La Scritta

Paolo cammina furtivo su Via dei Perroni, a Lecce.

Correndo attraverso Porta San Biagio è quasi rimasto incastrato con la felpa larga nelle colonnine anti macchine. Si è liberato veloce, approfittando per guardarsi in giro alla ricerca di eventuali passanti. La sua parte cosciente sa che alle 3 di notte è difficile che passi qualcuno, ma le scuole sono finite ed i liceali non impegnati con la maturità cominciano a far tardi già molto presto.
Il tintinnio della pallina lo accompagna ad ogni suo passo, scandendo i momenti in cui corre a quelli in cui si ferma dietro agli angoli. Arriva in prossimità della chiesa di San Matteo, illuminata per metà dai faretti e per metà da una luna piena che così piena non si vedeva dai tempi dei lupi mannari. Si appoggia con le spalle al muro all’inizio di Piazzetta Regina Maria, accovacciato per non sbattere la testa al balconcino sporgente del piano terra. Ha il fiatone, ma più che per la corsa per il momento che lo aspetta ora: dovrà essere veloce e pulito, e soprattutto silenzioso.

Ma ha calcolato tutto.

Il lampeggiante arancione comincia a lanciare i suoi lampi dalla fine della strada. Arriva il camioncino dei rifiuti. E questo vuol dire che può agire.

Parte verso il muro di fronte a lui. Mentre avanza a passi veloci, toglie la bretella sinistra dello zaino che scorrere davanti a lui. Apre la zip e tira fuori la bomboletta. Si ferma per un secondo solamente all’angolo, controlla che i flash arancioni siano ancora a debita distanza. Aspetta che il rumore di vetri che si frantumano cominci a riempire l’aria, ed inizia a premere la valvola.
Con movimenti dritti e precisi imprime la vernice blu sul muro. Sono pochi secondi, agita la bomboletta solo una volta, fa due passi veloci all’indietro per controllare il risultato.
Sorride.
È soddisfatto.

In quel preciso momento il rumore di vetri finisce, i lampeggianti si avvicinano.
Paolo rimette tutto nello zaino e così com’è venuto, sparisce nella notte.

Ilaria si sveglia che il sole fa capolino dietro le antenne sui tetti. Ed è comunque in ritardo.
Il bar apre tra dieci minuti, deve arrivare fino a Piazza Sant’Oronzo ma come al solito non vuole correre.
Ma dovrà.

Prende i vestiti del giorno prima, lasciati sulla sedia dopo l’aperitivo con le amiche passato principalmente a parlare male di lui, delle sue assenze e della sua gelosia.
Mentre infila la gonna sorride per un attimo, ricordando di quando la comprarono insieme al mercato di Natale. Erano solo pochi mesi fa, ma il tempo si è dilatato al punto che le sembrano passati secoli.
Dopo un brevissima sosta al bagno, camminando in corridoio afferra cellulare, chiavi e rossetto, tutti strategicamente lasciati in sequenza come le briciole di Pollicino. Infila tutto in borsa, tranne il rossetto. Scende veloce le scale per fermarsi davanti al portone, dove grazie al riflesso comincia a dipingersi le labbra. Ed in un momento in cui mette a fuoco l’esterno e non il suo viso, la vede.

Riconosce subito la sua calligrafia, anche se la scritta è grande, su un muro, e non piccola sui post-it che le lasciava sulla scrivania dopo una notte passata insieme.
Rimane così, con le labbra schiuse e gli occhi grandi che scorrono sulle quattro grandi parole blu.
Apre il portone e, con il rossetto ancora stretto in mano, si avvicina al muro.

Paolo infila il cellulare in tasca velocissimo.
Ha appena letto il suo messaggio, e non gli sembra vero.

“Ti ho risposto”, ha scritto Ilaria.

Esce dalla porta del negozio come un fulmine, il capo che gli grida dietro ma lui è già lontano, già perso nei pensieri e nelle speranze di quella risposta.
Passa di nuovo per San Biagio, a quest’ora affollata di turisti e liceali che sanno di sale.
Corre, corre veloce.
Vede la sua scritta in lontananza e due parole scritte in rosso subito sotto.
Tra la corsa ed il sudore non le distingue e allora corre ancora più veloce.

Quasi sbatte contro il muro, fermandosi allungando le mani per attutire il colpo. Si trova con il viso di fronte alla sua scritta blu

“Ilaria io ti amo”

e spingendosi con le braccia all’indietro amplia la visuale e riesce a leggere le due parole sotto, rosse come le sue labbra, dense di rossetto con alcuni grumi ancora attaccati.
Legge, e si mette a piangere, di un pianto disperato.

“IO NO”.

A Bologna

A Bologna c’è un fatto che se non sei di Bologna non conosci.
A Bologna, che il cielo sarà pure color latte per la nebbia ma che è rossa come il sangue freddo, c’è ‘sto fatto qui.
A Bologna se tu dai del fascista a qualcuno che non lo è (e a Bologna di fascisti ce ne son ben pochi), anche solo per scherzare, anche dopo avergli insultato nell’ordine

– la madre
– la nonna
– entrambe nella stessa frase

beh ecco il fatto è che mentre la tua lingua sta infilata tra gli incisivi per passare dalla esse alla di fascista, ti arriva un camion chiuso in pugno dritto in faccia. E prima che la punta della tua lingua, ormai mozzata e in caduta libera sotto i bei portici di Bologna, beh prima dello splat! sul pavimento liscio ti sono arrivati altri camion in faccia, e in pancia, e alla fine cadi prima tu della punta della lingua. E questo è il trattamento base, a Bologna, se ti azzardi a dare del fascista a uno.
Perché poi c’è il Bambi.

Il Bambi è un omone di due metri e passa per un 150 chili buoni. Non è definibile, il Bambi, non è che sia mai andato in giro a dire altezza e peso alle persone, ma dopo averlo frequentato per un po’ e visto come alza facilmente la gente, diciamo che è una buona stima.

Il Bambi è grosso tutto: ha la piega di grasso sulla nuca, che ogni tanto per scherzo ci si striscia il bancomat o ci si incastra la tessera ARCI. Davanti la testa sembra infilata in mezzo alle spalle, senza collo. Non è che riesca a tenere le braccia stese sui fianchi, che non ha, e anche le gambe camminano storte, piegate da anni di peso da sostenere. Il Bambi pare sia sempre stato ingombrante, anche da piccolo, tanto che il suo soprannome lo si deve proprio alla sua stazza. Pare avesse circa quindici anni quando, in sella alla bici dalla mattina, era andato con gli amici al Parco dei Gessi. Avevano portato il pranzo, l’acqua, un paio di riviste porno con le pagine appiccicate e tre sigarette, una per uno. Mentre in fila sfrecciavano veloci per un sentiero dritto poco dismesso, con gli alberi che scorrevano sfocati ai lati, un cucciolo di daino che scappava da chissà tagliò loro la strada dalla destra. Il Bambi, che era al centro della fila, fece in tempo giusto a strillare “Bambi! BAMBI!” spaventando il primo che cadde a terra. Il cucciolo, spaventato a sua volta da quella figura che rovinava davanti a lui, virò all’ultimo e colpì in pieno il fianco di Bambi. Non ci furono altre urla, né rumore di schianti. La scena presentava il primo e l’ultimo della fila a terra, con qualche graffio su gambe e braccia. Il Bambi ancora in sella, il piede sinistro piantato nel terreno e la mano a tenersi la spalla destra, vagamente dolorante. Accanto a lui, immobile, il cucciolo di daino. Il collo rotto e gli occhi spalancati rivolti verso il suo innocente assassino. Il silenzio rimase loro appiccicato per ore durante le quali avevano spostato il corpo, fumato la loro sigaretta a testa guardandolo e girato le spalle per riprendere le biciclette e pedalare verso casa.
Parlarono solo alla fine, i suoi due amici, mentre si staccava dal gruppo per tornare a casa.
“A domani Bambi!”, gli gridarono dietro senza malizia, senza scherno.
Ormai di spalle, alzò il braccio per salutarli e la spalla per un secondo, con una piccola fitta, gli ricordò quanto appena successo.

Pianse un po’, ma non per il dolore.

Insomma il Bambi è grosso tutto, pure di cuore. Tutti al Pratello lo conoscono. A dire il vero al Pratello tutti conoscono tutti, ma Bambi ha un posto speciale nei giorni di chi abita e lavora nella zona.
Il Bambi era a dare una mano a ricostruire la facciata della sede della radio, devastata da una bomba carta: con la porta nuova da montare sulle spalle, il Bambi camminava sulla via senza una goccia di sudore in fronte, come stesse portano dei semplici cartoni schiacciati. Il Bambi era a fare la spesa per la Giulia, la vedova del 24 che non usciva più di casa dalla morte del marito e che un giorno, davanti gli occhi sgranati di tutti, fu vista passeggiare sottobraccio al Bambi, con un sorriso in faccia che abbagliava il sole. E sempre il Bambi tirò fuori i primi 20 euro per pagare le spese legali al compagno che aveva respinto un gruppo di nazi accompagnato solo dalla sua pistola.

Il Bambi è un buono, gentile e disponibile fino a che, anche per scherzo, non gli dai del fascista. Pare che un paio di volte sia successo, ma mai nessuno aveva assistito alla sua reazione. Il Bambi incassava, aspettava il momento buono e il giorno dopo chi lo aveva insultato zoppiccava, aveva occhiali da sole e diceva di esser caduto in piazza, ubriaco.
Nessuno aveva mai visto o raccontato nulla, tantomeno una denuncia era mai stata sporta nei suoi confronti. L’unico che disse qualcosa fu una sua stessa vittima, invitata dallo stesso Bambi a raccontare perché la si smettesse anche solo di pensarla, quella parola davanti a lui.

Successe una sera di qualche anno fa.
Il Bambi aveva messo, come ogni anno, il suo gazebo di birra al Pratello R’esiste. Era la vigilia della Liberazione e Bologna era una città in festa. Già libera da tre giorni, si riempiva nei portici e nei vicoli e nelle piazze che vista da sopra, quella marea libera in festa, sarebbe sembrato un sistema di arterie piene di sangue inarrestabile, vivo.
Al Pratello Bambi spinava birre e regalava sorrisi, salutava vecchi e nuovi compagni tutti per nome, senza sbagliarne uno. Tutti ricambiavano un abbraccio, un pacca e quei due euro in più che “dai che fan comodo, per la causa!” e il Bambi che sorrideva e diceva di no, che bastavano i soldi per la birra, che magari quei due euro facevano comodo a un altro banco, o a qualcuno di ancor più bisognoso. Il Bambi spillava e sorrideva, e così fino a fine serata, col Pratello che ricominciava a respirare piano, gli ubriachi a cantare e i primi banchi che smontavano tra una canna e una bestemmia.
Il Bambi contribuiva alla raccolta di blasfemia corale del momento, in ginocchio a terra intento a staccare la spina dai barili, quando sente bussare sul banco di legno sopra di lui. Si alza piano, una mano ancorata al bancone per tirarsi su, già innervosito dal fatto che qualcuno si fosse presentato bussando, senza annunciarsi a voce.
Davanti gli si parano due ragazzi poco più che ventenni, uno completamente rasato e l’altro con una cacata di capelli sopra e la colata ai lati. Maglia nera, pantaloni idem, anfibi anche.
Il Bambi non accenna il minimo cambio di espressione, rimanendo con la stessa faccia corrucciata che aveva un secondo prima, in ginocchio a bestemmiare contro i barili. La mano è ancora piantata sul bancone, che lancia un paio di scricchiolii sofferenti stretto sotto la morsa.
Il pelato, con gli occhi azzurri come una lama di ghiaccia, se lo guarda e fa

“Oh, Bambi, allora ce la dai una birra o no?”

Bambi è impassibile.

“Ho chiuso.”

Il pelato si guarda un po’ intorno, ispezionando prima il gazebo, poi la ghiacciaia in un angolo, i bicchieri puliti di plastica riciclabile dentro le scatole. Gli occhi guizzano improvvisamente su Bambi, e un

“Serio? Dai su, non rubarci il lavoro. Non fare il fascio e dacci un birra.”

Bambi è sempre impassibile.
Ma il termometro di quello che ha dentro lo dà il legno, ormai quasi piegato sotto la mano di Bambi, sempre più sofferente.

“Ho detto ho chiuso.”

Il pelato sbotta in una risata sibilata, di scherno, si gira verso Cacatina in testa e si sospirano qualcosa. Il Bambi è sempre impassibile, il legno sul punto di sbriciolarsi.
Il pelato si gira e da sopra le spalle lancia un

“Ma vai a caghèr, camerata.”

Il Bambi, sempre impassibile, fa guizzare velocemente gli occhi intorno. Gli ultimi banchi stanno smontando, sono quasi le 2 di notte e nel giro di mezz’ora la via si sarebbe svuotata completamente. Con la calma di un santo, il Bambi si ripiega sotto il banco e attacca di nuovo la spina al barile. Si alza piano e, sempre lentamente, comincia a girare intorno al bancone per uscire. Mentre supera la soglia del gazebo, allunga una mano e slaccia uno dei due nastri che tengono la copertura frontale legata in alto. Arriva dietro ai due, che ancora ridacchiano per la scenetta di poco prima. Il Bambi prende ognuno con una mano, stretta sul colletto delle maglie nere che indossano. Tutto succede in pochi secondi: il Bambi gira di 180 su se stesso, sollevandoli quanto basta per girarli insieme a lui, direzione gazebo. Arrivato a pochi passi dall’entrata, li scaglia entrambi dietro il bancone e senza fermarsi entra, slegando il secondo laccio e srotolando la quarta parete dietro di sé, chiudendo completamente il gazebo.
Dai volti dei due è sparita ogni spocchia. Hanno la bocca serrata, i denti stretti ma gli occhi non mentono: hanno paura. Nemmeno quelli del Bambi dicono bugie: vuole divertirsi. Li guarda dall’alto dei suoi due metri e passa, ancora stesi in terra, gli steli d’erba ingialliti attaccati alle maglie nere, i segni sui palmi delle mani tenuti premuti su piccoli sassolini.

Il Bambi indica cacatina.

“Tu. Immobile. Tu, pelatino. Hai ancora sete?”

Il pelato lo guarda e non risponde. Un guizzo di rabbia gli passa negli occhi ma al

“Mi sa che sì. Hai ancora sete. Siediti va.”

che il Bambi sospira indicando la sedia vicino alla spina, torna di nuovo a cagarsi sotto.

“Ho detto siediti.”

Senza fare un fiato, il pelato gattona per un metro e si aggrappa alla sedia di plastica bianca, che il Bambi in realtà usava solo per poggiare i bicchieri, ché mai avrebbe retto quel cristiano. L’esile fascistello si aggrappa alla sedia, si trascina su e si schianta sullo schienale, esausto come avesse scalato una montagna. Ma è la montagna ad andare da lui, con un bicchiere in mano che posiziona sotto la spina e che riempie in pochi secondi. La schiuma straborda, cade sulle mani del Bambi, sul banco.
La porge al pelato.

“Bevi.”

Il fascistello oppone un po’ di resistenza, Cacatina da dietro accenna un

“Dai Bambi scusa, noi..”

ma il Bambi lo interrompe semplicemente girando la testa e fissandolo. Cacatina si rannicchia in un angolo, braccia lungo i fianchi con le mani piantate in terra, teso come uno sfilaccio di carne secca.

Il Bambi si gira di nuovo verso la sua vittima.

“Ho detto: bevi.”

Il fascistello rimane immobile. Fissa il bicchiere nemmeno avesse visto versarci dentro del veleno. Il Bambi avvicina il bicchiere al volto del pelato, che ostina un’ultima, futile, paradossale Resistenza. Il Bambi allora con la mano libera pinza il naso del pelato: basta quello per trascinarlo in avanti, come si prendesse una maniglia con la mano guantata per non lasciarci impronte sopra. Così facendo, lo costringe anche ad aprire la bocca, che riempie col primo bicchiere. Tutto molto semplice, anche perché il fascistello non prova a fare nulla se non tirare un po’ indietro la testa. Ma ormai è fatta: inizia a bere e dopo pochi secondi la birra cominicia a sgorgare dalla sua bocca. Tossisce, fa per strozzarsi, e allora il Bambi leva le dita dal naso e gli mette la mano dietro la nuca.

“Bevi.”

Il Bambi ormai non deve far più nulla: tra colpi di tosse e conati, riempie una, due, tre volte la bocca del pelato. La scena, vista dalla prospettiva di Cacatina, mostra un omone che versa a nastro medie su medie di birra in qualcosa che diventa sempre meno un arrogantello del cazzo, e che ogni secondo di più si lascia andare, tra spruzzi di birra come fosse una fontana.

Il Bambi si ferma poco prima di sversare la decima birra nell’esofago del pelato. La spina comincia a gorgogliare e per qualche secondo, mentre spruzza gli ultimi residui di schiuma e aria, i rumori che produce si confondono con quelli del pelato che, tra colpi di tosse e conati, si accascia sfiancato di un lato. Cacatina respira così forte da far gonfiare la copertura del gazebo contro la quale è sdraiato.
Un silenzio sporco regna nell’aria: in lontananza si sentono gli ultimi tubi di metallo caricati su un furgone sbattere tra loro; qualche ubriaco in lontananza canta Dalla come fosse l’ultima cosa che uscirà dai suoi polmoni; la spina ribolle piano colando gocce di birra svaporata.

Il Bambi si asciuga le mani con lo straccio sunto di serate frenetiche, mentre osserva Cacatina portarsi sottobraccio un pelato sfiancato, barcollante, che sembra quasi frignare mentre trascina i piedi in terra. Prima di andarsene, gli hanno promesso mille volte di non farsi vedere mai più in giro. La leggenda narra che né Pelato né Cacatina si siano realmente visti in giro, e che entrambi abbiano smesso di bere, essere arroganti e soprattutto di dare il fascista alla gente. Pare addirittura abbiano smesso di esserlo, fascisti.

Si dice che il Bambi da quella sera si sia ammorbidito, in queste situazioni. Un ragazzetto di vent’anni ha iniziato a dargli una mano al banco e, se qualcuno arriva e c’è da menare le mani, il Bambi non fa nulla.

Ma manda l’allievo.

(grazie a Max&Elisa di Tasca Mastai per lo spunto. e i Moscow Mule. e la simpatia. e i Moscow Mule)

“Sulla mia Pelle”

Mi ero ripromesso solo di consigliarlo, con poche parole, poche come quelle nel film.
Ma non ce l’ho fatta.

“Sulla mia Pelle”, e in molti lo hanno già detto, era un film necessario.
Necessario per chi come me ancora non se ne fa una ragione, di quello che è successo, e che fin dal giorno zero sa benissimo cos’è successo e ha seguito tutto a distanza, ma senza distacco alcuno, montando una rabbia e un’impotenza difficili da descrivere.
Necessario per chi ha sempre pensate e detto che Stefano fosse solo un tossico, perché si sorprenderebbe e allo stesso tempo si sentirebbe una merda nel capire che ha sempre avuto ragione. Stefano era stato un tossico e come un tossico è stato trattato, se sei in un paese retrogrado, incivile e senza rispetto alcuno per la vita umana: Stefano aveva, al netto di tutto, dei problemi, e proprio per questo andava aiutato, supportato e accompagnato verso un iter democratico due volte di più.
Necessario per chi pensava che in Italia un film del genere non potesse farsi, e invece si ritrova davanti una gemma rara, un’ora e quaranta con più silenzi che frasi, e quelle poche sono sempre fredde, spigolose, da quelle che Stefano sussurra a quelle sibilate tra i denti di cani rabbiosi e ciechi di fronte alla sofferenza di un ragazzo.

Il filma squarcia il velo della cronaca e irrompe nell’intimità di una famiglia stanca delle cazzate del figlio, di una storia che ognuno di noi ha sentito se non vissuto nella propria cerchia: una madre che non si arrende e un padre stanco, due genitori che si trovano al centro di una serie di eventi dei quali in quel momento non sono nemmeno a conoscenza, e che gli verranno schiaffati in faccia con un foglio bollato dopo sette giorni di attese e rifiuti, ma soprattutto dopo sette giorni senza avere una singola notizia sulla situazione del figlio. Una sorella incazzata, una sorella il cui amore per il fratello esplode quando si rende conto che “ti voglio bene” non potrà più dirglielo. Una famiglia che, zavorrata da una burocrazia avvelenata dall’illegalità di quei giorni, a un certo punto ha paura che lui pensi che alla fine sia stato abbandonato anche da loro, e credo sia una delle sensazioni, da entrambe le parti, più brutte del mondo.
Ma soprattutto cala una sorta di ombra su Stefano e sul suo modo di ribellarsi che ti fa rabbia, che dentro ti fa gridare “dai Stè ti prego fatti aiutare” come se non sapessi già che quelle grida di aiuto, spesso celate dietro i suoi rifiuti e la sua strafottenza, rimarranno inascoltate per tutto il tempo.

Dall’altra parte un’istituzione che serve e protegge se stessa e il suo continuo infrangere anche la più semplice delle procedure: agenti in borghese fuori servizio che “danno una mano”, carabinieri più piccoli di Stefano che si fanno grandi dentro la divisa, la polizia penitenziaria che si preoccupa delle sue condizioni solo per mettere in chiaro che lui da loro, in quello Stato, ci è arrivato così. Uomini di servizio che si lavano le mani da un sangue che li sporca proprio nel momento in cui si assicurano che loro non c’entrano nulla.

Personalmente, due sono le cose che più mi hanno colpito: la prima è quell’immagine di Stefano rannicchiato su una tavola, mentre “l’assistente” gli sta andando a gridare che è arrivata l’ambulanza. Lui è lì, senza coperta, le mani spinte nelle tasche della giacca nera, una posizione scomoda per chiunque ma che a lui dà sollievo, un sollievo che però sparisce e lascia il posto a un dolore cieco, che mentre lo vedi ti pare di sentirlo, come muovere articolazioni scheggiate, un Cristo che viene preso di nuovo, caricato della sua croce, e portato verso la prossima Stazione.
La seconda cosa è la registrazione originale sui titoli di coda, quella dove Stefano viene interrogato dalla giudice. L’avevo già sentita, negli anni, ma ascoltarla dopo il film, a occhi chiusi, se si riesce a distaccarsi dalla voce annoiata della donna, se per un attimo riusciamo a non sentire lui che le parole le tira fuori soffrendo, a un certo punto si sente il respiro di Stefano. Fateci caso. Un respiro affannato, un respiro anomalo, un trattenerlo per non sentire dolore e un rilasciarlo veloce per provarne il meno possibile.
Un respiro che non c’è più.

“Sulla mia Pelle” è un film necessario e che secondo me, almeno per la prima visione, è necessario vedere da soli. Perché credo sia l’unico modo per sentirsi anche solo lontanamente, minimamente come lui.
Soli.

Lisbona – Parte Settima – Cosa mi manca?

Io continuo a pensarci.
Ci penso tutti i giorni.
Sono passati quasi cinque mesi e ci rimugino spesso.
Faccio liste mentali e depenno ogni riga neuronalmente, una dopo l’altra.
Mi guardo in giro per strada, in ufficio, ascolto la scuola di musica sotto casa mentre la sera provano jazz e a tutto ci sovrappongo la mia vita a Roma.
Cosa mi manca, di Roma?
Dopo 32 anni e 364 giorni passati nella Capitale escludendo i dieci mesi a Lecce, io ancora non lo so, cosa mi manca.
Direi niente, ma sarei un bugiardo come se dicessi che mi manca tutto.
Scrivo quest’ultima cosa e mi viene in mente Rebibbia e il murales di Zerocalcare

“Qui ci manca tutto. Non ci serve niente.”

e lo faccio mio.

Ma ci ripenso subito perché forse non mi manca niente ma mi serve tutto.
E ci ripenso di nuovo perché, appunto, manco lo so che mi manca.
E non parlo di persone, ché Lei ad esempio mi manca da incazzarmi con la geografia e le sue distanze.
Mi manca il mio ex collega di lavoro e il bene che ci siamo voluti in nemmeno un anno.
Mi mancano i miei amici, i pochi rimasti a Roma, e le poche volte che riuscivamo a vederci.
Mi manca la mia amica bionda dell’italico nordest, e il recuperare gli spritz persi in un mese in un’ora.
Mi mancano le miniature, tutte e tre.
Mi mancano i miei zii e le loro cene pantagrueliche.
Mi mancano Matre e Fratello pure se, sempre per colpa delle distanze, vedevo già poco.

Ma, dicevo, non parlo di persone, perché alcune ti mancano pure se ce le hai a venti centimetri.

Parlo di una quotidianità che era diventata un inferno, di un’umanità inumana, di facce tristi quando non sono arrabbiate, di scontrini non emessi e controllori inesistenti.
Penso a una città che negli ultimi cinque anni mi ha pietrificato il cuore e sciolto il fegato.

Quindi, che potrebbe mai mancarmi davvero?

Mi ci devo impegnare un sacco, son sincero.
In questi mesi ci ho dovuto ragionare sopra. Mai una volta che così, d’istinto, ho provato un tuffo al cuore, mai mi si è annebbiata la vista, mai ho vacillato al pensiero di quanto mi mancasse qualcosa.
Che poi, sò pure celiaco, manco a dire che mi manca la pasta.

Allora, che cazzo mi manca?

Ecco, a proposito di, mi manca un pezzo di pizza e una Mikkeller fresca da Celiachiamo.
Il gelato da Andreotti prima di attaccare alle sei e mezza per il turno Cena.
Il tramonto da Ponte Garibaldi con lo spicchio di Cupolone in fondo.
Entrare d’inverno alla Feltrinelli di Largo Argentina senza comprare nulla, per scaldarsi e sbavare su quintali di libri che non posso permettermi e che tanto non leggerei.
Andare a vedere le finestre di casa di Nonna a San Saba.
I concerti al Monk, quelli dentro però, che si sente meglio e che deve esserci proprio casino per farmi sentire a disagio.
Leggere le mie cose acide al Blackmarket entrando a gamba tesa sui live delle miniature. E tenere la nipotina mia mentre loro suonano.
Il caffè di Sabatino la mattina prima di andare a lavoro, e le patate al forno del kebabbaro sotto l’ufficio.
I murales del Quadraro.
L’atmosfera anni ’70 che ti arrivava come un pugno sui fianchi entrando al bar di Mano Bianca, quando lavoravo a Cipro.
Bob Marley suonato dal ragazzo africano sotto la metro a Cornelia, che quando passavo senza lasciargli nulla comunque mi sorrideva.

Ecco.
Allora qualcosa mi manca.
Però ci ho dovuto pensare, e anche parecchio.
Nessun tuffo al cuore, manco di quelli che la giuria alza tutti dieci perché non è arrivato manco uno schizzetto d’acqua.
Nessun rimpianto, nessun rimorso, diceva Max “personificazione della nostalgia” Pezzali.

Proprio ieri parlavo con Matre che da brava Matre qual’è tutta orgogliosa dice alla gente che sto bene.
Che lo sente, che sto bene.
E chi mi conosce (mai come Matre, of course) lo sa che è vero.
Che nonostante comunque i soldi siano pochi, nonostante realizzo sempre poco che vivo di nuovo da solo dopo tre anni di convivenza, nonostante non sia facile perché comunque alla fine un cazzo di niente nella vita lo è, io non sto a Roma.
Di base questo, e il fatto che il lavoro mi regala grosse soddisfazioni, mi fanno stare bene.

Immaginate quando Lei sarà qui.

Lisbona – Parte Sesta – Grazia

Grazia come ogni mattina si sveglia con la suoneria del telefono.
L’ha impostata perché sa che dopo un po’ la odierà.
È la “loro” canzone.
Era.

Si trascina in bagno per togliersi i segni di un aperitivo a San Lorenzo della sera prima. Si passa l’ovatta sul viso come volesse scavarselo, come se invece di toglierlo volesse farsi simboli di un guerriero tribale.
E infatti nella giungla, a combattete, sta andando.
Come tutti i giorni.

Grazia lavora in un call center, in questi anni in cui non se ne parla più come quando sembravano la sala d’attesa per l’inferno.
I sindacati sono spariti e i diritti rimasti quelli, pochi e deboli.
La paga in una città come Roma le basta per qualche aperitivo di cui sopra, la vacanza in estate e un vestitino a fiori al mercato. Una volta al mese, se è andato bene.

Grazia entra in ufficio passando il badge rovinato da anni di zaino e botte contro la scrivania. Saluta i pochi colleghi a cui tiene, e che sono con lei da un po’, e come ogni volta si chiede i nomi dei nuovi, sempre di più, sempre più a tempo, bombe di precariato pronte ad esplodere.

Grazia accende il computer e inserisce le troppe password che il sistema le richiede, a lei che non ha mai chiesto nulla a nessuno.
Tira fuori le cuffie con le spugnette smangiucchiate dalle urla di clienti frustrati e dal sudore delle estati passate lì dentro con l’aria condizionata rotta.
Guarda l’orologio in basso a destra sullo schermo mentre posizione il mouse su Disponibile.
Alle 8:00 clicca, e ricomincia.

Grazia risponde a utenti che dicono che gli è stato addebitato troppo ma non sanno perché. Sorride triste mentre gli cancella gli abbonamenti ai video porno o al calcio scommesse, pensando a compagne e mogli che piangerebbero isteriche.
C’è il business man che fattura 100 euro al mese e pretende tariffe alla Montezemolo.
C’è la signora anziana a cui hanno allacciato la fibra ottica e non sa nemmeno come è fatto il modem.

Grazia risponde, piena dei cosiddetti “sorrisi telefonici”, sopporta molta ignoranza e qualche insulto.
Pochi istanti prima di ogni pausa comandata (quindici minuti ogni due ore) si prepara una sigaretta, raccoglie il tabacco che le cade sulla scrivania e mentre esce lo butta con cura in un cestino.

Grazia aspira dalla sigaretta e sbuffa via il fumo annoiata. Poggiata di schiena all’entrata dell’ufficio guarda la gente che si trascina fuori dalla palestra proprio lì davanti. Li vede stanchi, sudati e certa che su quei tapis roulant ci vanno non per correre, ma per avere la sensazione di scappare da qualcosa.

Grazia rientra e controlla il tempo di pausa che le rimane. Ha ancora 4 minuti, e decide di controllare la chat. Perché oltre al telefono, deve anche rispondere a chi attraverso il sito richiede assistenza.
Proprio in quel momento compare la scritta

“L’Utente FP80QH ha richiesto supporto”

Grazia clicca Accetta.

L’Utente FP80QH in realtà si chiama Jacopo, e un po’ bruscamente riporta che da più di 20 giorni la rete non va. Dice che ha provato di tutto, che ha spento/riacceso/resettato/toltoSIM/cercato antenne manualmente ma nulla, non ha modo di chiamare ed essere chiamato, e non può avere contatti col mondo esterno nemmeno attraverso Internet.
Jacopo riesce oggi per la prima volta in ventiquattro giorni a interagire davvero con qualcuno che lo stia a sentire.

Grazia gira gli occhi al cielo quando capisce che il suo essere brusco non è nemmeno più dovuto al guasto, ma al fatto che nessuno è riuscito ad aiutarlo. Sa bene come lavora lei, e cerca di pensare solo a quello, ma troppo spesso si è ritrovata a dover sturare cessi intasati da colleghi annoiati e incompetenti. Da settimane nella chat su Facebook gli dicono solo che stanno gestendo una pratica di cui ancora non si sa nemmeno il numero. Jacopo è all’estero per lavorare, scrive, per fare un lavoro come quello di lei, dice.

Grazia decide di prenderla come una sfida. L’ennesima.
Vuole aiutarlo ma trova difficile farsi rispondere senza una punta di sarcasmo classica di chi è frustrato e allo stesso tempo è protetto da un monitor e chissà quanti, e quali, chilometri di distanza.
Lei deve fare le domande che la procedura richiede, sapendo già come può rispondere dopo un mese senza rete un utente alla domanda “Sei mai riuscito a chiamare prima del guasto?”. Lo chiede mentre vede che Jacopo è cliente dal 2010.
Come non aspettarsi una risposta piccata?

Grazia però non cede, avanza a colpi di domande che le sa benissimo essere banali, ma il Grande Fratello che tutto vede e tutte le chat legge pare sia un parente sensibile e scrupoloso, e lei esegue, banalità dopo banalità, frase fatta dopo frase fatta. Lo fa scrivendo la domanda successiva mentre aspetta la risposta alla precedente.
Vuole arrivare al succo, sa che Jacopo ha sete e il bicchiere di arance spremute è proprio lì, a portata.

Grazia però a un certo punto si ferma. Jacopo è sempre più piccato e le sue rispose sono sempre più condite da rabbia e rancore. Ed è in quel momento che Grazia pensa di cedere, di premere quella X bianca su sfondo arancione, il colore della compagnia che è ovunque in ufficio: sugli sfondi dei PC, sui portachiavi regalati dopo un anno di lavoro, i bicchieri per l’acqua nei barili a testa in giù sono arancioni, come a una festa delle medie a cui nessuno voleva andare ma il festeggiato è ricco, quindi perché no.
E mentre pensa di cliccare su quella bianca ics, capisce che in realtà la vorrebbe dipingere su ogni cosa arancione che si trova intorno, una X per ogni giorno passato lì dentro, una per ogni insulto ricevuto, una per ogni lacrima scesa sul suo volto da quando lui se ne è andato perché non è più come prima.

“Si è connessa!”

Grazia è ancora con il dito a mezz’aria, pronto a scendere violento su una ics che è come fossero mille.

“Grazia, non se che hai fatto, ma la rete si è connessa!”

Grazia sembra sentire la gioia di Jacopo attraverso quell’infinità di pixel, la gioia di chi si è tolto un peso, di chi ha risolto qualcosa.
E la cosa bella è che lei, qualcosa, non lo ha fatto.
Semplicemente è stata lì quasi un’ora, a fare domande stupide con risposte scontate, a far scrivere un ragazzo a cui piace scrivere e che forse proprio per la fretta di farlo, smanettando tra PC e telefono con cui fare screenshot da inviarsi al computer da inviare a lei, ha premuto qualcosa. Ed eccoli lì, con Jacopo che gli scrive

“Mi viene da piangere!”

e Grazia che risponde

“Devi ridere invece!”

e lui che

“Ma che ci stai a fare lì sorella, scappatene via, ci metti troppo cuore e so bene che lì non se lo meritano. O sbaglio?”

Grazia non risponde subito, aspetta, ci pensa, e mentre le dita stanno per partire sui tasti Jacopo la saluta, e la chat si chiude.
Ma lei, pur rimanendo con quella risposta ferma sui polpastrelli, finalmente sorride.
La prima volta nella giornata.
Forse la prima volta da un sacco di tempo.

Grazia spegne tutto, arrotola il filo delle cuffie intorno al microfono e le infila nello zaino. Lo fa automaticamente, guardandosi intanto in giro, le facce stanche di colleghi anonimi illuminate da schermi tutti uguali. I suoi occhi si fermano sui bicchieri arancioni, proprio mentre sistemando le cuffie sente la sua penna preferita, quella a pennarello ma con la punta fine, nero che si asciuga subito. Lo impugna mentre si avvicina alle cisterne d’acqua, prende un bicchiere e scrive il suo nome su un bicchiere. Lo riempie e lo lascia lì, pieno, sulla cisterna che borbotta bolle d’aria.
La sua festa delle medie è appena finita.

Grazia esce dall’ufficio per l’ultima volta, anche se ancora non lo sa davvero.
Nella palestra la gente continua a far finta di scappare dai suoi fantasmi, chiusa dentro un acquario senz’acqua, e senz’aria.
Rientrata a casa a malapena si spoglia: si siede di fronte al PC, digita qualcosa velocemente e dieci minuti dopo ha pronto un biglietto di sola andata.

Grazia come ogni mattina si sveglia con la suoneria del telefono.
L’ha impostata perché sa che dopo un po’ la odierà.
È la “loro” canzone.
E oggi la odia un po’ meno.