sembrava di stare a guardare dentro il buio più nero della notte e poi BAM!, botta di reale per farti capire che sei vivo. Che ci sei.

Pure se intanto cade tutto.

La coincidenza più incredibile comunque è quando mi sono ritrovato, per pochi secondi, nella scena del video. Certo, un po’ diversa, come se fosse un sogno di quella scena ma, dio mio, per un momento sembra di essere lì, col vento così forte che ha cominciato a tirare giù le piccole sculture di sassi sul lungo Tejo. Quelle messe in equilibrio, che di solito non cadono mai ma era proprio impossibile resistere a quel vento.
E quindi, mentre si passava lì, ma proprio letteralmente mentre si passava davanti a quelle colonne di sassi, ecco che vengono giù. Una dopo l’altra. Rumori di pietre su pietre, la cassetta in legno messa a sostegno di altri sassi che cadono.

Cade tutto, a ogni passo.

E seriamente, ha continuato per quattro, cinque passi. Ogni volta, cadeva una piccola scultura.
Il tipo di solito le fa davanti Praça do Commercio, ma ci sono i lavori da qualche mese e si è spostato un poco più verso Cais. Sono proprio a due palmi da te, subito dopo il muretto che separa la passeggiata dal fiume. Nonostante il vento e i tuoni, quindi, quel rumore di cose che rotolano e poi si silenziano era assordante.

Non so quali altri segnali uno debba avere onestamente.
Ha iniziato anche a piovere, di quelle piogge a gocce grosse e fredde mentre fuori c’è l’afa, ma mentre in altra vita uno si sarebbe riparato sotto quei portici, in quel momento erano semplici ombrelli in marmo sotto i quali passare per andarsene al più presto, il più velocemente possibile.

Cade tutto.

Ma tutto può essere rimesso in piedi.”

Una Manciata di Minuti

“L’altro giorno ero in un parco e a un certo punto dal cielo sono arrivati versi sguaiati e gracchianti, dal nulla. Era l’ora del tramonto, e i colori di ‘sta città a quell’ora raramente sono anonimi. Quella sera c’era tutta la scala di rosso e blu senza nemmeno l’appoggio di una nuvola in cielo. Solo rifrazione su quella che sarà stata l’umidità folle di queste sere.
Insomma, son lì a provare a non pensare quando uno stormo di pappagalli mi passa sopra la testa, in formazione, per poi dividersi senza senso (per me, stupido umano) e alcuni poggiarsi su un paio di alberi, e altri tirare dritto verso altri posti.
Sia chiaro, non è la prima volta che vedo i pappagalli in città. A Roma anni fa li vedevi solo nelle zone dei parchi, ma ormai è facilissimo trovarseli a volare sopra le macchine, per le strade, sempre al tramonto.

In quel momento però sono arrivati un po’ a squarciare il silenzio di quell’attimo, e pure i pensieri non pensieri che stavo cercando di avere. E un po’ a ricordarmi che alla fine c’è un sacco di roba, a Lisbona. Son cazzate eh, poi tu mi conosci e lo sai bene, ma son quelle cazzate che mi fan fare tutta una serie di associazioni mentali e mi portano a pensare ad altre cose, magari più importanti, magari meno, ma che arrivano sempre al punto (almeno in questo periodo) di farmi arrivare a un qualche tipo di conclusione.

Provo a spiegarti: vedere quei pappagalli così, all’improvviso, mentre ero lì a cercare di non pensare che alla fine mi pare sempre tutto uguale, ha spezzato quel non pensiero e mi son detto

– Oh, anvedi i pappagalli!

Non me li aspettavo, capito? Ché non è che sto lì a pensare tutto il tempo che alla fine, dopo piccioni, gabbiani, passeri, papere, oche, cigni e pavoni, puoi vedere pure i pappagalli.
E allora ho pensato

– Cazzo, sarebbe fico vedere i delfini, pare si facciano notare spesso nel fiume ultimamente!

Che la gente racconta di averli visti, vedi le foto sui social degli account ufficiali della città ne promuovono il ritorno, insomma cazzo i golfinhos a duecento metri da macchine e smog e umani è roba che fa impressione.

E poi ti ricordi che ‘sta città ha un sacco di cose. Ti ricordi, e allo stesso tempo lo scopri per la prima volta davvero. Scopri che c’è gente che non conoscevi e con cui all’improvviso ti ritrovi a chiacchierare per ore. Gente simpatica, gente meno, gente anonima e gente che ti rimane impressa sulel retine. Ci sono locali e posti in cui mangiare dove non eri mai stato, che ora poi per bere dopo le 20 devi per forza mangiarci qualcosa e allora andiamo allo spiedinaro, mi ritrovo in un Capoverdiano, la sera dopo in un messicano a mangiare nachos.
Ti ricordi di gente bella che è sempre stata qui, ne scopri tante cose nuove e capisci che se quella gente bella ti piaceva prima beh, adesso la ammiri e la stimi ancora di più.
Capisci che hai fatto bene qualcosa (anche se non so cosa, quando, come) e ti ritrovi invitato a casa dei tuoi amici a berti tanti bicchieri e a parlare di altrettante cose, a sentire la musica e a raccontargli delle tue decisioni.

Ti ritrovi pure a fare piani che poi non rispetti, perché vuoi un po’ di anarchia e perché trovi di meglio da fare, che rispettare i dogmi della routine pure quando stai in ferie. Monti e smonti, giri e ti fermi, capisci che intorno a te c’è sempre stata un sacco di roba che ti darebbe da fare per i prossimi decenni.

Che poi oh, son momenti eh.
Roba di giorni fa, durata una manciata di minuti.
Passa subito, veloce come uno stormo di pappagalli.”