Mi Raccomando

Esattamente due anni fa, vengo chiamato per un colloquio. Avevo inviato la mia candidatura su LinkedIn, sottoforma di Curriculum Vitae e corredata di lettera di presentazione pulita, informale e diretta all’azienda che cercava un nuovo dipendente.
Non voglio fare nomi, cambierebbe poco, ma la società si presentava come una start up molto innovativa nell’ambito delle telecomunicazioni online, con centralini VOIP e richiesta di determinate conoscenze. Quello che cercavano era un operatore di Customer Care, da mettere al telefono per gestire nuovi e vecchi clienti che riscontravano problemi con il software, o che avevano semplici domande prima di abbonarsi.
La mia carriera professionale inizia (e in quel periodo continuava) proprio come operatore telefonico di Customer Care, dopo qualche anno nella neonata assistenza iPhone per Apple e poi come risponditore agli scemi per un sito di e-commerce. Mancavo sicuramente di qualche conoscenza più hardware tra reti, cavi, DNS e altre cose a me sconosciute: avranno trovato sicuramente (e giustamente) di meglio.
Il colloquio era andato comunque bene, senza grossi imbarazzi e anzi, con un sincero interesse da parte dell’intervistatore, che era poi uno dei fondatori e CEO della start up.

Ora, il punto di tutta ‘sta premessa non è che non mi hanno preso a lavorare con loro (non ho davvero problemi ad ammettere che non ero adatto a quel tipo di Assistenza), ma il fatto che dopo le infinite raccomandazioni da parte sua, nonostante le mille rassicurazioni sul fatto che

«tranquillo, vada come vada comunque ti faccio sapere»

ecco, sono passati due anni e io ancora sto aspettando.

La cosa bella è che, ad apertura di colloquio, ci aveva tenuto tantissimo a farmi sapere che ero uno dei pochi a essere arrivato lì perché uno dei pochi ad aver mandato la lettera di presentazione (oltre a un CV decente).
La cosa mi ha sorpreso (e ovviamente fatto ben sperare) sul momento, ma mi ha fatto rimuginare poi a contatto non avvenuto.

Nel frattempo, in questi due anni, ho:

– continuato a lavorare dove stavo, fino a che la società non ha fallito e sono stato licenziato;
– collaborato con un amico in una web agency, dove ho sperimentato la professione del Copywriter (e lo metto in corsivo non perché non lo consideri un lavoro, ma perché non preparato io a farlo e non messo nelle condizioni ideali per formarmi);
– nel frattempo ho iniziato a collaborare per Alias de il manifesto, grazie alla segnalazione di un amico che lavora nella redazione («servono collaboratori? conosco uno che scrive bene. se vi piace, lo prendiamo. altrimenti, no»).

Terminata la collaborazione con la web agency, ho mandato (di nuovo) tanti, tantissimi CV a cui nessuno, nessunissimo ha risposto.
E l’ho mandato a Netflix come alla Nike («eggrazziarcazzo» direte voi e «c’avete pure ragione ma almeno c’ho provato», dirò io), fino alla trattoria «da Mario alle quattro zoccolette» come lavapiatti. In mezzo, la qualunque, da raccoglitore di ghiaia a pinzatore di foglie in Autunno.
Li ho spediti allegati a mail in cui mi presentavo, stampati e portati dai fruttaroli egiziani di Centocelle.
Nulla.

Poi, pochi giorni fa, una mia amica (conosciuta anni fa grazie al teatro nel nostro liceo, e ritrovata grazie a Facebook negli anni) mi contatta e mi chiede se cerco lavoro.

«C’è una persona che conosco che ha un’agenzia, cerca gente. Io non posso e mi sei venuto in mente tu. Girami il CV e vediamo!»

Lo faccio, lo manda, questa persona mi contatta e, dopo avergli mandato il portfolio (il primo della mia vita!), l’altroieri fissiamo il colloquio e oggi ci siamo fatti due belle chiacchiere.

Qualche giorno dopo la segnalazione della mia amica di teatro, un’altra amica (conosciuta questa volta su un posto di lavoro) mi tagga in un’offerta di lavoro, che altrimenti mi sarei perso.

Mando il CV, una lettera di presentazione di cui sono estremamente orgoglioso e incrocio le dita. Il posto è molto, molto fico, e rispecchia esattamente l’ambiente di lavoro in cui mi piacerebbe andare.
Il giorno dopo mi arriva una mail in cui mi si da libera scelta per il giorno del colloquio. Griglia sul Google Calendar, lo prenoto e vado.
Va bene, e l’impressione che ho avuto è che mentre la lettera di presentazione si è fatta notare, il CV probabilmente non è stato nemmeno aperto.
A breve, comunque, farò un turno di prova (confermato già in sede di colloquio, un miracolo), e ne sono contentissimo.

Nel mezzo di queste due segnalazioni, uno dei migliori amici mi dice che nel locale dove ogni tanto va a dare una mano, cercano qualcuno che si metta a fare accoglienza all’entrata, Niente acchiappino, della serie

«SCIAO RAGASSI! PIATTINO DI RIGATONI CÒR SUGO DE CODA? SARTIMBOCCA?ELLÒ SPÌC ÌNGLISCH? RIGATONI UÌT TEIL TOMATO SOUS?»

ma semplicemente

«Buonasera ragazzi. Un attimo e controllo se ho tavoli liberi.»

E niente, faccio un paio di turni a breve.
Insomma non so se l’avete capito, ma tutto ciò ha un vago, remoto riferimento a tutta la polemica sull'(infelice) uscita di Poletti tra conoscenze e calcetto.
E visto che è stato detto e ridetto già tutto, io volevo ovviamente dire la mia portando sul tavolo la mia esperienza personale.

Che poi magari mi salta tutto perché sono uno stronzo o perché proprio non è aria in «questo mondo brutto da cui spero mi porterai via, per poi accettare di sposarmi» [cit. tradotta e parafrasata].
O magari sono bravo, oppure ho culo, e mi confermano tutto, costringendomi così a dover spiegare più di una cosa all’INPS, l’anno prossimo.
Se poi allarghiamo il mio discorso personale agli anni precedenti agli ultimi due, ricordo un solo lavoro per cui feci un colloquio tramite le vie classiche. Mi presero nonostante il mio CV fosse ancora scarno (parliamo di dieci anni fa e, tolta un’esperienza sera a Lecce, era tutto un misto di «banconista nel negozio di famiglia» e «magazziniere»), ma col senno di poi capisco pure che a farlo fu inizialmente un’agenzia interinale, che altro non aspetta che carne fresca su cui lucrare attraverso corsi di sicurezza 626 e aggiornamenti sull’uso del «computatore elettronico domestico».

(che poi, ripensandoci ora, andai io ai colloqui al posto del cugino di un mio amico, che dovette rinunciare per motivi personali e segnalò la mia candidatura al posto della sua. per dire.)

Poi, per carità, a confermarmi e ad assumermi a tempo indeterminato fu l’azienda, grazie alle maniche larghe in materia di contratti in quel periodo, ma anche alle pressioni di quello che all’epoca era il mio Supervisore, e che una volta promosso fece lo stesso con me, cedendomi il suo ruolo (ciao Anto, e grazie ancora).

Tutto il resto è una voce di corridoio tra amici, una segnalazione, un

«se non ho capito male, non stai lavorando in questo periodo, vero?»

buttato in chat un pomeriggio, una cena tra ex compagni di classe, un fermarsi sotto palco dopo un concerto e mettere su la faccia da culo, un non mollare la presa cercando di non essere estenuanti.

Alla fine, è pure una chiacchiera sotto la doccia dopo una partita di calcetto.

Quindi confondere lo scambio di un indirizzo mail, lo stringere rapporti, il mantenerli, il farsi notare in modi alternativi all’invio di formalissimo CV e conquistarsi poi il posto mostrando quello di cui si è capaci (e di questi tempi potremmo farlo di continuo, con i mezzi che abbiamo) ecco, confondere questo e molto altro con la raccomandazione (che è quello a cui tutti ci hanno abituato senza però dirci che è un sistema che si può scardinare, o comunque evitare). Ecco, la raccomandazione non è solo quando il nipote del politico diventa presidente della società X, o se l’attrice Y fa più film di altre senza avere meriti né competenze.
La raccomandazione è pure quando saltate mesi di attesa per un esame medico perché conoscete il tecnico radiologo, quando fate lavorare vostro figlio alle Poste perché la moglie del direttore è cliente del vostro “New Nails Fantasy Love Paillettes”, quando un professore cattolico esercita un illegale diritto di veto su una studentessa di Comunione e Liberazione, scartando la ben più valida (ma dannatamente atea) persona di mia conoscenza (see what I did here?).

Il succo, per me, è che le parole (messe giù male eh, ripeto) di Poletti hanno dato fastidio a tutti quelli che di solito, con i trucchetti del «c’è uno che conosco, ci penso io» ci campano spesso e volentieri, non mettendosi mai in gioco davvero, non avendo proprio nessun tipo di esperienza di confronto nel mondo del lavoro e spesso nemmeno in quello del sociale, del quotidiano. Sono proprio quelli che a calcetto ci vanno per esultare come stronzi per un loro gol, e se capita magari menare pure le mani contro qualche avversario.

E realizzare che invece il mondo è andato avanti e che nel 2017 è proprio il confronto, la discussione in tutte le sue forme a poterti dare più risultati, ti manda in pappa il cervello e ti fa abbaiare stronzate tipo che così si arriva a far lavorare un chirurgo che non capisce niente di chirurgia.

Su dai, a cuccia adesso.

Fate i bravi.

Mi raccomando.

La Dieta Denigrante

dieta

– Benvenuti da Dove Puoi, dove puoi mangiare il tuo panino scegliendo dal tipo di pane, fino al tovagliolo con cui lo serviamo. Chiedi, e ti sarà dato da mangiare!

– Salve, buongiorno. Bello il nome del posto! Certo, l’acronimo non è dei migliori, di questi tempi, ma

– DP? E perché mai?

– Niente. Cose mie. Senta

– Mi dica pure!

– Avete panini senza

Lattosio? Ma certo. Abbiamo questo pane fatto esclusivamente con farina di grano duro, acqua e sale.

– Ah, ok. Che io sappia -ma non sono del mestiere eh- il pane normale si fa proprio così. Farina, sale e acqua. Magari pure il lievito, se si va di fretta, ecco. Ma nulla più.

– Esatto! Senza lievito! La parola inizia con la elle, la stessa del latte. Quindi lo escludiamo per evitare contaminazione.

– Mi scusi?

– Beh qui siamo molto attenti alla contaminazione, quindi dividiamo gli ingredienti per lettera chiudendoli in micro stanze depressurizzate, con climatizzazione controllata e filtro antiumidità realizzato dalla NASA, evitando così che vengano a contatto nel caso ci venga chiesto un panino senza un particolare ingrediente. Capisco che sembra strano, ma abbiamo appositamente seguito un corso a riguardo, tenuto di un monaco tibetano che ha una casa sulle Ande ma con sede a Zurigo.

– Mi fa, come dire, molto piacere vedere questo impegno. Ma non è il lattosio che vorrei evitare, bensì

– Le uova? Beh ma non c’è problema! Abbiamo un pane che, se lo lasci dire, è proprio speciale! Fatto senza uova!

– Ma

– Però c’è il latte, magari le da fastidio!

– No guardi, io volevo sapere se avete del pane senza

– Aspetti. Ho capito. Lei vuole un pane fatto senza Cardamomo. Lo dovevo capire dalla sua faccia, dalla sua postura, che non è un amante del Cardamomo. Ho seguito un corso tenuto da un nano sordo su un jet privato costantemente in volo, che ci ha spiegato come capire i gusti alimentari delle persone dalle espressioni del viso e da come si muovono.

– Come «Lie to Me», ma col cibo?
– «Lài tu mì»? Non conosco.

– La cosa mi sorprende ben poco. Comunque. Io vorrei capire se avete un panino, un qualunque panino, ma che sia

– Ah beh ma se il pane allora non è un problema, le assicuro, dentro può NON metterci quello che vuole!

– No, veramente, io volevo mangiare sì un panino, ma che sia totalmente senza

– Carne? Ma scherziamo! Abbiamo panini per tutti i tipi di vegetariani e vegani. Panini con la cicoria raccolta da mia nonna la Domenica mattina presto, panini imbottiti di erba di prato pubblico ma anche privato, che costa dieci euro di più. Ma non è finita qui! Abbiamo panini senza pane ma con zucchine crude, panini con pane alle zucchine cotto imbottito di pane crudo, panini alle melanzane biologiche dei Monti Tiburtini e, specialità delle specialità, panino 50 Special dei Colli Bolognesi.

– E, scusi, cosa ci sarebbe nel 50 Spec

– Insalata Cesare e Crema Nini! AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!

-No guardi, lasciamo perd

– Ma scherzavo eh! L’insalata Cesare ha le uova dentro.

– Va beh, senta, io

– Ma aspetti! Non è finita qui, per chi non mangia carne come conseguenza di una sua libera scelta che però poi azzera il possibile mercato di quelli che hanno reali intolleranze alimentari ma ai quali viene data pochissima attenzione nonostante siano disposti a spendere per qualcosa che non hanno! Abbiamo un panino verde, con dentro ogni tipo di verdura biologica, servita su un vassoio di alghe fritte e tovaglioli di Setan, un nuovo tessuto costosissimo fatto di seitan preparato da enormi donne peruviane che hanno però mani piccole e delicate allenate appositamente per questo. Difficile rfiutare eh?

– Senta, io vorrei solo un panino senza glutine.

– Ah. Beh. Ecco. Questo non è possibile. Sa, la contaminazione. Poi comunque non è proprio facile facile, trovare le materie prime. Sa, farina di riso. Maizena. Lievito senza glutine. Poi dipende da che grado di celiachia ha, quanto glutine può assumere prima di sentirsi male. Ci diventa tutto troppo complicato, ecco.

– Ma, mi scusi eh, e tutte le camere senza pressione, la NASA, i Monti Tiburtini?

– Beh ma questi sono i nostri fornitori. È il mercato. Dove c’è domanda, c’è offerta.

– A me viene solo un’unica, grande domanda. Ma voi che aprite ‘sti posti ci fate, o ci siete?

– Ci facciamo.

– Almeno lei è onesto.

– E trasparente!

– Scusi?

– Niente. Cose mie.

Meglio I Matti Che I Testimoni Di Geova

matti

Aspetto un bus da così tanto tempo che non mi ricordo più che anno è.
Fa freddo e poi fa caldo, il sole se ne sta nascosto tra nuvole grigie come materia cerebrale ma quando spunta picchia come un ictus.
Sono carico di cibo senza glutine, frutto dell’ultima razzia legalizzata da Celiachiamo a Magliana. Una tracolla e un trolley pieni fino a scoppiare, come i miei polmoni ogni dieci passi, appesantito come un mulo da soma.
Dopo un saluto veloce a mio zio, a casa e pieno di barattoli di robe buonissime fatte in casa da mamma, che contribuiranno nell’immediato ad appesantire la borsa, e nel futuro prossimo ad ostruire le mie arterie.
Non mi va nemmeno di fumare, ma una signora mi chiede una sigaretta e devo prendere il tabacco. Le chiedo se vuole che gliela faccia io, e chiedendomi scusa mi dice che «sì, magari, che dopo tutto quel tempo in ospedale non riesco più a farle».

In quel momento vari sensi si attivano nella mia testa: in primis quel che definirei «il senso di Spaziani per i matti», una sorta di magnetismo caratteriale che porta il primo scocciato nel raggio di 100 metri a venire da me. Diretto, senza esitazioni. A questo si accoda il «senso di repulsione» che tutti, anche i Santi, hanno nel momento in cui capiamo che sta per partire il pilotto («pezza» a Bologna, «ciacarone» a Ravenna*). Parte poi il «senso di pietà», che fa dei santi i Santi, e si finisce con «il Sesto Senso». Proprio il film. Perché ieri ho visto l’anteprima di Split, il nuovo di Shyamalan, che oltre a essere molto bello fa anche vedere come approcciare chi ha più di un disturbo, e cioè assecondarli sempre.
Chiude il tutto la mia continua, inarrestabile voglia di sapere i cazzi di tutti.

La prima cosa che mi colpisce di questa signora, che inizio a guardare mentre le faccio la sigaretta, sono le occhiaie.
Lunghissime, morbidissime occhiaie che dall’occhio scendono piano per almeno tre centimetri, formando due piccole onde rosa scuro che finisco per infrangersi a metà guancia, in un dosso che ora sembra schiuma che si infrange sulla sabbia, ora tutti i sogni di una vita persi in fondo al mare.
Nonostante le occhiaie, è magrissima. Mentre parla vedo che le mancano i denti da poco dopo l’incisivo fino in fondo, sia sotto che sopra. Gli altri sono grandi e dritti, e sembrerebbero sanissimi se non fosse per una costante patina gialla a ricoprirli.
Il naso è lungo e con la punta tonda, e su un lato ha un piccolo punto nero che sembra quasi un tatuaggio, di quelli fatti in carcere con un ago bollente e l’inchiostro della penna.
I polsi ossuti sembrano cedere sotto bracciali tanto pesanti quanto economici, un ammasso di finto argento annerito e grosse pietre azzurre. La mano trema quando porta la sigaretta alle labbra secche, e va a calmarsi sull’altra quando torna giù. La borsa, piena di finti loghi di marche famose, è logora, piena di fazzoletti e portamonete in cuoio, tintinna di chiavi mentre cerca l’accendino che ogni volta è diverso, come la luce che ha negli occhi azzurri mentre mi racconta cose assurde.

Dice che ha 51 anni, che da poco è in pensione e che il suo lavoro è sempre stato nei Servizi Segreti. Che non vieni assunta, nè sei tu a candidarti. Lei, come altri, è stata rapita da piccola e indottrinata. Le sono stati portati via amanti, uccisi davanti ai suoi occhi per non interferire col suo lavoro. È stata rapita di nuovo, sedata, picchiata. Quando le dico che vivo a Casilina mi dice che «un sacco di anni fa.. madonna, trent’anni fa! Trent’anni fa mi ci sono nascosta lì vicino.. oddio, mica mi ricordo dove.. va beh. Stavo con questo ragazzo tedesco, e io stavo scappando un’altra volta dalla Polizia. Stavamo in una specie di magazzino, e lui aveva una signora attrezzatura, tutto quello che serviva per ascoltare la radio dei poliziotti. Erano giorni che andavamo in giro così, evitandoli, solo che poi ci hanno trovato. A me mi hanno portato via e lui.. non lo so, lui, che fine ha fatto».

Mi dice pure che ha collaborato con Obama.
«Un signore!», mi risponde, con gli occhi illuminati. «Il primo afroamericano presidente dell’America! Ma ti rendi conto? Ed è gentile, educato, con un grandissimo non.. non.. nonchalnce», dice, e anche se voleva dire «charme» io annuisco e sorrido.

Mi accorgo mentre arriva il suo bus e mentre dovrò ancora attendere il mio, che ho ascoltato davvero. Che le ho sorriso sinceramente. Che alla fine lo faccio sempre, in realtà, ma questa volta ero con lei mentre camminava tra due file di militari sull’attenti, pronta a ricevere un’onoreficenza da un generico «capo di Stato». Le tenevo la mano mentre era sola, in cella, pensando che magari era un letto di ospedale, ma che sola lo era davvero. L’ho abbracciata quando finalmente è tornata a casa, dopo mesi di prigionia in chissà quel grotta di chissà quale deserto.

Mentre le porte si richiudono, si gira e mi grida un “Al Pigneto! Con il tedesco stavo al Pigneto” e lo dice sorridendo, come se quel momento lo stesse vivendo di nuova, in fuga da tutti, forse soprattutto da se stessa.

Ma alla fine è cento volte meglio dare retta a quelli che crediamo matti, invece di perdere tempo dietro a quelli che pensiamo sani. L’esperienza di chi viaggia, anche solo con la mente. vale mille volte più di chi rimane fermo, da solo, in una stanza.
*grazie a Lucio Leoni e al suo continuo curiosare dentro i più oscuri anfratti della lingua italiana, tra un concerto e l’altro