A Bologna

A Bologna c’è un fatto che se non sei di Bologna non conosci.
A Bologna, che il cielo sarà pure color latte per la nebbia ma che è rossa come il sangue freddo, c’è ‘sto fatto qui.
A Bologna se tu dai del fascista a qualcuno che non lo è (e a Bologna di fascisti ce ne son ben pochi), anche solo per scherzare, anche dopo avergli insultato nell’ordine

– la madre
– la nonna
– entrambe nella stessa frase

beh ecco il fatto è che mentre la tua lingua sta infilata tra gli incisivi per passare dalla esse alla di fascista, ti arriva un camion chiuso in pugno dritto in faccia. E prima che la punta della tua lingua, ormai mozzata e in caduta libera sotto i bei portici di Bologna, beh prima dello splat! sul pavimento liscio ti sono arrivati altri camion in faccia, e in pancia, e alla fine cadi prima tu della punta della lingua. E questo è il trattamento base, a Bologna, se ti azzardi a dare del fascista a uno.
Perché poi c’è il Bambi.

Il Bambi è un omone di due metri e passa per un 150 chili buoni. Non è definibile, il Bambi, non è che sia mai andato in giro a dire altezza e peso alle persone, ma dopo averlo frequentato per un po’ e visto come alza facilmente la gente, diciamo che è una buona stima.

Il Bambi è grosso tutto: ha la piega di grasso sulla nuca, che ogni tanto per scherzo ci si striscia il bancomat o ci si incastra la tessera ARCI. Davanti la testa sembra infilata in mezzo alle spalle, senza collo. Non è che riesca a tenere le braccia stese sui fianchi, che non ha, e anche le gambe camminano storte, piegate da anni di peso da sostenere. Il Bambi pare sia sempre stato ingombrante, anche da piccolo, tanto che il suo soprannome lo si deve proprio alla sua stazza. Pare avesse circa quindici anni quando, in sella alla bici dalla mattina, era andato con gli amici al Parco dei Gessi. Avevano portato il pranzo, l’acqua, un paio di riviste porno con le pagine appiccicate e tre sigarette, una per uno. Mentre in fila sfrecciavano veloci per un sentiero dritto poco dismesso, con gli alberi che scorrevano sfocati ai lati, un cucciolo di daino che scappava da chissà tagliò loro la strada dalla destra. Il Bambi, che era al centro della fila, fece in tempo giusto a strillare “Bambi! BAMBI!” spaventando il primo che cadde a terra. Il cucciolo, spaventato a sua volta da quella figura che rovinava davanti a lui, virò all’ultimo e colpì in pieno il fianco di Bambi. Non ci furono altre urla, né rumore di schianti. La scena presentava il primo e l’ultimo della fila a terra, con qualche graffio su gambe e braccia. Il Bambi ancora in sella, il piede sinistro piantato nel terreno e la mano a tenersi la spalla destra, vagamente dolorante. Accanto a lui, immobile, il cucciolo di daino. Il collo rotto e gli occhi spalancati rivolti verso il suo innocente assassino. Il silenzio rimase loro appiccicato per ore durante le quali avevano spostato il corpo, fumato la loro sigaretta a testa guardandolo e girato le spalle per riprendere le biciclette e pedalare verso casa.
Parlarono solo alla fine, i suoi due amici, mentre si staccava dal gruppo per tornare a casa.
“A domani Bambi!”, gli gridarono dietro senza malizia, senza scherno.
Ormai di spalle, alzò il braccio per salutarli e la spalla per un secondo, con una piccola fitta, gli ricordò quanto appena successo.

Pianse un po’, ma non per il dolore.

Insomma il Bambi è grosso tutto, pure di cuore. Tutti al Pratello lo conoscono. A dire il vero al Pratello tutti conoscono tutti, ma Bambi ha un posto speciale nei giorni di chi abita e lavora nella zona.
Il Bambi era a dare una mano a ricostruire la facciata della sede della radio, devastata da una bomba carta: con la porta nuova da montare sulle spalle, il Bambi camminava sulla via senza una goccia di sudore in fronte, come stesse portano dei semplici cartoni schiacciati. Il Bambi era a fare la spesa per la Giulia, la vedova del 24 che non usciva più di casa dalla morte del marito e che un giorno, davanti gli occhi sgranati di tutti, fu vista passeggiare sottobraccio al Bambi, con un sorriso in faccia che abbagliava il sole. E sempre il Bambi tirò fuori i primi 20 euro per pagare le spese legali al compagno che aveva respinto un gruppo di nazi accompagnato solo dalla sua pistola.

Il Bambi è un buono, gentile e disponibile fino a che, anche per scherzo, non gli dai del fascista. Pare che un paio di volte sia successo, ma mai nessuno aveva assistito alla sua reazione. Il Bambi incassava, aspettava il momento buono e il giorno dopo chi lo aveva insultato zoppiccava, aveva occhiali da sole e diceva di esser caduto in piazza, ubriaco.
Nessuno aveva mai visto o raccontato nulla, tantomeno una denuncia era mai stata sporta nei suoi confronti. L’unico che disse qualcosa fu una sua stessa vittima, invitata dallo stesso Bambi a raccontare perché la si smettesse anche solo di pensarla, quella parola davanti a lui.

Successe una sera di qualche anno fa.
Il Bambi aveva messo, come ogni anno, il suo gazebo di birra al Pratello R’esiste. Era la vigilia della Liberazione e Bologna era una città in festa. Già libera da tre giorni, si riempiva nei portici e nei vicoli e nelle piazze che vista da sopra, quella marea libera in festa, sarebbe sembrato un sistema di arterie piene di sangue inarrestabile, vivo.
Al Pratello Bambi spinava birre e regalava sorrisi, salutava vecchi e nuovi compagni tutti per nome, senza sbagliarne uno. Tutti ricambiavano un abbraccio, un pacca e quei due euro in più che “dai che fan comodo, per la causa!” e il Bambi che sorrideva e diceva di no, che bastavano i soldi per la birra, che magari quei due euro facevano comodo a un altro banco, o a qualcuno di ancor più bisognoso. Il Bambi spillava e sorrideva, e così fino a fine serata, col Pratello che ricominciava a respirare piano, gli ubriachi a cantare e i primi banchi che smontavano tra una canna e una bestemmia.
Il Bambi contribuiva alla raccolta di blasfemia corale del momento, in ginocchio a terra intento a staccare la spina dai barili, quando sente bussare sul banco di legno sopra di lui. Si alza piano, una mano ancorata al bancone per tirarsi su, già innervosito dal fatto che qualcuno si fosse presentato bussando, senza annunciarsi a voce.
Davanti gli si parano due ragazzi poco più che ventenni, uno completamente rasato e l’altro con una cacata di capelli sopra e la colata ai lati. Maglia nera, pantaloni idem, anfibi anche.
Il Bambi non accenna il minimo cambio di espressione, rimanendo con la stessa faccia corrucciata che aveva un secondo prima, in ginocchio a bestemmiare contro i barili. La mano è ancora piantata sul bancone, che lancia un paio di scricchiolii sofferenti stretto sotto la morsa.
Il pelato, con gli occhi azzurri come una lama di ghiaccia, se lo guarda e fa

“Oh, Bambi, allora ce la dai una birra o no?”

Bambi è impassibile.

“Ho chiuso.”

Il pelato si guarda un po’ intorno, ispezionando prima il gazebo, poi la ghiacciaia in un angolo, i bicchieri puliti di plastica riciclabile dentro le scatole. Gli occhi guizzano improvvisamente su Bambi, e un

“Serio? Dai su, non rubarci il lavoro. Non fare il fascio e dacci un birra.”

Bambi è sempre impassibile.
Ma il termometro di quello che ha dentro lo dà il legno, ormai quasi piegato sotto la mano di Bambi, sempre più sofferente.

“Ho detto ho chiuso.”

Il pelato sbotta in una risata sibilata, di scherno, si gira verso Cacatina in testa e si sospirano qualcosa. Il Bambi è sempre impassibile, il legno sul punto di sbriciolarsi.
Il pelato si gira e da sopra le spalle lancia un

“Ma vai a caghèr, camerata.”

Il Bambi, sempre impassibile, fa guizzare velocemente gli occhi intorno. Gli ultimi banchi stanno smontando, sono quasi le 2 di notte e nel giro di mezz’ora la via si sarebbe svuotata completamente. Con la calma di un santo, il Bambi si ripiega sotto il banco e attacca di nuovo la spina al barile. Si alza piano e, sempre lentamente, comincia a girare intorno al bancone per uscire. Mentre supera la soglia del gazebo, allunga una mano e slaccia uno dei due nastri che tengono la copertura frontale legata in alto. Arriva dietro ai due, che ancora ridacchiano per la scenetta di poco prima. Il Bambi prende ognuno con una mano, stretta sul colletto delle maglie nere che indossano. Tutto succede in pochi secondi: il Bambi gira di 180 su se stesso, sollevandoli quanto basta per girarli insieme a lui, direzione gazebo. Arrivato a pochi passi dall’entrata, li scaglia entrambi dietro il bancone e senza fermarsi entra, slegando il secondo laccio e srotolando la quarta parete dietro di sé, chiudendo completamente il gazebo.
Dai volti dei due è sparita ogni spocchia. Hanno la bocca serrata, i denti stretti ma gli occhi non mentono: hanno paura. Nemmeno quelli del Bambi dicono bugie: vuole divertirsi. Li guarda dall’alto dei suoi due metri e passa, ancora stesi in terra, gli steli d’erba ingialliti attaccati alle maglie nere, i segni sui palmi delle mani tenuti premuti su piccoli sassolini.

Il Bambi indica cacatina.

“Tu. Immobile. Tu, pelatino. Hai ancora sete?”

Il pelato lo guarda e non risponde. Un guizzo di rabbia gli passa negli occhi ma al

“Mi sa che sì. Hai ancora sete. Siediti va.”

che il Bambi sospira indicando la sedia vicino alla spina, torna di nuovo a cagarsi sotto.

“Ho detto siediti.”

Senza fare un fiato, il pelato gattona per un metro e si aggrappa alla sedia di plastica bianca, che il Bambi in realtà usava solo per poggiare i bicchieri, ché mai avrebbe retto quel cristiano. L’esile fascistello si aggrappa alla sedia, si trascina su e si schianta sullo schienale, esausto come avesse scalato una montagna. Ma è la montagna ad andare da lui, con un bicchiere in mano che posiziona sotto la spina e che riempie in pochi secondi. La schiuma straborda, cade sulle mani del Bambi, sul banco.
La porge al pelato.

“Bevi.”

Il fascistello oppone un po’ di resistenza, Cacatina da dietro accenna un

“Dai Bambi scusa, noi..”

ma il Bambi lo interrompe semplicemente girando la testa e fissandolo. Cacatina si rannicchia in un angolo, braccia lungo i fianchi con le mani piantate in terra, teso come uno sfilaccio di carne secca.

Il Bambi si gira di nuovo verso la sua vittima.

“Ho detto: bevi.”

Il fascistello rimane immobile. Fissa il bicchiere nemmeno avesse visto versarci dentro del veleno. Il Bambi avvicina il bicchiere al volto del pelato, che ostina un’ultima, futile, paradossale Resistenza. Il Bambi allora con la mano libera pinza il naso del pelato: basta quello per trascinarlo in avanti, come si prendesse una maniglia con la mano guantata per non lasciarci impronte sopra. Così facendo, lo costringe anche ad aprire la bocca, che riempie col primo bicchiere. Tutto molto semplice, anche perché il fascistello non prova a fare nulla se non tirare un po’ indietro la testa. Ma ormai è fatta: inizia a bere e dopo pochi secondi la birra cominicia a sgorgare dalla sua bocca. Tossisce, fa per strozzarsi, e allora il Bambi leva le dita dal naso e gli mette la mano dietro la nuca.

“Bevi.”

Il Bambi ormai non deve far più nulla: tra colpi di tosse e conati, riempie una, due, tre volte la bocca del pelato. La scena, vista dalla prospettiva di Cacatina, mostra un omone che versa a nastro medie su medie di birra in qualcosa che diventa sempre meno un arrogantello del cazzo, e che ogni secondo di più si lascia andare, tra spruzzi di birra come fosse una fontana.

Il Bambi si ferma poco prima di sversare la decima birra nell’esofago del pelato. La spina comincia a gorgogliare e per qualche secondo, mentre spruzza gli ultimi residui di schiuma e aria, i rumori che produce si confondono con quelli del pelato che, tra colpi di tosse e conati, si accascia sfiancato di un lato. Cacatina respira così forte da far gonfiare la copertura del gazebo contro la quale è sdraiato.
Un silenzio sporco regna nell’aria: in lontananza si sentono gli ultimi tubi di metallo caricati su un furgone sbattere tra loro; qualche ubriaco in lontananza canta Dalla come fosse l’ultima cosa che uscirà dai suoi polmoni; la spina ribolle piano colando gocce di birra svaporata.

Il Bambi si asciuga le mani con lo straccio sunto di serate frenetiche, mentre osserva Cacatina portarsi sottobraccio un pelato sfiancato, barcollante, che sembra quasi frignare mentre trascina i piedi in terra. Prima di andarsene, gli hanno promesso mille volte di non farsi vedere mai più in giro. La leggenda narra che né Pelato né Cacatina si siano realmente visti in giro, e che entrambi abbiano smesso di bere, essere arroganti e soprattutto di dare il fascista alla gente. Pare addirittura abbiano smesso di esserlo, fascisti.

Si dice che il Bambi da quella sera si sia ammorbidito, in queste situazioni. Un ragazzetto di vent’anni ha iniziato a dargli una mano al banco e, se qualcuno arriva e c’è da menare le mani, il Bambi non fa nulla.

Ma manda l’allievo.

(grazie a Max&Elisa di Tasca Mastai per lo spunto. e i Moscow Mule. e la simpatia. e i Moscow Mule)

Quattro Motivi per Rimanere a Roma – Tre e Quattro

Imparare l’Arte del Riuso con AMA

Non possiamo negarlo: negli ultimi venti anni la disponibilità di cose, dagli alimenti alla tecnologia ai vestiti alle auto a tutto quello che si può comprare, è aumentata in modo vertiginoso. Ma visto che non abbiamo case o spazi abbastanza grandi per tenerle tutte, le dobbiamo buttare.
E perché lasciare le cose più grandi come frigoriferi, divani, sedie, mobili, dvd, libri, auto, case e fogli di giornale nei posti dedicati, da dentro i cassonetti alle isole ecologiche?
Molto meglio lasciare le cose solo intorno ai cassonetti, già pieni per la negligenza di una classe operaia, quella dei netturbini, diventata in questa città elitaria, e lasciare a disposizione degli altri ma sopratutto degli eventi atmosferici interi pezzi di arredamento, che perdendoci un po’ di tempo ti rifai tre case solo con un cassonetto.
Anche qui, come con gli scioperi e la possibilità quindi di girare Roma, la mancata gestione dell’AMA regala questa grandiosa chance a tutti i romani, quella di spremersi le meningi e dare nuova vita alla natura morta che ormai copre le strade della Capitale da mesi.
Se è pur vero che durante i mesi estivi i cassonetti erano inavvicinabili, ché grazie al caldo l’umido macerava meglio del mosto, ora è possibile raccogliere a piene mani i frutti della maleducazione altrui e farne nuova vita.
Anni di «Art Attack» non posso essere scivolati via così: ci basterà quindi avere sempre con noi forbici a punta arrotondata e abbondante colla vinilica per poter esprimere tutto il nostro talento inespresso. Dal riparare una poltrona a fare di un frigo una libreria, passando per nuovi tavoli da giardino fino a non fare altro che guardarla, e godersela così com’è.

Il Campidoglio come la Casa Bianca (diretta da Ferretti)

Vi ricordate il periodo Marino?
Era incredibilmente noioso.
Nel senso: come lui stesso gestiva le cose risultava troppo burocratico, troppo cavilloso, con ‘sta fissa di regolarizzare le municipalizzate, chiudere discariche, presentare il bilancio in tempo (per davvero però), far passare il badge agli autisti ATAC e far tornare in strada, a piedi, di Domenica(!) gli spazzini AMA.
Se non fosse stato per un po’ di Movimento con quelle storie di Panda rosse, scontrini e Papi che non sanno niente di nulla, quei due anni sarebbero stati ancora più noiosi.

Ma adesso!
Oh adesso!

Star dietro a tutto quello che succede dentro alle stanze dell’Amministrazione Raggi è impossibile. Anche perché, se erano partiti tutti con lo streaming, la condivisione, i palazzi di vetro, adesso se non fosse per un poco di indagine giornalistica (seppur nella maggior parte dei casi orientata verso lo scandalo e il gossip) e per le concrete conseguenze del loro non operato, di cosa succede non si saprebbe nulla.
Quindi ad ogni uscita di agenzia, ad ogni link pubblicato si aprono retroscena da quattro soldi, giochi di potere già visti e sentiti che però animano i corridoi del Campidoglio e smuovono una situazione che ormai credevamo finita. Un ciclo chiuso, quello dei parenti assunti, delle delibere presentate solo per nuovi incarichi e nuovi stipendi, dell’appoggio alle famiglie criminali che gestiscono i camion bar: che barba che noia, quel Marino che le aveva fatte finalmente sparire rivelandone gli sfondi che oscuravano abusivamente, robetta tipo Colosseo e Fontana di Trevi: tutto ok, si può ritornare a comprare mezzo litro d’acqua a sedici litri di sangue.

È come se Renè Ferretti realizzasse finalmente il suo film sulla casta, ma nel periodo di Libeccio e con attori ancora più scarsi di Corinna e Stanis.
Un continuo «scarto!» che però non viene mai gridato, manie di protagonismo che nessuno si azzarda a placare e un prodotto terribile, surreale, grottesco, e per questo quasi divertente, che guardi col cuscino con la faccia, come gli horror, ma di serie Z.

Quattro Motivi per Rimanere a Roma – Un’Introduzione

Da qualche settimana ho iniziato a limitare i miei passaggi su Facebook.
In primis per potermi concentrare (o almeno provarci) sulla scrittura.
E poi perché era diventata la mia principale fonte di notizie quotidiane. Solo che lì sopra non sono mai vere notizie, perché sporcate da opinioni e punti di vista e ragionamenti che le modificano, le distorcono fino a presentarsi come questioni personali: diventiamo tutti sismologi, medici, politici e quasi ti manca quando eravamo solo allenatori di calcio, e solo il Lunedì.

Questa seconda cosa mi sta quindi aiutando molto, perché non sono più costretto a leggere di quanto gli immigrati qui, i politici lì, i terremoti esagerati dallo Stato e la tipa che compare su ogni scena di ogni attentato da quello dell’arciduca Francesco Ferdinando nel ’14.
Ma soprattutto, mi sto depurando da tutta una serie di costanti, continue, quotidiane informazioni sulla malagestione di Roma da parte del Movimento Cinque Stelle, nella persona della Raggi e della sua setta cerchia.
Da accanito sostenitore di Marino, gli ultimi due anni li ho passati arrabbiandomi, contestando, documentandomi, leggendo molto e scrivendo ancora di più. Ho creato pagine e segnalato altre, ho risposto a ogni commento (e all’inizio sono stati davvero tanti), ho bloccato più gente io che Dikembe Mutombo nella sua carriera e poi, a un certo punto, mi sono rotto il cazzo.

E quindi nell’ultimo mese mi sono staccato dall’oversharing di critiche sui mezzi, sull’AMA, sull’amministrazione e le sue non-scelte, iniziando a valutare l’idea di andarmene via e stop, via il dente via il dolore. Ho cominciato a parlare solo tramite la mia pagina Il Penultimo dei Romantici e sono arrivato adesso a capire che non solo questa cosa sta avendo effetti positivi sulla mia scrittura, ma anche sulla sopportazione per la mia città.
A stare sempre lì a puntare il dito, criticare, vedere le cose che non vanno si arriva a far riempire la colonna dei Contro dimenticandosi dell’esistenza di quella dei Pro.
Nonostante tutto Roma i suoi Pro ancora li ha, e avere tempo di osservarla meglio mi ha dato modo di trovarne almeno quattro, di validi motivi per rimanere e godere di quello che la Città Eterna già può offrire anche (soprattutto?) grazie al contributo della Sindaca e il suo staff perennemente in Movimento.

A partire dal prossimo Lunedì, per quattro Lunedì consecutivi, le quattro ragioni per cui alla fine Roma può offrire delle possibilità che non solo sono nascoste, ma sotto il nostro naso (e a volte dentro) tutto il giorno, tutti i giorni, e che possiamo sfruttare per restare, e trarne tutti i vantaggi possibili.

Avvisi di Garantismo

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– Allora ragazzi: secondo il nuovo codice di comportamento del Movimento, che ho scritto io nella mia stanza e che vale per tutti, da oggi la linea da seguire è «un avviso di garanzia non vuol dire nulla». Siamo d’accordo?
– Sì Beppe!
Certo boss!
– Beh, io
– Io cosa, Joker?
– Dai Beppe lo sai che mi da fastidio quando mi chiami così!
– Di Maio non posso farci nulla. Quando sorridi sembri un misto tra Heath Ledger e uno con un ictus. E tu sorridi sempre. Quindi, Joker, spiegami che problema hai col nuovo codice.
– E chi ha parlato di problema! È solo che dall’inizio fino a ieri abbiamo tenuto la barra dritta sugli avvisi di garanzia degli altri.
– Esatto. Fino a ieri. Ma visto che qui ormai siete incontrollabili, e che starvi dietro è peggio che avere figli scemi, facciamo che se ve li beccate vi difendo una tantum. Da oggi.
– Ma certo, capisco benissimo e condivido appieno. Mi domando solo come gestiremo la prevedibile valanga di merda che ci pioverà addosso. Fino all’altro giorno se nella stessa frase c’era scritto “indagine” e “nome politico a caso“, eravamo pronti ad arrotare la lama della ghigliottina.
– Per quello vi ho già mandato una mail ieri l’altro, dovresti averla ricev
– Mail?
– Lascia stare. La strategia è questa: facciamo i vaghi. Ci diranno di tutto. Che ci siamo risvegliati garantisti. Che questo è un provvedimento ad personam (o in questo caso, ad Virginiam), proprio come faceva Berlusconi. Quindi noi facciamo i vaghi. Tiriamo avanti. Fidatevi, questi ci vengono dietro comunque.
– Difi?
– Alessandro, levati quel cazzo di casco che le vacanze in scooter son finite da mesi.
– Ok. Io però lo tengo per sicurezza. Che c’ho paura mi arrivino sassate.
– Ma da chi?
– Boh, che ne so. Dalla gente che s’è stufata.
– Ma che cazzo dici. Quella poca gente che si è stufata di noi è troppo intelligente per passare alla violenza. E guarda che è meglio che quelli svegli smettano di sostenerci, anche di votarci. Son pericolosi, quelli intelligenti. Guarda me.
– Beh io mi ritengo abbastanza intelligente.
– Fico stai zitto, che nemmeno il cognome c’hai di pericoloso.
– Scusa.

– Ragazzi meravigliosi, forse non vi ancora chiaro il concetto. Finché il nostro elettorato, come anche solo chi ci sostiene e ci difende sulla rete, ha il quoziente intellettivo di una piastrella da bagno, siamo in una botte di ferro. Ma voi su Facebook ci state solo per Candy Crush o vi fate un giro sulle vostre bacheche? Appena uno, dieci, cento piddioti si mettono a criticare quello che avete appena scritto, arriva l’esercito delle dodicimila scimmie a prendere le nostre difese. Si fanno i copincolla tra di loro, diventano più virali dei video di gattini pucciosi. Sono il nostro pane quotidiano e per dio se me li voglio tenere stretti. Senza di loro, e se questo fosse un paese con una memoria storica che vada oltre il Mondiale del 2006, non saremmo arrivati manco a fare il secondo V-Day. Grazie al cielo siamo circondati da allenatori attaccati alle slot machine, cinquantenni che hanno capito da venti minuti come si accede a Facebook dallo smartphone e schiere di giovani accecati dalla rabbia di un paese che gliel’ha messo nel culo già da ragazzini. E poi, non dimenticatevi la mole di fasci e fancazzisti comunali che hanno votato Virginia. Non scordateveli mai, quelli come gli altri sparsi per l’Italia, che son buoni pure per difendere una femminuccia come te, Alessandro. Comunque, tornando al discorso.

Fate.
I.
Vaghi.

Non possiamo permetterci di cadere nella tentazione della polemica e dello scontro. Qui, appena arriva qualcosa a Virginia, dobbiamo essere compatti nel difenderla. Almeno pubblicamente. Poi, per conto nostro, ne parliamo meglio. Però devo saperlo subito, e per farlo ho bisogno che un portavoce mandi una mail tramite il sito altrimenti non vale. Joker, tu puoi farmi una telefonata.
– Grazie. Quindi poi, tra di noi, andiamo di Trattamento Pizzarotti?
– Ma no Joker, che poi finisce come con lui, che ti ha smerdato mille volte per non aver risposto alle sue richieste di incontro.
– Ma quando mai?
Via mail.
– Ah.
– Detto questo, io torno a Malindi. Avete qualcosa da aggiungere? Alessandro?
– Io voglio che gli aretini devono votare.
– Eh?
– No scusa, pensavo a Scanzi.
– Stai tradendo gli ideali della logica. Joker?
– Io vorrei un consiglio.
– Dicci pure.
Hotmail o Libero?
– Fico?
– Fico come? Punto com o punto it?
– Dio santissimo. Che ragazzi meravigliosi.