Lisbona – Parte Seconda – Allostello

Oggi fanno trentasette giorni che sto a Lisbona.
E fanno trentasette giorni che sto allostello.
Non lo stesso, ché al primo dopo tre giorni sono andato via per cose che non sto qui a.
Solo che dopo tre giorni io non è che ci stessi capendo un granché, a guardare all’una di notte posti che mi sembravano ancora più sconosciuti di quando stavo a Roma.
Allora Alessia, una ragazza che ha iniziato il corso con me, mi dice di provare ad andare allostello dove stava lei.
Scherzando mammanco troppo ancora oggi le dico che così facendo mi ha salvato la vita.
Il 21 Febbraio a sera mi son rifatto le valigie e me le sono accollate per quella mezz’ora che aveva previsto Maps.
Previsto.
Perché poi ci son le salite e Maps è solo un mucchio di codici e algoritmi e mica lo sa, il bucio di culo che mi son fatto per arrivare allostello.
Però alla fine ci sono arrivato: sudato, con le braccia così atrofizzate che penzolavano come quelle di Ace Ventura colpite dalla cerbottana e un bella scia di bestemmie dietro di me, ma ci sono arrivato.

Il Back to Lisbon è molto carino.
Paragonato al primo è un altro mondo, ma parlo pure che prima di Lisbona allostello io ci son stato solo da ragazzino, a quelli dellaggioventù, con i miei che mi portavano in giro per la Scandinavia e quei dormitori mi sembravano ancora più grossi di quanto non fossero davvero. Ogni volta che ci penso mi vengono in mente quelli di Full Metal Jacket, ma senza torture a colpi di sapone e omicidi-suicidi notturni.
Quindi non ho molti paragoni in merito, ma è un palazzone di tre piani con colori pastello in ogni stanza, scritte pop alle pareti tipo “I’m not your mama, clean your own mess” e una gestione allegra. A volte fin troppo, ma questa è un’altra storia ancora, fatta di un perenne ritmo alla Despacito in sottofondo e racconti in porto-brasiliano strillati così forte che pare di stare in mezzo a una rissa continua, ma fatta di baci e abbracci.

Però non posso dire di stare male, allostello.
Perché stando in fissa con l’osservare la gente, qui ho materiale infinito che ho aspettato a tirar giù, e che forse non ho ancora assimilato del tutto.
Io che come uno stronzo al massimo ho parlato con qualche turista al centro di Roma, e un po’ di gente in quei sempre troppo pochi viaggi fuori, qui mi trovo a parlare in inglese con una cilena che parla in spagnolo con un portoghese che parla in brasiliano con un altro brasiliano perché alla fine mi pare di capire che si possono capire solo tra di loro, e certe volte manco quello.
Che poi tantissimi sono passati, ci siamo spaccati di chiacchiere in inglesi storpi per una sera e la mattina dopo non li trovi più.
Altri invece rimangono per abbastanza tempo che ci prendi confidenza e ci scherzi e ci esci e quando sei allostello speri di beccarli per farsi due chiacchiere e migliorare un po’ ‘sto cazzo de inglese che all’inizio mi sentivo Totò a Milano.

Elio è stato il primo che ho incontrato qui.
Anzi no, il primo primo è stato Paolo, di Roma pure lui, che sapeva del mio arrivo da Alessia e io del fatto che stava allostello sempre tramite lei ma pure perché i romani comunicano telepaticamente e si connettono a livello neuronale dove stanno stanno e quando ho girato l’angolo per la reception l’ho visto a capotavola sotto la tv con un piattone di pasta e lui ha visto me e ci siamo visti e si è alzato e mi ha guardato e mi ha detto

“Te sei Jacopo vè?”

e io

“E te sei Paolo!”

e ci siamo sorrisi e mi ha presentato Elio, eccolo, che da dietro il banco della reception sorride quando Paolo lo chiama il Boss.

Elio è un signore sui cinquanta, che ci ho messo un sacco ma alla fine ho capito che mi ricorda Ricky Gervais, per la somiglianza e la comicità. Cioè, di Gervais ce ne sta uno solo ma pure di Elio, che ha un inglese sopraffino, è educatissimo e spesso piazza battute tra il cinico e il bastardo che ti uccidono.
Elio si è presentato, in un peraltro ottimo italiano, come “Elio! Ma non quello delle Storie Tese!”, ha riso e ha finito di farmi il giro allostello.
È quello con cui parlo anche molto bene di cose serie, con i suoi discorsi sull’amore e sulle donne e sulle scelte che ha preso e quelle che no.
Ora Elio non c’è e non ci sarà per un po’, che alla fine è un attore e quando mi ha detto che per due settimane andava a fare una cosa nuova con un nuovo gruppo di teatro, gli brillavano gli occhi.

Poi c’è Josh, che è australiano ma vive a Londra da anni e sta pianificando di trasferirsi qui. Josh, a mio modesto parere, è una delle persone più simpatiche che abbia mai conosciuto.
E io stesso sono una delle persone più simpatiche che abbia mai conosciuto, quindi immaginatevi.
Josh ha un umorismo tra Louis C.K. in splendida forma ed un ubriacone da bar, e in effetti è roscio come il primo e alcolista come il secondo.
Scherzo, ovviamente, ma da buon britannico ama la birra e le chiacchiere brille ma allo stesso tempo lavora, sta in mezzo alla ristorazione e parla di aprire paninerie all’aragosta, gestire crêperie e bere birra.
Che se non lo fa, ne parla.
Ha la barba lunga e curata, un cappellino con visiera che appende fuori dal letto e la capacità di farti ridere un sacco.

Poi c’è la cricca di quelli che lavorano qui o che sono semplicemente volontari.
Oltre al già citato gruppo che fa risse con l’amore, c’è Gonzalo, piccolo e con la faccia perennemente tra il sorpreso e il divertito, un po’ appesa che mi fa pensare a Marco Marzocca quando faceva l’aiutante del venditore di quadri di Teleproboscide.
C’è Bernardo, un ragazzone di ventun’anni che ne dimostra trenta, grosso come un armadio di pietra e con la faccia buona che sorride ancora di più da quando ha cominciato a chiamarmi “JacoLoco!” e me lo strilla al citofono quando mi vede arrivare dalle telecamere.
Belal invece è un ragazzo afghano cresciuto in qualche ghetto della California. Positivo da fare schifo, una delle prime volte chiacchierando qualcuno gli chiese cosa voleva fare da grande, ora che stava per compiere 31 anni. E lui ha risposto

“Essere felice. Avere la mia fattoria, fare il mio formaggio con il latte delle mie mucche, tirar su famiglia. Essere felice.”

e io dentro di me mortacci tua ma poi continui a parlarci ed è così schifosamente positivo che a volte ci credi che tutto sia facile, detto da uno che pesava centottanta chili e ora è un quarto di manzo niente male, ‘sto cazzo di Belal.

Paolo va beh, l’ho già citato, ma lo cito ancora perché è un grande vero, perché risentire parlare romano seppure dopo solo tre giorni mi ha aperto il cuore e mi ha forse fatto capire per la prima volta davvero quanto stracazzo ero lontano da casa, per quanto tempo, perché.
E poi Paolo fa delle battute che fermatevi tutti.

Alla lista si aggiungono Atif, il ragazzo bosniaco in Erasmus che i primi giorni studiava e basta e poi gli ho consigliato Santa Catarina e da quel momento è stato tutto sì uno studiare ma pure lui che torna ringraziandomi del consiglio e che aveva trovato il fumo e dio se era contento; c’è Paulo, o Pavlo, non so, è lituano e lavora da remoto per non so cosa quindi viaggia un botto ma anche lui sta fermo qui allostello da un po’, col suo cappuccio in testa e la tisana in mano, una sigaretta ogni tanto e una certa freddezza nel parlare, che si è sciolta un po’ uscendo tutti insieme, ma che gli rimane come un velo dietro il volto; c’era Carole che poi era Caroline e quando ce l’ha detto è arrossita, Carole l’angioletto polacco, sempre leggera, dolce nel chiederti qualunque cosa e nel raccontarti tutto, pure della serata techno di due giorni prima dalla quale si sta ancora riprendendo, che diceva di non fumare mentre fumava e di non partire mentre stava con le valigie in mano, che ci ha lasciato i cookies senza glutine fatti da lei al burro di arachidi e cioccolato.

E poi c’è Alessia, quella tipaccia che mi ha salvato la vita e a cui devo un sacco di risate e forse anche soldi. Ma lei dice che poi si vergogna a chiederli indietro.
Io a ridarli, quindi stiamo apposto.
Però lei va oltre allostello, ché si va a lavoro assieme come due amichette del cuore, si tornassieme e assieme ci si va a bere “giusto una cosa al volo”, che il volo poi lo fai sbronzo marcio alle otto di sera.

Insomma, allostello ci sto bene.

Però è ora di crescere di nuovo, e di trovarsi un posto per conto proprio.
Che bello tutto eh, bello il condividere, le chiacchiere, il “mi presti quello”, “prendi quest’altro”, le scorregge senza silenziatore mentre pisci, i tappi nelle orecchie la notte che ti ritrovi in bocca la mattina, le risse di allegria e le chiacchiere sulla vita.
Bello tutto davvero.

Ma non sono più quel bambino piccolo in quei dormitori enormi.
Non c’è più mio padre da un sacco di tempo, non c’è mamma pure se c’è sempre coi suoi messaggi e le sue premure. Non c’ho nessuno a tenermi la mano se mi perdo, e Maps non è umano abbastanza da farmi davvero ritrovare.
Sono più alto più grande più cresciuto e ora qualcosa mi va stretto e tocca mettersi roba comoda, che ‘st’altra vita è appena cominciata e c’è un sacco da camminare.

Soprattutto in salita, diocàro.

Lisbona – Parte Prima

Sono due settimane che cammino con la schiena dritta.
Lei me lo dice sempre, che cammino gobbo. Che dovrei tirar fuori le spalle e fare l’uomo erectus.
Solo che in certi momenti girare per la mia città mi pesava troppo, che i pensieri facevano gruppo e mi schiacciavano il collo. E nonostante io mi guardi molto intorno, mentre cammino, a Roma ormai lo facevo dal basso verso l’alto.

Ora son due settimane, che cammino con la schiena dritta.
Prima di tutto perché mi sento un turista e come ogni turista che si rispetti, guardare ogni angolo di una nuova città è un dovere morale.
E poi perché in realtà mica son venuto qui per fare il turista. Son qui per provarci e provarci significa anche rischiare di fallire, e proprio per questo devi prendere e assimilare e vedere tutto quello che puoi.
Te lo devi godere.

E allora rubo con gli occhi, con le orecchie, ascolto questa lingua che sembra difficilissima e ne rimango affascinato. Obrigado, bom dia, aberto, fechado, tudo bem, non sapere dove vanno gli accenti, sbagliare, riprovare, sbagliare di nuovo, riderne assai.

Il Barrio Alto ti spezza il fiato sia perché per arrivarci, ovviamente, devi salire, ma anche perché ti giri ed è Berlino e poi ti ritrovi a San Lorenzo con gli spacciatori a ogni angolo ma meno rompicoglioni, giri la testa ed è Pigneto coi murales fichissimi e i murales che sfottono i murales. I localacci con la Capirinha a due euro si rincorrono con quelli puliti con la musica dal vivo, con le porte a vetri leggere per attirare la tua attenzione mentre cammini, che vedi i suoni e senti le persone. La birra a poco e i cocktail complicati, lo Ze Dos Bois che ha tre piani praticamente spogli se non fosse per le sedie tutte diverse, un grosso divano e un terrazzo che appena ti affacci pare Trastevere e senti il cuore che vola alto.

Se non fosse che piove da quasi una settimana, il sole a Lisbona è prepotente e colora tutto.
Che io non ci ho mai davvero fatto caso, a quanto i colori fanno bene alla testa, e per fortuna ‘sta città te lo ricorda, con i muri rosa e verdi e gialli e le maioliche che riflettono la luce che si apre e arriva dove quella diretta del sole proprio non potrebbe. I coperchi gialli dei cassonetti e il verde/rosso della bandiera sul parlamento che l’altra sera c’era il vento forte e dava certe schicchere che faceva rumore fino in strada, nonostante se ne stia lì in alto a prendersi tutta l’aria del mondo.

Eh.
Il vento.
Il vento qui è quella cosa che un po’ senti sempre, soprattutto quando il sole ha dominato la giornata e se ne va, lasciando spazio all’aria fredda dell’oceano. O almeno, mi piace pensare che sia così, ma non sono un meteorologo e quindi potrebbe pure essere uno che lascia sempre aperta una porta gigantesca, da qualche parte. Però il vento c’è e con la pioggia a pulviscolo (gnagnarella©) che non smette di scendere ti combina un macello, ti fracichi come se passassi sotto a quelle doccette da festival che ti bagnano a trecentosessanta°. Gli ombrelli si rigirano come pedalini in lavatrice, i binari dei tram diventano degli scivoli in miniatura e le discese si fanno nemiche, tra sanpietrini e pozze agli incroci.

Lisbona è quella città dove hanno deciso di mettere una sede di questa compagnia di telecomunicazioni che è stata abbastanza matta da assumermi, e dove l’aria che si respira è un po’ quella che speri di trovare in una multinazionale, a partire dal prefisso multi: multiculturale, multirazziale. Insomma, una canzone degli Ska-P. Uno di quei posti dove per forza di cose alleni il tuo inglese e conosci un sacco di persone così diverse da te che alla fine ci trovi un sacco di cose in comune. Quei posti in cui il rapporto umano c’è per forza e quindi viene valorizzato. Che almeno ci si confronti alla pari, sempre, ché nessuno sta sopra di te perché è bello, né tu stai sotto perché sei una merda.

Son due settimane che cammino con la schiena dritta.
Mi sento un turista in Erasmus, uno che qui ci sta per sbaglio e allo stesso tempo non poteva far altro che venire qui, come se fosse stato scritto da qualche parte.
Sento cose ora, a trentatré anni compiuti il giorno che sono atterrato qui, che mi chiedo se avrei dovuto provare prima, se magari è la cosa giusta all’età sbagliata.
Poi mi dico che meglio tardi che mai non ha mai avuto più senso che in questo momento e allora ben vengano le paure, i pensieri, ben venga questa enorme amplificazione di sentimenti che ti fa amare il mondo e ti spalanca il cuore e le braccia e la testa.

Ben venga tutto, che è il momento di prenderselo e sorridere se un giorno me lo perderò per strada.