Che sarà stato?

“Che sarà stato? Il duemilaundici?
Ho avuto ‘sto flash di noi in macchina, e lei che mi faceva sentire per la prima volta ‘sti tipi qui:

Li ho trovati subito banali, dai testi fintamente ricercati, la sua voce l’ho trovata immediatamente fastidiosa. E pure non siamo riusciti a smettere di sentirli per giorni. Io ci andai sotto a un treno. Il pop perfetto: scanzonato, romantico, coi soliti quattro accordi e melodie fatte apposta per entrarti nel cervello e scavarlo fino allo sfinimento.

Che sarà stato?
Lo abbiamo scoperto un sacco di tempo dopo, anni dopo quella sera in macchina.
Ci abbiamo messo un sacco di quel famigerato tempo, lo abbiamo messo tra noi e quella sera, e mille altre sere in cui era tutto e niente.
Questo leggendario tempo, quello che scorre così piano, certe volte, da farti sembrare tutto immobile, statico, con i battiti strani del tuo cuore come unica cosa a scandirlo.
Guarda che mica è facile far passare il tempo. Ci vuole tempo anche per quello.

Che sarà stato?
Hai sentito ‘sto rumore?
No?
Boh. Io sono un paio di sere che sento rumori strani, e non capisco cosa siano.
Dure rumori diversi in due notti diverse eh, mica robetta.
La prima sera sembrava il gocciolare di qualcosa. Lento, irregolare, che non mi dava nemmeno modo di scandire il tempo. Stavo lì cercando di dargli una regola, un logica ma niente, era proprio fuori sincro con il mio ritmo.

Non ho capito cosa fosse, ma la logica ha dovuto collegarlo alle mie cose senza glutine nell’armadio, con cibo di ogni tipo messo in confezioni di plastica di ogni genere, che magari messe di sbieco stavano scivolando una sull’altra.
La seconda sera (che sarà stato? ieri?) mi sembrava invece di sentire le onde del mare.
Per la prima volta avevo chiuso la finestra, invece di accostarla, perché stamattina volevo dormire. E a un certo punto, giuro, io ho sentito le onde infrangersi piano sul bagnasciuga.
E poi mi sono sognato una donna nuda.
Non sognavo del nudo da un po’, anche se ultimamente ho vaghi ricordi di sogni confusi e zozzetti. Ma questa è un’altra storia.

Che sarà stato?
Ma che ne so.
Più ci penso, più mi dico che è stato quello che doveva essere.
Non è che questo dia più senso alla cosa, anzi.
Per uno come me, e tu mi conosci, lo sai che la mancanza di logica mi manda fuori di testa. La mancanza di basi, di informazioni, la riempio con un flusso di pensieri che fossero visibili avrebbero la forma del fumo nero di Lost. Fulmini, rumore e omicidi inclusi.
Però evidentemente doveva andare così, de botto, senza senso.”

La Giannella

“Sai a Roma, quando tira vento, o quando c’è corrente in casa, si dice che

– Tira ‘na Gianna!

o

– Ammazza che Giannella che tira.

Se cerchi l’origine, ovviamente non è chiara: dicono fosse una popolana che portava il pane fresco in giro così velocemente da far vento. Altri lo associano a un personaggio della commedia dell’arte, Gianni.
Fatto sta che ho notato, uscendomene ogni tanto con i miei colleghi non romani, che quando tira vento nessuno dice che tira la Gianna.

Stammattina, ma tipo un’ora fa eh, mi son tirato su dal letto, ho alzato la tapparella e ho sentito subito ‘na bella giannella. E li ho realizzato.
In portoghese, janela, siginifica finestra.
Un’illuminazione.
Cercando, pare pure che possa esserci un collegamento. Come quando ho scoperto che fare il portoghese, in realtà, è una cosa prettamente romana: intorno al 1700, in occasione di uno spettacolo teatrale, l’ambasciatore portoghese a Roma invitò i suoi connazionali ad entrare gratuitamente. Bastava dichiarare la propria nazionalità all’entrata.
Ve la immaginate, una cosa del genere a Roma?
In 10 minuti si presentarono centinaia di romani che dichiaravano la loro generazionale provenienza dal Portogallo. “Facevano i portoghesi” per entrare gratis, i miei avi.

Va beh, tolta ora la parte Alessandro Barbero di questa cosa, il mio era solo uno spunto per raccontarti che, appena aperta la finestra, ho rivisto la ragazza bella in salopette.
Questa volta era seduta per terra, in quello che credo sia il salotto, proprio di fronte alla mia janela. Dai movimenti, sembrava stesse grattando via qualcosa dal pavimento. Ho immaginato che si sia appena trasferita, intenta a crearsi l’ambiente perfetto, l’angolo giusto, a togliere la macchia che chissà quale precedente coinquilino ha creato e chissà quanti altri hanno ignorato nel frattempo.
Nessuna salopette, oggi, anche se stando seduta in terra il suo balcone copriva fino al collo scoperto, quindi per certo non lo so. Aveva i capelli raccolti e, ancora, non sono riuscito a vederla in faccia. Però lo so che è bella, ecco.

Tutto questo ovviamente è successo in pochissimi secondi, non è che mi son messo lì a spiarla tipo maniaco eh. È durato il tempo di sentirmi arriva ‘na gianna importante addosso, il tempo di socchiudere di nuovo la janela, sedermi al PC e avere un flash di due giorni fa, quando la gianna l’ha presa in pieno ed era coperta di pelle d’oca.

Non mi scorderò mai il suo braccio coperto di brividi. Ce l’avevo davanti, seduto sullo scalone con te in piedi.
Non l’avevo mai vista così piccola.
Ho avuto paura di romperla, quando l’ho fatta poggiare su di me e l’ho stretta un po’.
Non ho pensato a niente, per tutto il tempo, che non fosse trasmetterle un po’ di calore.
Sono stati secondi infiniti in cui ho provato tutte le sensazioni del mondo, compreso il vuoto assoluto.
Non volevo dire nulla, solo farle capire, per una volta dopo tanto tempo.
Non so se ci sono riuscito.
Spero solo di averla aiutata a socchiudere ancora un poco quella janela, lì dentro, che aveva comincato a far alzare una giannella non indifferente.
Non lo so più, il mio ruolo in questa situazione.
Probabilmente non ce l’ho, ed è meglio così.

So solo che sono un essere umano, che i lutti colpiscono anche me, che quando se ne va una persona per chi è coinvolto direttamente non devi far altro che ricordarle che, per fortuna / purtroppo, ce ne sono tante altre pronte a dare anche solo un abbraccio.
Non sono nessuno, ecco, ma so come stringere qualcuno per far sentire che qualcosa ci sarà sempre.

Lo sai, a ‘ste cose non ci credo, ma penso che da lassù ogni tanto qualcuno uno sguardo di sotto lo butta. E vede noi che andiamo avanti, con le nostre macchie da pulire sui pavimenti e dai nostri cuori. Ci vede, che proviamo a fare cose nonostante tutto. Lo sanno, lassù, lo sanno bene che vita del cazzo c’è da queste parti, e sanno benissimo quanto sia difficile ogni giorno.
Io so che lassù adesso c’è qualcuno che sta seduto su una sedia comoda di Ikea, con gli occhietti socchiusi a controllare tutta ‘sta vita che c’è in giro, a tirar giù due caramelle a chi ne vuole, e a scherzare sul fatto che sono celiaco e che tutta la mia pasta se l’è già mangiata lui.

E spero che, quando tira la gianna brutta, socchiuda un po’ un nuvola per far passare meno freddo.”

Dov’eri quando?

“Dov’ero quando è scattata la pandemia?
Questa sarà una di quelle domande tipo

– Dov’eri l’undici Settembre?
– Dov’eri quando c’è stato il terremoto in Indonesia?
– Dov’eri al G8?

(io, rispettivamente, stavo:
giocando alla play col mio migliore amico
festeggiando il compleanno della mia migliore amica
rosicando da solo a casa, davanti alla TV, in tutta l’impotenza dei miei 16 anni)

In ogni caso, dov’eri durante la quarantena?
Io personalmente ne ho sentite di ogni.

Ho sentito di gente che si è lasciata, chi è rimasto bloccato in Italia, chi ha approfittato per farsi due mesi di vacanza in giro, chi ha trovato lavoretti provvisori, chi ha perso tutto.

Eppure, allo stesso tempo, c’è gente che non sapeva dove si trovasse.
Cioè, era chiaro tutto: il luogo, chi c’era intorno, le cose da fare, i movimenti, le parole da dire. Però allo stesso tempo non sapeva dove fosse. E lo shock della pandemia c’entra poco eh.
Gente con, evidentemente, dei pregressi di dubbi e domande son completamente andati fuori giri.

Io, che lo so dove sto e dove voglio stare, mi ricordo tutto.
Quello che ho fatto e visto in quei due mesi l’ho registrato, l’ho messo a confronto col prima e mi son trovato spiazzato quando, col dopo, non aveva nulla a che fare.
Io, che non studiavo per il liceo figurati se ho fatto l’università, l’ho trovato un po’ come prepararsi per un esame: hai studiato per cinque anni, a ridosso dell’esame ti sei incaponito, incazzato, hai pensato di mollare tutto, poi ti fai l’ultima chiusa di due mesi, capisci che vada come vada sicuro lo passi, e poi all’ultimo giorno non solo te l’annullano, ma ti bocciano pure, senza manco avere modo di confrontarti.
Se poi vai a tirare due bombe carta davanti alla facoltà, chi potrebbe dirti nulla?

Delle bombe poi te ne parlerò, tranquilla, ma ancora non è il momento.

Insomma, dov’ero durante la quarantena?
Ero a sperare senza grosse speranze che qualcosa cambiasse.
Ero a guardare il mondo da una finestra, a lasciar andar via le lacrime senza farmi sentire mentre The Tallest Man on Earth cantava che l’amore è tutto, osservavo e vedevo il bello, ma anche quanto fosse esaurito tutto il contesto che il bello lo eleva. Ero a realizzare che idealizzare qualcosa, o qualcuno, spesso porta alla caduta dei miti.
Ero in silenzio a guardare, e quello che ho visto mi è piaciuto al punto che ero pronto a lasciarlo sotto una campana di cristallo tra mascherine, tamponi e morti.
Ma il cristallo, per quanto suoni bene, si rompe troppo facilmente.

Meglio la botte de ferro, ecco.”

Lisbona – Parte Ottava – Fernando

“Sai quando te rode er culo?
Ti svegli la mattina e te rode er culo.
Oh, succede eh. Non è mica un crimine. Lo è un po’ nei confronti di sé stessi, ma alla fine uno come se incazza se scazza.
E ieri mattina io così mi son svegliato, che me rodeva er culo. Mi sono alzato e me rodeva, ho bevuto il caffè e me rodeva, ho fatto la cacca e me rodeva (doppio problema in quel caso), mi son fatto una canna e mi son vestito e sono uscito e niente. Me rodeva.
Di quelle cose che mi son buttato in mezzo a Feira da Ladra e il sole e la mascherina e non avere soldi per comprarsi manco una bambola di pezza per fare il voodoo mi ha fatto rodere ancora di più.
Allora ho tirato dritto in mezzo al mercato, son sbucato su a Graça e mi son buttato a Nossa Señora. Lo conosci, il miradouro di Nossa Señora do Monte? Si chiama così perché in cima c’è la madonna, dentro un teca, che protegge la città dall’alto. Ed è molto alto eh, roba che quando arrivi su vedi Messner che ti da una pacca sulla spalla con le sue dita tutte mozzate, tiri una botta di bombola d’ossigeno e svieni per un quarto d’ora abbondante prima di rialzarti e poterti godere uno dei panorami più grossi della città.
Ieri mattina però, in mezzo alle poche persone sedute sulle panchine, non c’eravamo solo io e la madonna.
C’era anche Fernando.

Appena arrivato, mi sono seduto su una panchina e questo signore col cappello di paglia, la maglietta arancione con lo stemma di Graça e i pantaloni di lino nero con attaccati stracci e straccetti mi si avvicina, scopa in mano e sorriso in faccia. Mi consiglia di spostarmi da quella panchina, che ancora deve pulirla. Perché a quanto pare ‘sto signore un po’ particolare sta lì e si mette a pulire il piazzale del miradouro.
È gentile, mi indica una panchina appena pulita dopo avermi offerto di farmi sedere su quella dove tiene la sua “attrezzatura”: uno zaino pieno di cianfrusaglie, due contenitori spray per pulizie vuoti, e tanti mazzetti di fiori ed erbe messi a seccare uno in fila all’altro.
Io mi siedo, lui continua a pulire e a cercare di fare conversazione un po’ con tutti, riuscendoci raramente. Da oltre le cuffie che cantano Willie Peyote lo sento parlare di continuo, ma non sembra né petulante né agrressivo, nel suo voler chiacchierare. Ci prova, e se non ci riesce gli va bene così.
Mi giro una sigaretta, mi alzo e mi avvicino alla ringhiera che da su quella parte lì, quella che mi ero ripromesso di non andare a scrutare. E proprio mentre son lì, con gli occhi sotto le lenti scure che si muvono feroci in mezzo alle finestre, mi sento toccare una spalla. Mi giro tirandomi giù una cuffia, e mi trovo il signore davanti che con un sorriso oltre la sincerità mi guarda e chiede:

– Sei un po’ triste?

Cazzo.
Beh, triste. Me rode, vorrei rispondergli.
Ma col mio portoghese stentato gli dico che sì, un po’ triste lo sono, perché cazzo è vero, sono tanto triste. Mi chiede se voglio parlare un po’, gli spiego che parlare portoghese ancora non è proprio il mio forte e che comunque non saprei che dire, oggi, adesso.

– Beh, se vuoi un po’ di compagnia, parlo io mentre mi dai una mano a pulire! Piacere, Fernando!

Ma sai che c’è?
Ma sì Fernà, dai.

L’ora successiva è stato esattamente quello di cui avevo bisogno quando pensavo di non potermelo permettere: una distrazione.

Fernando alla fine non mi ha fatto raccogliere manco una cartaccia, ma dopo essersi fatto offrire una sigaretta (senza fretta, senza scroccarti l’anima come spesso accade qui), comincia a fumare e raccontarmi del posto, della sua missione di pulire per far godere chi ci si ferma un po’. Per lui è inconcepibile che le coppie vengano qui a pomiciare, e per terra ci sia lo schifo.
Fernando rimedia quel che può: non è un barbone, non ha grossi problemi, da quello che capisco ha anche una piccola casa fuori città. Fernando mi fa capire che ha avuto un sacco di problemi (picchiato dalla polizia, derubato per strada, a fianco di un amico in ospedale dopo un brutto incidente), però allo stesso tempo è stato anche aiutato. E per questo la sua missione pare sia portare un po’ di bello in quell’angolo di città, restituire un minimo di bellezza scoprendola da sotto il marcio di tutti i giorni.
Mi invita a pranzo (“il mio amico pakistano fa un pollo al curry meraviglioso!), mi spiega i simboli intorno alla teca dove sta la madonna, mi dice che il vialetto che parte dalla chiesa e termina alla statua perché la madonna è uscita apposta per proteggere Lisbona. Mi dice pure che, ai tempi dell’inquisizione, da quel punto altissimo ci lanciavano le persone con la catapulta.

E in tutto questo, Fernando sorride. Apre gli occhietti e li illumina ogni volta che dice

– Claro!

quando sgrano gli occhi a ogni suo aneddoto.
Sta un po’ in fissa con la religione eh, ma va bene: non prova a convertirmi, non tenta di convincermi a dare il mio cuore a Gesù, ma ha una fede fortissima che lo fa assomigliare a uno di quei monaci scalzi e poveri che sorridono nonostante non mangino da giorni.
Mi ripete le cose quando non capisco, ogni tanto parla in italiano, ma mentre sono lì per un secondo penso che le parole siano davvero inutili a volte: il suono della sua voce, le interruzioni, i suoi “Claro!”, il suo prendermi per un braccio per farmi vedere un angolo nascosto parlano mille volte meglio di un qualunque discorso.

Gli compro un mazzetto di fiori, che seleziona con cura tra quelli a disposizione facendomeli annusare uno per uno: ha quello alla menta, alla salvia, e alla fine opta per uno con un po’ di tutto.

Mi ripete del pranzo, ma porca zozza io proprio oggi ho da fare e quindi non posso Fernà, davvero.
Ma per lui va benissimo così, non cè problema perché è sicuro che tanto ci reincotreremo e avremo più tempo. Sorride, mi porge la mano e io d’istinto me lo prendo e me lo abbraccio, a Fernando, e lui abbraccia me.

Mi giro e mi riprometto di non piangere, ché questa cosa chiama proprio strappo di capelli e pugni sul petto.
Una di quelle cose che vorresti gridare a tutti perché tutti ti vedrebbero felice, distratto, come quando scrivi un bel pezzo, o esci con una bella ragazza.
Respiro forte e penso che sì Fernando mio, me rodeva ed ero triste, ma me ne vado con il cuore leggermente ricucito. Giusto un punto messo al volo eh, che non è che fermi l’emorragia o il dolore, ma di sicuro mi fa capire che tutti potrebbero mettere due punti, se solo fossero brave persone come te.”

Previously on Lost

“Svegliarsi così non è proprio il massimo.
Ricordi che ti avevo detto che ho ripreso a sognare?
Ecco, stanotte, dopo essere tornato martoriato da una giornata di lavoro, sono crollato e ho fatto un sogno di merda.
Ero in un locale,  l’unico seduto in mezzo a tutta gente in piedi. Musica alta, luci sul giallo, spalle di tutti addosso. Il tipo mi si avvicina e comincia a dire cose tipo

– Ah ma sei tu? Sei tu, giusto? Ehi tesoro, ehi! Vieni qui, guarda chi c’è!

E lo dice quasi ridendo, a prendermi per il culo.
Lei appare da dietro le mi spalle, i capelli le coprono il volto tipo Cugino Itt della Famiglia Adams. Forse aveva anche degli occhiali, proprio come lui. Insomma lei arriva e mi passa davanti defilata, senza girarsi a guardarmi, con lui che guardandomi e ridendo le mette una mano sulla spalla per accompagnarla via da me.

Ora, se vado da uno bravo, che potrebbe dirimi di ‘sto sogno?

Bah, non voglio manco pensarci.
Mi son svegliato allo stesso modo di come mi sono addormentato: stanco, col bruciore di stomaco e la voglia di essere ovunque tranne che qui. A casa eh, e non per la casa in sé, ma per essere oltre delle mura, con un po’ di spazio intorno, a lasciar liberi i pensieri.

Comunque, avevo bisogno di parlare oggi.
Il cielo fuori non si fa capire, fa correre nuvole grosse come pensieri brutti ma poi ogni tanto apre, poi sputa un po’ di vento freddo che paradossalmente mi scalda il cuore.
Una ragazza carinissima si è appena affacciata alla finestra qui davanti, al piano sopra alla signora che tiene i pappagalli in una stanza. Non te l’avevo detta questa?
In pratica c’è questa signorona che ha tutto un piano di casa, e in una stanza, proprio sotto alla ragazza carinissima, ha enormi gabbie di pappagalli che però son liberi di volare in giro. Son pure grossi tra l’altro, belle bestione che girano di continuo. La signora ha anche un gatto rosso gigantesco che non credo sia ammesso nella stanza dei pappagalli, e che infatti se ne sta tutto il tempo sul tavolo a farsi il bidet.

Insomma la ragazza carina è davvero carina: mi son girato mentre era affacciata al balcone, vesita di salopette e maglietta bianca, coi capelli corti e gli occhi grandi. Abbiamo incrociato lo sguardo, che ovviamente io ho distolto subito, mai sia.

La stanza è un casino ma è uno di quei casini in cui ti trovi a tuo agio, tra calzini depressi e scarpe spaiate.  Sto seduto sul ciglio del letto, le bootarelle d’ansia mi fanno avere l’impressione di stare in macchina quando prendi quei saliscendi velocissimi, e lo stomaco rimane senza gravità per quel secondo di ansia mista a paura. È strano eh, ma accettabile. Almeno è qualcosa.

Qualcosa nel senso di fisico, di provare qualcosa, che è quello che poi spinge gli altri ad allontanarsi no? La voglia di provare qualcosa di diverso, quando eri troppo spaventato da te stesso e del tuo rimanere uguale. Son percorsi che uno fa da solo, ed è giusto, ma incolpando l’altro ci si pulisce la coscienza troppo facilmente. Si dorme bene, si esce con nuovi amici, si pensa alle mille cose da fare che prima sembravano impossibili. Ma invece di guardarsi dentro e ammettere che era una cosa che si sarebbe potuta fare anche prima, si scarica sull’altro per sentirsi meglio con sé stessi, per non farsi domande, per avere solo risposte che ci piacciono. Scavarsi dentro è una cosa difficile, sopratutto quando scavando con la pala senti il rumore di qualcosa e scopri che è la tua inadeguatezza, il tuo non saper stare al mondo che ti porta a fare cose giuste per te.

Ma va bene così: ogni uomo (donna, bambino) è un’isola e decide chi e chi non farci sbarcare sopra. Si decide autonomamente se si vuole stare disabitati, o se si vuole qualcuno a coltivarne le risorse.

Oppure, come in questo caso, per diventare un porto di mare senza soluzione di continuità, in cui basta che qualcuno sbarchi, lasci qualcosa e se ne vada di nuovo. Perché poi soli, come si dovrebbe stare, non si vuol stare mai, soprattutto se sei l’isola di Lost dove non ci si capisce un cazzo, e chi arriva se ne vuole scappare dopo due giorni.”