Kahbum – la Musica Oltre la Musica

Ci sono alcuni giochi di società, di quelli in cui le parole sono il cuore di tutto, in cui devi indovinare la risposta avendo meno informazioni possibili, dove devi usare un numero minimo di parole fino al classico gioco dei mimi, in cui al titolo del film devi arrivarci guardando un tuo compagno di squadra che gesticola come uno scemo: una volta, per far indovinare «Qualcuno volò sul Nido del Cuculo», disperato dopo l’ennesimo tentativo andato a vuoto, arrivai a mettere i cuscini del divano in cerchio e, imitando un volatile enorme, planavo sopra questo nido improvvisato. E indovinarono.

Poi ci sono altri giochi in cui ci parti, da una parola, e arrivi a creare un mondo. Anche la semplice associazione di idee, in cui magari parti da una cosa che vedi sul momento, chessò, «mouse», e finisci dopo un bel po’ a nominare Gasparri.

Ecco, Kahbum è più vicino a questa seconda forma di gioco, anche se poi proprio gioco non è.
La regola è semplicissima: prendi due cantanti/cantautori/cantastorie, gli fai portare il loro strumento (chitarra, loop station, batteria, una volta un’arpa, o anche solo la propria voce) e li metti in una stanza dandogli una busta con un titolo e un’ora e mezza di tempo per scriverci una canzone sopra.
I risultati di cui tutti possono usufruire tutti quanti sono dei meravigliosi video in bianco e nero su Youtube, con titoli come -tra i tanti- «Adotta un Fascista» (Lucio Leoni & Giancane), «Mi si è slogato il cervello» (Le Sigarette & Underdog), «Ctrl – Z» (Davide Shorty & Daiana Lou) e la più recente e nonché la più Natalizia di tutte «Palle di Natale» (The Niro & Lucci).
Nel video, la canzone vera e propria è preceduta da una sintesi di quei novanta minuti in cui, appunto, si crea il gioco.

Ed io ho avuto la fortuna di assistere e diciamo anche partecipare a una delle partite della seconda stagione. Partite che non fanno scontrare gli artisti ma li fanno incontrare: citando il sito di Kahbum, «non è un talent, non è un concorso, non ci sono vincitori né giudici».
Premetto subito: per ovvie ragioni di spoiler, non potrò dirvi chi sono i due artisti che hanno giocato, né il titolo della canzone. Posso giusto dire che uno dei è stato una conferma, e l’altro una piacevolissima scoperta.
E il titolo è una bomba.

Arrivo allo studio di registrazione «La Strada», tanto lontano (almeno per un cretino spatentato come me), quanto bello: poco fuori dal GRAGrande Ricordo Anulare», Tommaso di Giulio & Emanuele Colandrea) , arrivato dopo un nemmeno tanto travagliato viaggio su sedici linee diverse e una passeggiata tra campagna e cavalcavia sopra il raccordo, lo studio è immerso in una villa con giardino rigogliosissimo nonostante sia metà Dicembre, una vasca per i pesci, una piccola cappella privata, un paio di gatti e un cane, se non erro, sordo. Mi accoglie Ulisse, il mio insider all’interno della Necos, la società di comunicazione che ha inventato, creato e prodotto Kahbum. Ci sono tutti i soci, ognuno dei quali ha generalmente un ruolo preciso ma che nel giorno delle riprese fa un po’ di tutto, dal preparare un numero imprecisato di caffè a sistemare i microfoni, avanti e indietro prima della prima (e unica) scena del video.
Ulisse mi accompagna verso il resto del gruppo, che chiacchiera subito fuori dallo studio, in cerchio sulla ghiaia bianca.
Saluto in modo fin troppo confidenziale uno dei due artisti, e mi presento per la prima volta con l’altro, nonché con praticamente tutto il resto del team che gira intorno ai due.
Tra sigarette e bicchierini di plastica usati come posacenere, arrivo che si parla, ovviamente, di musica. Mi sento subito, estremamente a mio agio, rimanendo comunque in bilico tra l’inserirmi nella conversazione e guardarmi intorno.
Noto anche una certa elettricità nell’aria, un’atmosfera da prepartita, appunto, e ne ho conferma quando tra i due inizia uno scambio di domande sulle reciproche influenze artistiche, politiche, racconti sul quotidiano tra figli, ex ragazze e genitori.
Capisco che i due si conoscono solo per quello che fanno, e che si piacciono anche parecchio. Ma non si erano mai nemmeno visti da lontano, e questo mi sembra l’unico muro che gli rimane da abbattere: quello della fisicità della musica, il suonare insieme e anzi, il creare musica insieme.

Cominciamo ad entrare nello studio.
La stanza principale, il cervello di tutto, mi si apre appena varcato l’ingresso. Un pannello di controllo fatto di schermi, mixer grandi come un letto e casse grosse come comodini.
L’attività è frenetica: persone con cavi, microfoni, fari e faretti sfrecciano avanti e indietro, tra il cervello e quello che è il cuore, di Kahbum, e cioè la stanza dove i due artisti rimarranno per quei 90 minuti e da dove pomperanno idee, sensazioni, accordi (uno dei due, in questo caso, ha una chitarra), rime (lo strumento dell’altro) fino a creare una canzone.
Nei momenti successivi si calma la squadra tecnica, e cominciano ad agitarsi i due artisti: è una sensazione positiva, ovviamente, la classica, dovuta e necessaria scarica di adrenalina prima di una cosa che non hai mai fatto e a cui già tieni moltissimo.
Ulisse spiega brevemente le poche e semplici regole: dal momento in cui scoccherà il «ciak!», avranno due taccuini, penne, acqua e un’ora e mezza in cui le comunicazioni tra i due organi saranno ridotte al minimo, gli interventi della squadra nel cuore ancora meno e solo per questioni tecniche [durante la registrazione ci sono state effettivamente rarissime interferenze dal cervello, dovute a problemi tecnici, per alcune foto ai due o per annunciare la fine del tempo].

Respirone da parte di tutti, i due entrano, il ciak! scocca.
Si tira il telo tra cuore e cervello (da quel momento, seguiremo tutto dai monitor).
Le porte si chiudono.
Silenzio, si gira.

Ecco, spiegare senza poter dettagliare non è facile, ma fa più o meno così: la busta, il titolo (e che titolo!), le risate, la discussione sul farne o meno un pezzo cazzone, la virata verso il pezzo «serio», la ricerca di un accordo, un suono, associare dei ricordi in base al titolo e trovare le prime parole, discutere su quali, quante, riesaminarle, eliminarne alcune e scovarne di altre. I lunghi silenzi, i click delle penne, il fruscio leggero delle sfere sulla carta che lasciano una scia di parole, e la pressione frenetica delle linee che le cancellano. Le prime rime, i consigli, come dividersi strofe e ritornello. Altri silenzi, l’accordo ripetuto all’infinito, la calma prima di una piccola tempesta di dubbi, ripensamenti, il tempo che passa («manca mezz’ora!»), la certezza di averne sempre meno («si può bestemmiare?»), iniziare-sbagliare-ricominciare-sbagliare di nuovo.
La quiete che arriva dopo, la conferma di avere un buon pezzo tra le mani, gli ultimi aggiustamenti, pochi minuti in più per recuperare i pochi interventi che ci son stati, proprio come in una partita.

Tempo scaduto.

Almeno per quanto riguarda il gioco.
Adesso il risultato deve essere ripetuto un po’ di volte, così da dare la possibilità al cervello di registrare le versione migliore della canzone.
Esce fuori una gran bella traccia, un perfetto equilibrio tra blues e rap, chitarra e voci, parole e sensazioni.
Poi breve intervista post partita, i due che con noi ascoltano più volte le varie versioni, le ultime sigarette, i loro curiosi «beh, allora, com’è andata?» e i nostri sinceri «una bomba!», le strette di mano, lo scroccare un passaggio all’artista appena conosciuto e scambiare più di una chiacchiera sulla scrittura, la creatività, il poterci o meno campare, con queste cose.

Alla fine dei giochi -mi dico ora che ne scrivo dopo più di un mese- penso che se anche non ci mangi, con lo scrivere e cantare o far creare le canzoni, se sei arrivato al secondo anno di produzione della serie più innovativa e divertente della scena musicale italiana, allora ne vale la pena in ogni caso.
Quando crei un contatto, un incontro, rendendolo possibile grazie alla musica ma facendolo poi andare oltre, rompendo più di una parete tra arte e pubblico, allora hai comunque vinto.

E allora viva Kahbum, viva la musica che non c’era e che grazie a un’idea semplice e geniale, ora c’è.

E c’ho le prove.

Quattro Motivi per Rimanere a Roma – Tre e Quattro

Imparare l’Arte del Riuso con AMA

Non possiamo negarlo: negli ultimi venti anni la disponibilità di cose, dagli alimenti alla tecnologia ai vestiti alle auto a tutto quello che si può comprare, è aumentata in modo vertiginoso. Ma visto che non abbiamo case o spazi abbastanza grandi per tenerle tutte, le dobbiamo buttare.
E perché lasciare le cose più grandi come frigoriferi, divani, sedie, mobili, dvd, libri, auto, case e fogli di giornale nei posti dedicati, da dentro i cassonetti alle isole ecologiche?
Molto meglio lasciare le cose solo intorno ai cassonetti, già pieni per la negligenza di una classe operaia, quella dei netturbini, diventata in questa città elitaria, e lasciare a disposizione degli altri ma sopratutto degli eventi atmosferici interi pezzi di arredamento, che perdendoci un po’ di tempo ti rifai tre case solo con un cassonetto.
Anche qui, come con gli scioperi e la possibilità quindi di girare Roma, la mancata gestione dell’AMA regala questa grandiosa chance a tutti i romani, quella di spremersi le meningi e dare nuova vita alla natura morta che ormai copre le strade della Capitale da mesi.
Se è pur vero che durante i mesi estivi i cassonetti erano inavvicinabili, ché grazie al caldo l’umido macerava meglio del mosto, ora è possibile raccogliere a piene mani i frutti della maleducazione altrui e farne nuova vita.
Anni di «Art Attack» non posso essere scivolati via così: ci basterà quindi avere sempre con noi forbici a punta arrotondata e abbondante colla vinilica per poter esprimere tutto il nostro talento inespresso. Dal riparare una poltrona a fare di un frigo una libreria, passando per nuovi tavoli da giardino fino a non fare altro che guardarla, e godersela così com’è.

Il Campidoglio come la Casa Bianca (diretta da Ferretti)

Vi ricordate il periodo Marino?
Era incredibilmente noioso.
Nel senso: come lui stesso gestiva le cose risultava troppo burocratico, troppo cavilloso, con ‘sta fissa di regolarizzare le municipalizzate, chiudere discariche, presentare il bilancio in tempo (per davvero però), far passare il badge agli autisti ATAC e far tornare in strada, a piedi, di Domenica(!) gli spazzini AMA.
Se non fosse stato per un po’ di Movimento con quelle storie di Panda rosse, scontrini e Papi che non sanno niente di nulla, quei due anni sarebbero stati ancora più noiosi.

Ma adesso!
Oh adesso!

Star dietro a tutto quello che succede dentro alle stanze dell’Amministrazione Raggi è impossibile. Anche perché, se erano partiti tutti con lo streaming, la condivisione, i palazzi di vetro, adesso se non fosse per un poco di indagine giornalistica (seppur nella maggior parte dei casi orientata verso lo scandalo e il gossip) e per le concrete conseguenze del loro non operato, di cosa succede non si saprebbe nulla.
Quindi ad ogni uscita di agenzia, ad ogni link pubblicato si aprono retroscena da quattro soldi, giochi di potere già visti e sentiti che però animano i corridoi del Campidoglio e smuovono una situazione che ormai credevamo finita. Un ciclo chiuso, quello dei parenti assunti, delle delibere presentate solo per nuovi incarichi e nuovi stipendi, dell’appoggio alle famiglie criminali che gestiscono i camion bar: che barba che noia, quel Marino che le aveva fatte finalmente sparire rivelandone gli sfondi che oscuravano abusivamente, robetta tipo Colosseo e Fontana di Trevi: tutto ok, si può ritornare a comprare mezzo litro d’acqua a sedici litri di sangue.

È come se Renè Ferretti realizzasse finalmente il suo film sulla casta, ma nel periodo di Libeccio e con attori ancora più scarsi di Corinna e Stanis.
Un continuo «scarto!» che però non viene mai gridato, manie di protagonismo che nessuno si azzarda a placare e un prodotto terribile, surreale, grottesco, e per questo quasi divertente, che guardi col cuscino con la faccia, come gli horror, ma di serie Z.

Quattro Motivi per Rimanere a Roma – Uno

L’Applicazione Fai-Da-Te del Codice Stradale

Se con Marino la situazione della Polizia Municipale stava cominciando a migliorare (un ex poliziotto a capo, introduzione di nuovi sistemi per le multe, servizi che vivevano di segnalazioni del cittadino) con la giunta Raggi la situazione è tornata come prima, e cioè: liberi tutti.
Questo vuol dire che se hai una macchina puoi tranquillamente continuare a parcheggiare in doppia fila, passare a rosso inoltrato, suonare clacson come se fossimo tutti sordi e stare al telefono per ore, tra le tante cose.
Il pedone non esiste, quindi nessun problema se dovete lasciare la macchina sulle strisce o davanti alle rampe per disabili.
Il ciclista è invece un animale strano, bistrattato da entrambe le suddette categorie ma sempre arrogante quel basta da fregarsene di tutti e fare di necessità (l’arrangiarsi a causa della totale assenza di piste e segnaletica riservate) virtù (stare ovunque, dal marciapiede ai binari del tram).
La quasi totale mancanza di controlli, per nulla compensata da sporadiche quanto aggressive apparizioni di dipendenti ATAC che come avvoltoi girano tra macchine parcheggiate una sopra all’altra, con proprietari che inventano scuse come coi compiti alle elementari («capo m’è appena morta nonna! se l’è magnata er cane!»), insomma se non fosse per le ronde da leghisti stupidi e qualche capannello di vigili ai gabbiotti nelle ore di punta, Roma a livello di civismo stradale starebbe al pari di quelle capitali dell’Est Asiatico dove gli incroci sembrano ingrandimenti di formicai abitati da insetti idrofobi.

Ma è anche tutto quello che riguarda la strada, e non solo chi la abita, a rendere Roma unica.
Alcuni esempi?

I parcheggiatori abusivi sono ormai così presenti e radicati da essere finalmente in procinto di prendere l’autorizzazione per essere regolarmente abusivi.
Alcuni semafori non cambiano colore per così tanto tempo da sembrare dipinti.
I cartelli stradali sono espositori per adesivi “La droga dà la droga daje”, “Welcome to Favelas” e “Ultras Roma Per Sempre Forza Maggica Totti Sindeco”.
I marciapiedi sono tutto tranne zone franche per pedoni: diventano parcheggi, scorciatoie per motorini, banali appendici delle corsie dedicate.
Tassisti che menano autisti NCC che menano conducenti Uber che al mercato mio padre comprò.

Insomma, in un mondo che punta al verde, all’ecologia, alla riduzione di emissioni nocive, che ti obbliga a camminare o pedalare, a rinunciare alla macchina se non addirittura a vietarla, Roma va orgogliosamente controcorrente confermandosi una città a misura d’auto: 613 ogni mille abitanti, oltre due milioni e trecentomila veicoli circolanti su poco meno di tre milioni di abitanti.
E proprio per questo il codice stradale deve, essere speciale. Non può andare incontro al comune senso civico ma deve essere di nicchia, particolare, unico, così come la città che ne permette l’applicazione.
Siamo o non siamo quelli famosi per Gregory Peck e Audrey Hepburn in due sulla vespa, senza casco, a guardare tutto tranne che la strada?