Trecentosessantasei Giorni Fa

“Era un anno fa spaccato.
Sedici Agosto Duemiladiciannove.
Che lo so che le date andrebbero scritte a numero, ma mi pare che qui poche cose vanno come dovrebbero quindi chi sono io per non rompere qualche regola?
Ti dicevo, trecentosessantasei giorni fa (che quest’anno non fosse abbastanza demmerda ha pure un giorno in più), avevo preso un treno la mattina. Ero al paese della mia ex ragazza, e dovevo tornare qui a Lisbona per ricominciare a lavorare.
Le premesse per quello che è successo poi c’erano tutte eh, e suoneranno male ma quello era.
Non andava bene da un po’ di tempo, e i giorni della scorsa estate erano passati lenti e male. I tentativi dei mesi precedenti erano stati un buco nell’acqua, di quelli che fanno mulinello e cominciano a tirarsi dentro tutto quello che incontrano: giorni, notti, parole, approcci.
Son passati trecentosessantasei giorni, da quel Sedici Agosto Duemiladiciannove, e io di colpe me ne son fatte almeno il doppio. Colpe espiate, o per lo meno esplicitate.
Ché lo sai, mi conosci, sono duro di capoccia quando mi ci metto. Sto zitto, ho lo sguardo torvo, aspetto la prima mossa sbagliata del prossimo per incazzarmi ancora di più e sto ancora più zitto e così via. E quel periodo ero davvero antipatico.
Non cerco giustificazioni, non ne ho, ma sentirmi incompreso (perché non ci si riesce a spiegare, perché la foga di voler risolvere preso brucia ogni soluzione) e sentirmelo appiccicare addosso per tanto tempo mi ha fatto pensare che non fossi più in grado di spiegarmi per davvero. Solo che poi, quando tutto il resto del mondo ti capisce, qualche dubbio che non sia solo tu il problema ti viene.
Insomma, quei giorni passarono tra finte risate a cena con altri, e cupi silenzi quando si rimaneva da soli. Faceva caldissimo, quei giorni, e alla sofferenza di non riuscire ad avere un contatto con lei si univa un affaticamento fisico incredibile. Ricordo interi pomeriggi passati a provare a dormire tra finestre aperte e ventilatori. I passagi in cucina per prendere l’acqua, ignorandosi a vicenda quando ci si incrociava. Se potessi tornare indietro e prenderci entrambi a schiaffi giuro lo farei, perché in quei giorni stavamo decidendo di non fare nulla per provare a recuperarci e non lo volevamo capire. Ci andava bene, ecco quale è il punto. Ci andava bene andasse così, sapevamo di andare contro un muro su una macchina senza freni lanciata a folle velocità guidata da me, che nemmeno ho la patente. Solo che questa consapevolezza l’assumi un sacco di tempo dopo, e lì per lì ti pare tutto giusto quello che fai e tutto sbagliato quello che fanno gli altri. E un sacco di tempo dopo ancora, tipo settimane o mesi, non solo devi riuscire a guardarti dentro abbastanza da saper chiedere scusa, ma anche prepararti al fatto che probabilmente dall’altra parte non arriverà nulla. Sempre per il discorso che non ti fai capire, e tu non capisci perché giustamente come fai a far capire a chi non si fa capire, come farsi capire? Soprattutto se pure tu non hai il Nobel in spiegazionismo.

Trecentosessantasei e un giorno fa si banchettava per Ferragosto. Tavola immensa, finalmente una giornata di sorrisi veri e luminosi discorsi. Vino, cibo, vino, piscina, vino, caffè, vino, amaro, piscina, amaro. A fine giornata mi sentivo come si deve essere sentito James Gandolfini dopo cena in quell’hotel a Roma.
La mattina dopo, trecentosessantasei giorni fa, il Sedici Agosto Duemiladiciannove, mi sveglio affannato e stanco, e ovviamente è colpa della sequenza vino, cibo, vino, piscina, vino, caffè, vino, amaro, piscina, amaro che, dovrebbero saperlo tutti e  Gandolfini per primo, finisce con morte. Devo prendere il treno per andare a Roma e poi prendere l’aereo di ritorno. Mi accompagna alla stazione, e insieme a noi viene un’ombra enorme che oscura un sacco tutto quanto. Io fumo e non dovrei: non riesco nemmeno ad aspirare decentemente ma nonostante tutto fumo. Lei guida in silenzio, la mano destra che si nasconde tra le gambe quando non deve cambiare le marce. Entrambi sappiamo che il non aver affrontato nulla, in quei giorni, ci porterà a dover fare doppia fatica una volta che lei sarà rientrata a Lisbona. Sappiamo tutto benissimo ma facciamo gli ignoranti. Arrivati alla stazione aspettiamo il treno insieme, come sempre, come se nulla fosse. Di nuovo ci sono il distanziamento sociale prima del Corona, e pochissimi tentativi di approccio. Il treno arriva più stanco di noi, stancamente apre le porte e il caldo dentro è la prima cosa che mi disturba, il primo indizio che non colgo: sembra di camminare dentro la marmellata, sudando un sacco provandoci. Ci salutiamo mestamente, e mestamente mi siedo a uno dei primi posti che trovo. Non mi va di girare a vuoto per vedere il vuoto che c’è intorno. Nello scompartimento ci siamo io, un ragazzo con gli auricolari che dorme e una signora intenta a fare *bling bling* col giochetto sul telefono.
La seconda cosa che mi disturba è il fatto che non ci sia segnale di aria condizionata: metto la mano sotto il bocchettone come farei per vedere se una persona respira ancora, e spero che in quel caso il risultato sia ben diverso dal momento che aria, da lì, non esce. Mi tolgo zaino e borsa, li metto sulla rastrelliera e mi siedo. L’ultimo indizio, che a questo punto trasforma il tutto in una prova, è il fatto che i finestrini siano chiusi ermeticamente.

Vado in tilt.

Il mio cervello non riceve più segnali utili tipo “Jacopo se non qui, magari da un’altra parte c’è aria, o un finestrino aperto” no, lui cerca la soluzione immediata, sente che qualcosa non va e pensa alla sopravvivenza di tutto il sistema corpo. Quindi riprendo zaino e borsa, che in quel momento pesano come tutti i sensi di colpa della mia vita, e imbocco il corridoio direzione capotreno. I vagoni sono vuoti, lunghissimi e caldi come la febbre, non finiscono mai, mi sembra il treno più lungo del mondo, i battiti impazziti del mio cuore mi stanno trapanando le orecchie e vorrei solo che alla fine ci sia un capotreno fatto di ghiaccio, ossigeno e con la voce di Elodie che mi abbraccia e mi sussurra che andrà tutto bene. La capotreno invece, che trovo dopo quattordici chilometri, non ha voce di Elodie né sembianze rinfrescanti, e quando mi guarda per rispondermi che al massimo può provare ad alzarla un po’ fa una faccia che non mi piace per niente.

“Si sente bene?”

Non mi sembrasse di stare per essere colpito da un acuto attacco di morte, mi offenderei per quel lei.
Invece non me ne frega un cazzo, potrebbe pure darmi del merda ma io voglio solo l’aria e poi giuro poi sto bene davvero. Anche se sento che mi serve altro, ma non so cosa.
Lei riprende il suo giro dopo che io declino la sua proposta di farmi scendere alla prossima, chiamando intanto un’ambulanza.
Comunque scendo.
Sono passate solo quattro fermate ma mi sembrano due giorni di viaggio ormai.
La chiamo.

“Sto male.”

Tutto quello che c’era stato fino a quella mattina, quell’ombra nera sopra di noi, sparisce.
Mi tiene compagnia mentre non so cosa fare.
Sono fermo alla banchina nel punto dove sono sceso e non so che fare.
Sudo, ho il cuore a mille, il respiro più corto del mio pene e

non
so
che
fare.

Grazie a dio lei è lucida e mi consiglia di prendere il primo treno per tornare indietro, e saremmo andati insieme al pronto soccorso.
Bisbiglio qualcosa, va bene ecco il treno per tornare, sono salito, mi tieni compagnia?

Salgo e mi fermo subito tra due vagoni, davanti alle porte, dove un mamma nera enorme e bellissima tiene in braccio una bimba, con l’altra mano tiene il passeggino e con gli occhi severi guarda il più grande, che mi fissa. Quei due occhietti teneri aggiungono ansia all’ansia all’ansia all’ansia e adesso non riesco a pensare ad altro che alla morte, alla morte dietro l’angolo, dietro il corrimano curvo che porta al secondo piano del vagone. La morte che mi fa rodere il culo, mi prenda così, che non sono felice, che non so come risolvere delle cose che però voglio provare a.
Solo che, sarà perché sto su un treno in Italia, la morte non arriva quando te l’aspetti.

Solo ansia.

Sudo tantissimo.
Lei mi consiglia di prendere qualcosa con dello zucchero, che chiedo alla mamma davanti a me. Mi guarda come se fossi un tossico e solo ora mentre lo scrivo mi rendo conto che in quel paese di merda che è l’Italia, a lei quello sguardo lo rivolgeranno cento volte al giorno.
Lascia il passeggino e fruga nella borsa, mentre con la coda nell’occhio tiene sotto controllo i tre figli e me, che sudo tantissimo e sto letteralmente facendo cadere a terra zaino e borsa. Mi dà una mou, la ringrazio, mi metto in un angolo e la mangio.
Mi fa schifo, mi viene la nausea, la sputo senza farmi vedere ma non ci riesco, perché me la sputo malamente sulla mano e la mamma se ne accorge, aggiungendo orrore al suo sguardo.
Sudo tantissimo.
Nel frattempo lei è ancora al telefono con me, telefono che mi scivola da mani e orecchie perché sudo tantissimo.

“Non ce la faccio, scendo alla prossima, se vuoi vieni qui.”

Scendo e non ci penso due volte, anche perché è l’unico pensiero che ho: vado sparato verso la guardiola della polizia. Balbetto qualcosa a lei e attacco.
Appena entro, dimentico dell’erba legale e non nella tasca del mio zaino, uno di loro mi guarda e capisce.
“Siediti, chiamiamo un’ambulanza.”

Da lì solo terrore e disperazione: la faccia dell’infermiera appena scesa dall’ambulanza, la sua faccia ancora più contrita quando vede i battiti di cui non mi dice il numero, ma solo “dai andiamo a farci un giro va”.
E da lì l’orrore mentre capisco che mi vuole mettere la cannula della flebo (ancora ricordo il punto esatto di dov’era infilata nel mio braccio), l’essere portato dentro il Pronto Soccorso, la caposala severa e gentile che mi fa l’elettrocardiogramma, la dottoressa severa e stronza che dopo un paio d’ore di attesa, senza farmi entrare nello studio, annuncia davanti a tutti che quell’ECG non le piace proprio, e quindi sta me dimettermi o rimanere per tre prelievi, uno ogni sei ore. Anche qui non ci penso su troppo, e le dico che rimango.

Trecentosessantasei giorni fa, il Sedici Agosto Duemiladiciannove, ho avuto il mio primo attacco di panico e ho passato diciassette ore al Pronto Soccorso, facendo tutti e tre i prelievi, conoscendo fin troppa gente col mio stesso cognome (persino l’ospedale, aveva il mio stesso cognome), facendo amicizia con i pazienti e andando ogni tanto a rubare un po’ di pietà da lei, che delle diciassette ore se ne fece parecchie aspettandomi, preoccupata almeno quanto me.
Non ho niente, sto bene e ho imparato a gestire quei momenti, per fortuna rari, dove capisco che c’è qualcosa che non va.
Ci ho ragionato tanti dei trecentosessantasei giorni che son passati e fin da subito era chiaro che fosse tutto nella mia testa. Che la situazione non poteva essere (non)gestita in quel modo. Che bisognava tirare via un respiro profondo e un sacco di cose dalle spalle.

Oggi, Sedici Agosto Duemilaventi, dopo trecentosessantasei giorni da quel giorno in cui morire era l’opzione migliore, in questi dodici mesi in cui son successe mille e mille altre cose son qui, vivo, comunque vegeto, con l’ansietta che fa parte della mia quotidianità e le spalle un poco più leggere.
Le colpe sono state esposte, le conseguenze son state naturali come artificiose erano le cause.
Io mi ascolto un poco di più, anche se ancora vado in palla e mi sembra di non capirci nulla.
Ho vissuto giorni peggiori, tipo quello di trecentosessantasei giorni fa.
Dovranno passare almeno altri trecentosessantasei giorni, e poi trecentosessantasei ancora prima di fare davvero i conti con quello che è successo nel frattempo. Ma il tempo è l’unica cosa che abbiamo, e farlo passare in qualche modo la miglior cura per capire ccome cazzo ci siamo ritrovati così.

Al momento so che potevamo fare di meglio, questo è certo, ma almeno ci abbiamo provato.”

“Sulla mia Pelle”

Mi ero ripromesso solo di consigliarlo, con poche parole, poche come quelle nel film.
Ma non ce l’ho fatta.

“Sulla mia Pelle”, e in molti lo hanno già detto, era un film necessario.
Necessario per chi come me ancora non se ne fa una ragione, di quello che è successo, e che fin dal giorno zero sa benissimo cos’è successo e ha seguito tutto a distanza, ma senza distacco alcuno, montando una rabbia e un’impotenza difficili da descrivere.
Necessario per chi ha sempre pensate e detto che Stefano fosse solo un tossico, perché si sorprenderebbe e allo stesso tempo si sentirebbe una merda nel capire che ha sempre avuto ragione. Stefano era stato un tossico e come un tossico è stato trattato, se sei in un paese retrogrado, incivile e senza rispetto alcuno per la vita umana: Stefano aveva, al netto di tutto, dei problemi, e proprio per questo andava aiutato, supportato e accompagnato verso un iter democratico due volte di più.
Necessario per chi pensava che in Italia un film del genere non potesse farsi, e invece si ritrova davanti una gemma rara, un’ora e quaranta con più silenzi che frasi, e quelle poche sono sempre fredde, spigolose, da quelle che Stefano sussurra a quelle sibilate tra i denti di cani rabbiosi e ciechi di fronte alla sofferenza di un ragazzo.

Il filma squarcia il velo della cronaca e irrompe nell’intimità di una famiglia stanca delle cazzate del figlio, di una storia che ognuno di noi ha sentito se non vissuto nella propria cerchia: una madre che non si arrende e un padre stanco, due genitori che si trovano al centro di una serie di eventi dei quali in quel momento non sono nemmeno a conoscenza, e che gli verranno schiaffati in faccia con un foglio bollato dopo sette giorni di attese e rifiuti, ma soprattutto dopo sette giorni senza avere una singola notizia sulla situazione del figlio. Una sorella incazzata, una sorella il cui amore per il fratello esplode quando si rende conto che “ti voglio bene” non potrà più dirglielo. Una famiglia che, zavorrata da una burocrazia avvelenata dall’illegalità di quei giorni, a un certo punto ha paura che lui pensi che alla fine sia stato abbandonato anche da loro, e credo sia una delle sensazioni, da entrambe le parti, più brutte del mondo.
Ma soprattutto cala una sorta di ombra su Stefano e sul suo modo di ribellarsi che ti fa rabbia, che dentro ti fa gridare “dai Stè ti prego fatti aiutare” come se non sapessi già che quelle grida di aiuto, spesso celate dietro i suoi rifiuti e la sua strafottenza, rimarranno inascoltate per tutto il tempo.

Dall’altra parte un’istituzione che serve e protegge se stessa e il suo continuo infrangere anche la più semplice delle procedure: agenti in borghese fuori servizio che “danno una mano”, carabinieri più piccoli di Stefano che si fanno grandi dentro la divisa, la polizia penitenziaria che si preoccupa delle sue condizioni solo per mettere in chiaro che lui da loro, in quello Stato, ci è arrivato così. Uomini di servizio che si lavano le mani da un sangue che li sporca proprio nel momento in cui si assicurano che loro non c’entrano nulla.

Personalmente, due sono le cose che più mi hanno colpito: la prima è quell’immagine di Stefano rannicchiato su una tavola, mentre “l’assistente” gli sta andando a gridare che è arrivata l’ambulanza. Lui è lì, senza coperta, le mani spinte nelle tasche della giacca nera, una posizione scomoda per chiunque ma che a lui dà sollievo, un sollievo che però sparisce e lascia il posto a un dolore cieco, che mentre lo vedi ti pare di sentirlo, come muovere articolazioni scheggiate, un Cristo che viene preso di nuovo, caricato della sua croce, e portato verso la prossima Stazione.
La seconda cosa è la registrazione originale sui titoli di coda, quella dove Stefano viene interrogato dalla giudice. L’avevo già sentita, negli anni, ma ascoltarla dopo il film, a occhi chiusi, se si riesce a distaccarsi dalla voce annoiata della donna, se per un attimo riusciamo a non sentire lui che le parole le tira fuori soffrendo, a un certo punto si sente il respiro di Stefano. Fateci caso. Un respiro affannato, un respiro anomalo, un trattenerlo per non sentire dolore e un rilasciarlo veloce per provarne il meno possibile.
Un respiro che non c’è più.

“Sulla mia Pelle” è un film necessario e che secondo me, almeno per la prima visione, è necessario vedere da soli. Perché credo sia l’unico modo per sentirsi anche solo lontanamente, minimamente come lui.
Soli.

Lisbona – Parte Settima – Cosa mi manca?

Io continuo a pensarci.
Ci penso tutti i giorni.
Sono passati quasi cinque mesi e ci rimugino spesso.
Faccio liste mentali e depenno ogni riga neuronalmente, una dopo l’altra.
Mi guardo in giro per strada, in ufficio, ascolto la scuola di musica sotto casa mentre la sera provano jazz e a tutto ci sovrappongo la mia vita a Roma.
Cosa mi manca, di Roma?
Dopo 32 anni e 364 giorni passati nella Capitale escludendo i dieci mesi a Lecce, io ancora non lo so, cosa mi manca.
Direi niente, ma sarei un bugiardo come se dicessi che mi manca tutto.
Scrivo quest’ultima cosa e mi viene in mente Rebibbia e il murales di Zerocalcare

“Qui ci manca tutto. Non ci serve niente.”

e lo faccio mio.

Ma ci ripenso subito perché forse non mi manca niente ma mi serve tutto.
E ci ripenso di nuovo perché, appunto, manco lo so che mi manca.
E non parlo di persone, ché Lei ad esempio mi manca da incazzarmi con la geografia e le sue distanze.
Mi manca il mio ex collega di lavoro e il bene che ci siamo voluti in nemmeno un anno.
Mi mancano i miei amici, i pochi rimasti a Roma, e le poche volte che riuscivamo a vederci.
Mi manca la mia amica bionda dell’italico nordest, e il recuperare gli spritz persi in un mese in un’ora.
Mi mancano le miniature, tutte e tre.
Mi mancano i miei zii e le loro cene pantagrueliche.
Mi mancano Matre e Fratello pure se, sempre per colpa delle distanze, vedevo già poco.

Ma, dicevo, non parlo di persone, perché alcune ti mancano pure se ce le hai a venti centimetri.

Parlo di una quotidianità che era diventata un inferno, di un’umanità inumana, di facce tristi quando non sono arrabbiate, di scontrini non emessi e controllori inesistenti.
Penso a una città che negli ultimi cinque anni mi ha pietrificato il cuore e sciolto il fegato.

Quindi, che potrebbe mai mancarmi davvero?

Mi ci devo impegnare un sacco, son sincero.
In questi mesi ci ho dovuto ragionare sopra. Mai una volta che così, d’istinto, ho provato un tuffo al cuore, mai mi si è annebbiata la vista, mai ho vacillato al pensiero di quanto mi mancasse qualcosa.
Che poi, sò pure celiaco, manco a dire che mi manca la pasta.

Allora, che cazzo mi manca?

Ecco, a proposito di, mi manca un pezzo di pizza e una Mikkeller fresca da Celiachiamo.
Il gelato da Andreotti prima di attaccare alle sei e mezza per il turno Cena.
Il tramonto da Ponte Garibaldi con lo spicchio di Cupolone in fondo.
Entrare d’inverno alla Feltrinelli di Largo Argentina senza comprare nulla, per scaldarsi e sbavare su quintali di libri che non posso permettermi e che tanto non leggerei.
Andare a vedere le finestre di casa di Nonna a San Saba.
I concerti al Monk, quelli dentro però, che si sente meglio e che deve esserci proprio casino per farmi sentire a disagio.
Leggere le mie cose acide al Blackmarket entrando a gamba tesa sui live delle miniature. E tenere la nipotina mia mentre loro suonano.
Il caffè di Sabatino la mattina prima di andare a lavoro, e le patate al forno del kebabbaro sotto l’ufficio.
I murales del Quadraro.
L’atmosfera anni ’70 che ti arrivava come un pugno sui fianchi entrando al bar di Mano Bianca, quando lavoravo a Cipro.
Bob Marley suonato dal ragazzo africano sotto la metro a Cornelia, che quando passavo senza lasciargli nulla comunque mi sorrideva.

Ecco.
Allora qualcosa mi manca.
Però ci ho dovuto pensare, e anche parecchio.
Nessun tuffo al cuore, manco di quelli che la giuria alza tutti dieci perché non è arrivato manco uno schizzetto d’acqua.
Nessun rimpianto, nessun rimorso, diceva Max “personificazione della nostalgia” Pezzali.

Proprio ieri parlavo con Matre che da brava Matre qual’è tutta orgogliosa dice alla gente che sto bene.
Che lo sente, che sto bene.
E chi mi conosce (mai come Matre, of course) lo sa che è vero.
Che nonostante comunque i soldi siano pochi, nonostante realizzo sempre poco che vivo di nuovo da solo dopo tre anni di convivenza, nonostante non sia facile perché comunque alla fine un cazzo di niente nella vita lo è, io non sto a Roma.
Di base questo, e il fatto che il lavoro mi regala grosse soddisfazioni, mi fanno stare bene.

Immaginate quando Lei sarà qui.

Lisbona – Parte Terza – Il Camion della Monnezza

Da casa si vedono un sacco di tetti, da un lato.
Dall’altro solo un paio, perché poi tutto si apre e c’è un campanile e per quasi metà, proprio in fondo e in alto, si vede il Castelo de São Jorge, che da lì dicono ci sia una vista incredibile della città, giardini immensi, interni pazzeschi solo che costa otto euro e cinquanta entrarci e quindi con certezza posso solo dire che almeno le mura esterne son molto belle.
E tra i pochi tetti di questo lato, in mezzo, ci sono un sacco di alberi da frutto pieni di colore.

Su questo lato di casa, questo del campanile e del Castello e delle arance e dei limoni coloratissimi, c’è la veranda.
La mattina mi ci porto la tazza di caffè, mi siedo al tavolo in fondo e mi guardo il cortile dell’unico palazzo che c’è davanti.
C’è il tipo che esce col suo bulldog tutto nero che se avesse una coda vera sarebbe una frusta, per quanto è contento della vita ma soprattutto di avere un padrone così buono da meritarsi sguardi di un amore che vanno oltre l’umana comprensione.
C’è la signora anziana tutta curva, un manico di ombrello vivente che passetto dopo passetto si trascina dentro il portone, che sembra spingere come fosse l’entrata di una delle fortezze da Signore degli Anelli.
C’è lo sciame d’api del tipo sotto la veranda, con un balcone per tre quarti è foresta amazzonica e per un quarto alveare, con tanto di arnia e nuvola scura che entra e esce, altro piccolo condominio che non dorme mai.
E poi c’è il gatto, che praticamente ogni volta lo sento miagolare sperduto sul tetto di fronte, lo vedo fare avanti e indietro, ogni mattina sempre più spaesato, e mi chiedo se per caso non si svegli ogni giorno in una delle sue tante vite, dimentico di cosa sia successo la notte prima.

E questo è un lato.

In mezzo c’è il fatto che io possa scrivere da casa, nel senso fisico e letterale del termine.
Perché almeno per un po’ una casa da cui scrivere, e da cui guardare cosa scrivere, ce l’ho.
E questo ha significato dire addio allostello, e a tutta una serie di situazioni che in realtà mi stavano già facendo sentire a casa.
Una casa piena di gente, incasinata, rumorosa quasi tutto il giorno, ma comunque il primo posto che mi ha accolto e fatto sistemare abbastanza da cominciare a capirci qualcosa.
Poi però devi rifarti quei due bagagli che sono diventati una casa nella casa, coi tuoi vestiti e i tuoi due libri, i quaderni, quello che si è aggiunto in due mesi di corsi di formazione e inizi di documenti per la tua nuova vita manco fossi sotto protezione testimoni.

E dentro questi due mesi e mezzo, dentro giornate tutte diverse, variazioni sul tema “ommioddio cosa sta succedendo”, ci sta una settimana in cui arriva Lei e tutto si sospende, si ferma, si cristallizza.
Momenti che avevamo lasciato in sospeso si materializzano qui: svegliarsi insieme la mattina, Lei che prepara la cena mentre carico una puntata de “La Casa di Carta” su ‘sto tablet che è diventato ormai un confessionale, io che scendo nella pausa pranzo e me la ritrovo lì, con la pasta con le zucchine e tutta la normalità del sedersi su una panchina, uno accanto all’altra, col sole che finalmente si è deciso a farle vedere la città per quant’è davvero bella e colorata.
Una settimana spezzettata da turni di lavoro e stanchezza da emozioni, di quella che scarichi l’adrenalina di giornate con le mani strette per strada e i baci rubati a metà dell’ennesima salita, che almeno per una volta non la sola colpevole del fiatone e del cuore ammille.
Una settimana di me a mio agio con la nuova vita che mi si presenta davanti e nella quale mi sono appena affacciato, che porto Lei nei posti che ho già nel cuore e ne scopro altri che ci si vanno a sistemare subito. Che di spazio ce n’è sempre.
Una settimana che sembra un mese ma nella realtà dei fatti non è che un sette giorni da montagne russe, ché il tempo di capirci che già dobbiamo separarci un’altra volta ancora, per chissà ancora quanto tempo.

E mentre Lei prende la sua valigia e viene portata via piano dalle scale mobili verso il gate, io prendo le mie e mi sposto di nuovo, per salire scale immobili e faticose verso la porta.
Di casa.

E a casa c’è il lato dei tetti, quell’altro, opposto alla quiete della veranda, il lato dei rumori di città.
Un sacco di sirene col suono che sembra stiano tenendo premuto triangolo a GTA, i neri che si strillano qualcosa dagli angoli delle stradine, le vecchiette che si parlano da marciapiede a finestra, il pianoforte suonato la mattina al primo piano. La chiamo la Torpigna Ripulita, ché piena di razze e profumi e puzze e lingue e cibi diversi, ma per terra e ai secchioni c’è molta meno merda.

E infatti ogni sera sento il rumore del camion della monnezza.
Tutte le sere.
Che sia Mercoledì o festivo, o un Mercoledì festivo, il camion della monnezza passa sempre.
Intorno a mezzanotte, se sono in camera, qualunque cosa io stia facendo, se sento il cigolio prima e il fracasso poi, guardo l’ora e posso star sicuro fino a un secondo prima di saperla davvero che o è mezzanotte meno un quarto, o non è più tardi di una mezz’ora dopo.
La parte semplice della mia mente, quella un po’ meno sveglia e un po’ più benaltrista, associa questo momento a quelli a Roma: il camion dell’AMA che non ha regolarità alcuna, che passa poco e male, bloccando strade, lasciandosi una scia di rifiuti e fetore che nemmeno a seguire il tour elettorale di Adinolfi.

La parte razionale, invece, il lato oscuro della mi testa mi ferma e mi fa ragionare che qui a Lisbona poche volte son stato in una macchina e quindi ancor meno, ma forse zero, mi è capitato di rimanere bloccato come sicuro succede ance qui. Mi dice che magari, che ne sai, pure qui mischiano tutto anche se fai la differenziata. E poi oh, tutto il mondo è paese e pure qui, a un sacco di chilometri daa Capitale der Monno ‘nfame, il rumore del camion della monnezza rompe i coglioni.

Solo che il risultato di questi due pensieri è comunque che vuoi le novità, vuoi il lavoro in cui ti fiondi a testa bassa perché ogni tanto (spesso) uno stronzo che ti dice bravo lo trovi, vuoi il distacco da una serie di input negativi diventati routine (sveglia-caffè-barba-bidet), vuoi che sei sicuro che Lei arriverà presto e sarà una nuova vita ancora, insomma alla fine il camion della monnezza diventa indispensabile come metro di attenzione e sopportazione.

Fino a che mi accorgerò che sta passando, e la cosa non mi disturberà, saprò che è un nuovo giorno che merita di essere affrontato proprio per quello che è e cioè mai vissuto, imprevedibile, anti-routine e fuori scala anche per un solo dettaglio.

Lisbona – Parte Prima

Sono due settimane che cammino con la schiena dritta.
Lei me lo dice sempre, che cammino gobbo. Che dovrei tirar fuori le spalle e fare l’uomo erectus.
Solo che in certi momenti girare per la mia città mi pesava troppo, che i pensieri facevano gruppo e mi schiacciavano il collo. E nonostante io mi guardi molto intorno, mentre cammino, a Roma ormai lo facevo dal basso verso l’alto.

Ora son due settimane, che cammino con la schiena dritta.
Prima di tutto perché mi sento un turista e come ogni turista che si rispetti, guardare ogni angolo di una nuova città è un dovere morale.
E poi perché in realtà mica son venuto qui per fare il turista. Son qui per provarci e provarci significa anche rischiare di fallire, e proprio per questo devi prendere e assimilare e vedere tutto quello che puoi.
Te lo devi godere.

E allora rubo con gli occhi, con le orecchie, ascolto questa lingua che sembra difficilissima e ne rimango affascinato. Obrigado, bom dia, aberto, fechado, tudo bem, non sapere dove vanno gli accenti, sbagliare, riprovare, sbagliare di nuovo, riderne assai.

Il Barrio Alto ti spezza il fiato sia perché per arrivarci, ovviamente, devi salire, ma anche perché ti giri ed è Berlino e poi ti ritrovi a San Lorenzo con gli spacciatori a ogni angolo ma meno rompicoglioni, giri la testa ed è Pigneto coi murales fichissimi e i murales che sfottono i murales. I localacci con la Capirinha a due euro si rincorrono con quelli puliti con la musica dal vivo, con le porte a vetri leggere per attirare la tua attenzione mentre cammini, che vedi i suoni e senti le persone. La birra a poco e i cocktail complicati, lo Ze Dos Bois che ha tre piani praticamente spogli se non fosse per le sedie tutte diverse, un grosso divano e un terrazzo che appena ti affacci pare Trastevere e senti il cuore che vola alto.

Se non fosse che piove da quasi una settimana, il sole a Lisbona è prepotente e colora tutto.
Che io non ci ho mai davvero fatto caso, a quanto i colori fanno bene alla testa, e per fortuna ‘sta città te lo ricorda, con i muri rosa e verdi e gialli e le maioliche che riflettono la luce che si apre e arriva dove quella diretta del sole proprio non potrebbe. I coperchi gialli dei cassonetti e il verde/rosso della bandiera sul parlamento che l’altra sera c’era il vento forte e dava certe schicchere che faceva rumore fino in strada, nonostante se ne stia lì in alto a prendersi tutta l’aria del mondo.

Eh.
Il vento.
Il vento qui è quella cosa che un po’ senti sempre, soprattutto quando il sole ha dominato la giornata e se ne va, lasciando spazio all’aria fredda dell’oceano. O almeno, mi piace pensare che sia così, ma non sono un meteorologo e quindi potrebbe pure essere uno che lascia sempre aperta una porta gigantesca, da qualche parte. Però il vento c’è e con la pioggia a pulviscolo (gnagnarella©) che non smette di scendere ti combina un macello, ti fracichi come se passassi sotto a quelle doccette da festival che ti bagnano a trecentosessanta°. Gli ombrelli si rigirano come pedalini in lavatrice, i binari dei tram diventano degli scivoli in miniatura e le discese si fanno nemiche, tra sanpietrini e pozze agli incroci.

Lisbona è quella città dove hanno deciso di mettere una sede di questa compagnia di telecomunicazioni che è stata abbastanza matta da assumermi, e dove l’aria che si respira è un po’ quella che speri di trovare in una multinazionale, a partire dal prefisso multi: multiculturale, multirazziale. Insomma, una canzone degli Ska-P. Uno di quei posti dove per forza di cose alleni il tuo inglese e conosci un sacco di persone così diverse da te che alla fine ci trovi un sacco di cose in comune. Quei posti in cui il rapporto umano c’è per forza e quindi viene valorizzato. Che almeno ci si confronti alla pari, sempre, ché nessuno sta sopra di te perché è bello, né tu stai sotto perché sei una merda.

Son due settimane che cammino con la schiena dritta.
Mi sento un turista in Erasmus, uno che qui ci sta per sbaglio e allo stesso tempo non poteva far altro che venire qui, come se fosse stato scritto da qualche parte.
Sento cose ora, a trentatré anni compiuti il giorno che sono atterrato qui, che mi chiedo se avrei dovuto provare prima, se magari è la cosa giusta all’età sbagliata.
Poi mi dico che meglio tardi che mai non ha mai avuto più senso che in questo momento e allora ben vengano le paure, i pensieri, ben venga questa enorme amplificazione di sentimenti che ti fa amare il mondo e ti spalanca il cuore e le braccia e la testa.

Ben venga tutto, che è il momento di prenderselo e sorridere se un giorno me lo perderò per strada.