Esattamente quattro mesi ed un giorno fa, scrivevo solo che belle parole per i ragazzi di BigRock. Li avevo conosciuti solo il giorno prima, stanchi dell’ultima notte a tirar su la sceneggiatura che avevo scritto per il loro concorso. Ho vinto, e ‘sti matti in tre settimane hanno reso viva “La Telecamera“.
La bellezza.
E visto che son matti anche peggio di me, in questi mesi ci siamo continuati a sentire ed abbiamo deciso di far girare il corto, in modo molto mirato, in alcuni festival di cinema. Fino ad oggi lo abbiamo proposto a tre festival, e tutti sono sembrati subito molto interessati.
Il primo è stato il SIFF – Salento International Film Festival.
Il SIFF è una bellissima manifestazione che ha concluso ieri la sua undicesima edizione. Undici anni in cui si è evoluto fino ad essere esportato dal suo ideatore Gigi Campanile in Asia, dove ormai è una sicurezza per qualità delle pellicole scelte personalmente da Gigi.
Ho avuto il piacere lo scorso anno di partecipare come giurato, ed ho avuto la possibilità di testare la qualità di tutti i film in concorso, corti compresi.
Per questo, parlando con Marco di BigRock, abbiamo pensato potesse essere un buon inizio per vedere cosa poteva succedere.
Ed è successo.
È infatti col cuore pieno di gioia che posso annunciare ufficialmente la vittoria de “La Telecamera” al SIFF, nella categoria “Corto di Animazione”.
È difficilissimo spiegare a parole il frullato di pensieri che si rincorrono in testa ora.
Ho già spiegato come il corto è nato dalle mie dita e come quelle splendide creature di BigRock lo hanno reso vero, reale con un lavoro immenso in pochissimo tempo.
Che voi penserete che per quei due minuti finali saran serviti tre giorni.
Selallero.
Tre settimane che son bastate pelo pelo, e la loro stanchezza di cui parlavo all’inizio, il giorno della prima, ne era una prova più che chiara.
Ma erano felici, felici di aver fatto bene quello che piace a tutti loro. Soddisfatti di aver visto un mucchietto di parole diventare quello splendore che è “La Telecamera”.
Io mica smetto di ringraziarli eh. Non ci penso proprio.
Perché per me questa cosa ha significato, e continua a farlo, tantissimo. Una distrazione che è diventata un’amicizia, uno stimolo, magari anche il metter lì altri progetti.
Di certo con i festival non ci fermiamo. Anche perché ora, le pellicole vincitrici in ogni categoria del SIFF si faranno un bel viaggetto fuori di nostri confini. Ora si va ad Hong Kong, e Los-fuckin’-Angeles (o forse Lon-fuckin’-don, ancora non si è ben capito!!).
OH YEAH!!
Quindi non è proprio il momento di lasciarci stare, anzi.
Ora i BigRockers se ne stanno in giro per gli States, come ogni anno, a girare nei Canyon o a correr come i matti su sterminati laghi salati.
Poi tornano, faran mille feste e nel frattempo, forse, MAGARI STUDIANO PURE.
Bastardi ❤
Stay tuned, “La Telecamera” ancora non si è spenta.
Qualche settimana fa, mi hanno chiesto di organizzare un festival musicale.
C’è da sapere che io, quando devo organizzare una cosa, solitamente mollo al primo che non mi risponde al telefono.
Ma nelle ultime settimane ho fatto un fioretto che non lo so nemmeno io, e quindi questa cosa cadeva a fagiuolo: una sfida. Di quelle toste, per me che la sfida più grande è arrivare vivo al tramonto.
Sarò in grado? mi chiedevo. Saprò gestire situazioni di emergenza? mi questionavo. Da dove inizio? mi domandavo. Scusi, per la metro? m’interrogava il passante.
Scopro che non è così difficile. In fondo conosco molti gruppi, alcuni sono miei amici e con altri posso provare a parlare. Si parano davanti ostacoli come eventuali cachet, costo d’entrata per il pubblico, materiale tecnico, ma anche cose basilari come data ed orari.
Comincio a fare quello che posso fare da solo, devo comunque presentare un qualcosa.
Partono le telefonate, le mail, i ma non è che conosci qualcuno che suona? che sì i gruppi che conosco io ma alla fine mi piacerebbe portare chi invece non ho mai sentito.
Voglio sorprendere tutti, me compreso.
Recupero le prime conferme, si riduce la papabile data ad una paio di giorni utili in cui ci siano tutti, si capisce cosa si ha e cosa bisogna rimediare.
Di conseguenza iniziano le mie domande a chi di dovere. Non chi mi ha proposto di organizzare il tutto, che alla fine di questa storia ne esce indenne, e ci tengo a sottolinearlo.
Mi viene però dato il contatto di tale A, che capisco conoscere già.
Mi è capitato di parlarci un paio di volte: la prima, quando ci presentarono credo ormai un anno fa, fu all’Angelo, in un turno di chiusura all’entrata in cui intrecciamo conversazioni sugli argomenti più disparati, tutte annebbiate da rovesci improvvisi di Gin Tonic. La seconda è stata invece più recente, e cioè al concerto di Kento & The Voodoo Brothers al quale andai prima per intervistare la band. Me lo hanno indicato in quanto gestore, o comunque referente, del posto dove si svolgeva l’evento. Vi basterà incrociare un paio di parole chiave su Google e capirete anche di che posto parliamo. Qualcuno farà due più due, e capirà anche il chi.
Fatto sta che il signor A se ne è sbattuto allegramente, delle mie richieste. Se ne è fregato della mole di organizzazione, e quindi di lavoro, dietro all’evento. Un evento per cui doveva darmi quelle due, tre semplici informazioni per completare il tutto e poter essere tranquillo. Al telefono mi ha rassicurato che la cosa era ok, per la data aggiorniamoci ma il posto è tuo e quello che c’è lo puoi usare. Gli spiego che con gli artisti ho accordi io, personali, e che quindi mi basta poi sapere come intendiamo dividere eventuali entrate.
So che qualcosa ci perderò ma poco importa. Il mio obiettivo è dare l’incasso ai gruppi. Poi si vede.
Sull’argomento lì per lì glissa ma mandami una mail che ti dico tutto.
Mando mail, dice niente.
Passano un paio di giorni, il tempo stringe e mi muovo per la grafica: volantini da stampare, eventuali locandine da attacchinare e loghi vari per i social.
Sei ore di lavoro quasi filate fatte con le mani, la testa ed il cuore di Davide “il King” Baratta. Sei ore di particolari curati, volute irregolarità, anteprime rubate e posacenere sempre pieno. Sei ore di che dici ‘nzià?, com’è, ‘nzià? e vai che è una bomba King.
Ne esce una cosa di cui sono orgoglioso marcio, perché prima di questo
Ma quanto è bella? Senza l’indirizzo del posto è ancora meglio.
ancora non esisteva nulla, nel mondo vero.
Prima era solo rumore di click e tastiere, a breve sarebbe stato suono e profumo di carta lucida, grammatura a 130, fronte retro uguali.
Ultimi contatti con Le Cool per avere il via libera sul supporto all’evento, si contatta una tipografia e via di mail con allegato la locandina con già tutti i margini preparati per la stampa.
Le risposte continuano a non arrivare, ma decido di stampare lo stesso.
È sicuramente stato un errore, ma se il silenzio è assenso vaffanculo, io stampo.
Ovviamente altri mille cazzi con la tipografia. Annullo, ordino su internet da una di Bergamo che in un giorno e mezzo me li spedisce.
Belli.
Profumati.
Il Random Music Festival è realtà.
Ma anche no.
Ennò perché nonostante riesca a chiamarlo, nonostante ci caschi di nuovo come lo stronzo che sono e lui sia super mega tranquillo daje che famo tutto, il coglione mica mi dice che nel frattempo il proprietario della villa fa storie. La musica, il volume, una mezza denuncia, la paura der gabbio. ‘sto coglione non me lo dice.
Famo er pool party.
Chiamo alcuni miei gruppi a suonare coi tuoi.
Damme la lista der service, ce penso io, non confermà il preventivo.
Va beh che son coglione ma un barlume di speranza c’è per tutti. Io il preventivo lo lascio, e lo pago. Meglio che la roba avanzi, piuttosto che ce ne sia bisogno all’ultimo. Zero pool party: c’è gente che suona, non ho bisogno di un pubblico ubriaco dalla parte opposta di dove sarà il palco e no, zero gruppi tuoi. Io i miei me li son sudati ed i miei suonano, checcazzo.
Questo glielo comunico con una calma rara ma voluta, sempre per quel fioretto.
Gli giro ovviamente anche la lista del preventivo, che la speranza è l’ultima a morire. E se è morto Andreotti, c’è ancora la speranza. Che è l’ultima a morire, ma se è morto.. ma che cazz..?
Diciamo che ho avuto la stessa risposta che avreste facendo una domanda a Stephen Hawking, ma spegnendogli prima quel cazzo di computerino.
Il silenzio.
Contatto disperato il mio amico, quello che mi propose il tutto, e mi dice di tutte le storie del padrone della villa.
Arrivo alla conclusione, poi da lui stesso confermata, che alla villa non si farà.
Ah.
Il tutto, a tre giorni dall’evento, con già mille volantini in giro per Roma con l’indirizzo della villa stampato sopra (fronte-fanculo-retro) ed altri quattromila in attesa di essere sparati dal Cannone del Gianicolo su tutta la cazzo di Capitale.
Ma niente, ‘sta cazzo di calma mi fa cominciare a contattare il mondo con una quantità di mail e faccia tosta da far invidia al miglior spammer umano del mondo. Mi aggrappo a Gabriele delle miniature (che insieme a Silvia fanno la coppia, l’unica coppia in questo arido mondo, che mi fa credere ancora nell’amore) e non mi delude.
Più veloce dei tipografi bergamaschi, trova ospitalità a ‘sto gruppo di disperati dai ragazzi di Spartaco nel parco di Centocelle, insieme a Cinecittà Bene Comune.
‘sti altri matti hanno occupato un pezzo di parco, che era chiuso ed ovviamente usato come discarica, l’han ripulito e proprio Domenica hanno cominciato a zappare la terra per fare l’orto.
‘sti matti.
Alla fine il Random è stato bello. Ridotto all’osso nella scaletta (con un gruppo che ha dovuto rinunciare all’ultimo), e nel pubblico.
Che annunciare a 72 dall’evento che non sai dove farlo, solitamente non fa incrementare il numero di partecipanti.
Però, ripeto, è stato bello. Molto. Un’atmosfera davvero particolare, con gli Ukulele Occasionale a fare delle cover davvero, davvero fantastiche mentre chi era venuto per il parco piano piano si è silenziato, non zittendosi ma permettendo di far ascoltare tranquillamente a chi volesse la musica.
Quello che volevo.
Due ragazzi prendono un telo e si avvicinano, sedendosi a terra.
I miei amici (dio, grazie, davvero) si mettono tutti insieme e sono un insieme bellissimo.
Mio fratello (supergrazie) se ne sta in panciolle tra pezzi di pizza e pere d’insulina.
Le miniature fanno.. le miniature.
Si chiude il cerchio dell’atmosfera particolare: io finisco seduto davanti a Silvia e Gabriele, con il piccolo Michele, che avrà avuto sei anni, che si mette lì ad ascoltare tra me e loro. Batte ogni record di confidenza agli sconosciuti e finisce sul mio ginocchio, ad ascoltarli ed a giochicchiare con il mio cellulare.
Ma sono così felice che non capisco nemmeno cosa stia succedendo.
A fine concerto siamo tutti storditi, felici e sicuri che quel che è rimasto del progetto, alla fine ci è riuscito. E pure bene, che diamine.
La voglia di farne un altro è comunque, follemente, tanta. Che sbagliando s’impara, e vedere chi mai ha suonato dal vivo ricevere applausi sinceri, ed altri che vengono sempre più adorati allora ok, qualcosa di buono c’è.
In conclusione, io il culo dei principianti non l’ho avuto. Anzi.
E da bravo neofita, ce l’ho messa tutta. Pure di più.
A gente come la merda, invece, il culo dei principianti non lo ha mai abbandonato.
Perché non puoi reputarti un professionista del settore, se non rispondi manco ad una mail. Nemmeno per dirmi “no, non si fa”. Non intorti la gente, e poi sparisci.
Se il posto dove stai dentro chiude, un motivo c’è. E non possono essere solo gli affitti.
Per carità di dio, quell’associazione culturale da lavoro, fa girare begli eventi e si è fatta un nome importante. Poi son gusti ed io non l’ho mai frequentata tanto, ma di certo non sono per le chiusure di posti decenti.
Però cazzo, veder piangere miseria da uno che poteva far due soldi per la SUA causa col MIO evento, mi fa pensare che in fondo in fondo gli freghi meno, di quel posto, di quanto sbatte a me.
“For what it’s worth, it was worth all the while.“
Quand’ero giovane c’era questa. Lei aveva gli occhi verdi ma che con la luce cambiavano, diventavano quasi azzurri. Aveva lunghissimi capelli mossi e rossi, ed un sorriso bianchissimo sulla pelle olivastra. Avevamo diciott’anni ed io iniziai non capendoci un cazzo di relazioni, crociata che orgogliosamente porto avanti ancora adesso. Mi ricordo di uno stupido quanto serissimo contratto in cui ci s’impegnava a non dire-fare determinate cose, che non so in che contesto includeva anche Alessia Marcuzzi. Forse evitare di spezzarmici il polso sopra, ma la butto lì. Contratto firmato con le nostre impronte digitali, stampato in doppia copia che chissà che fine ha fatto.
Ci fu la mia lunghissima e sudatissima prima volta, imbarazzante come tradizione vuole, ma fu lì che m’innamorai del suo corpo e di tutte voi maledette, un qualcosa da ringraziare e bestemmiare iddio per ogni giorno che vi mette in terra.
C’erano cene fuori, compleanni in cui il mio modo di vestire viene ancora preso per il culo perché la camicia di jeans coi bottoni a clip, PERLINATI, effettivamente a pensarci ora è un misto tra il terrore ed l’hipster che ancora manco esisteva il termine.
Ci furono ovviamente scazzi, l’ancor più ovvio periodo di pausa -che dovrebbe esser paragonato alla minaccia personale, per l’ansia che hai nel mentre-, ci fu la rottura definitiva e poi i mille strascichi, le gelosie.. e poi gli anni passano e vedersi, quelle rarissime volte, è un piacere ancor più raro.
Da lì, però, cominciò anche il mio inutile, infantile disturbante lamentarsi nei mesi dopo, la rottura.
E questo, più che una crociata, è un marchio di fabbrica.
Dieci anni fa non sapevo ancora dove avrei sbattuto la testa, dieci anni dopo.
Sapevo che non avrei intrapreso nessuna carriera universitaria, visto che ancora stavo finendo il liceo da privato dopo due bocciature da pubblico.
Sapevo che non avrei fatto il lavoro di papà, anche perché lui per primo non voleva che stessi lì più del tempo necessario per dare una mano ogni tanto.
Sapevo che non sarei rimasto con Luisa, nonostante te l’avessi presentata quando ormai eri ferma a letto. Quel giorno però provasti ad alzarti, accennasti un sorriso orgogliosa di quel ragazzo che s’era fatto “la regazzetta”.
Però non sapevo quanto sarebbe stato difficile, affrontare certe cose senza te accanto. Nonostante non fossi ancora un adulto, il giorno che te ne sei andata, tu comunque da adulto mi ci ha sempre trattato.
Nonostante mi viziassi (ma sempre e comunque col bilancino), nonostante la formula magica prima di andare a dormire, quasi un mantra:
“Sogni d’oro co’ l’angioletti, d’oro e d’argento.”
nonostante quegli enormi presepi che ci prendevano giorni nel farli, pieni di laghi di stagnola, erba raccolta in giro e decine di personaggi, da Maria ai soldatini passando per i dinosauri, ecco nonostante tutto quello che una nonna fa per i nipoti mi hai sempre parlato da grande, con rispetto ed intelligenza.
Quell’intelligenza di strada e di libri divorati uno a sera, tra interminabili puntate di “Sentieri” e maratone di Fantozzi insieme sul divano. Le rime zozze con i nomi di donna (“Teresa tutta la notte la tiene appesa”), ed i racconti di nonno nei campi di lavoro, i giri da San Saba a Testaccio ed i pomeriggi estivi a Ponte Galeria dove rimanevi per mesi e non si faceva altro che giocare e mangiare.
Quello che so, dieci anni dopo, è che mi manchi ancora.
So che se sono arrivato fino a qui, se comunque riesco ad essere allegro anche quando mi sembra tutto triste, se ancora rido pensando a quando ti prendevo in giro ché eri un po’ (tanto) sorda e facevo:
so che conosco San Saba e Testaccio come le mie tasche grazie a te ed alle Domeniche col sole ad andare in giro per i palazzi a trovare zia Mimma.
So che se non ci fossi stata tu da piccolo a far finta di chiudere i dottori in una stanza e picchiarli con loro che stavano al gioco ed urlavano, quando mi facevano mille analisi del sangue al mese, a quest’ora sverrei alla sola parola ago, invece di farlo quando lo vedo.
So che hai tirato su due figlie splendide, ironiche ed intelligenti, ed un nipote che non ti ringrazierà mai abbastanza per ogni singolo giorno che gli hai dedicato.
Sono passati dieci anni, e tra altri dieci avrò dimenticato di questi miei mesi tristi, non ricorderò più le voci di persone perse nel tempo, né le loro promesse o i loro sguardi.
Tra altri dieci anni, però, ricorderò ancora di quella donna matta, dolce e premurosa che eri, dei suoi piatti di riso e dei suoi:
“Vamme a prende le sigarette (Multifilter Blu, come dimenticarle) ma non lo dì a mamma. Col resto compratele pure te, e tranquillo che rimane tra di noi.”
l’ultima volta
non erano scritti da te
i foglietti
che scandivano ore
e coppie
per controllare un’entrata
che a dispetto del nome
all’epoca usavamo poco
come entrata per noi
che venivamo da dietro quando ancora il posto dormiva
l’ultima volta
sul coperchio del frigo grosso
non c’erano quei segni dei fondi delle bottiglie di Martini
quasi marchiati sopra
a forza di poggiarcele sopra a fine serata
cicatrici che rimangono
come se non bastassero le altre
l’ultima volta
le sigarette speciali non erano così proibite
non ho capito che è successo
ma almeno pare non sia colpa mia
che pure per altro ancora non ho capito cos’è successo
ma lì pare davvero sia colpa mia
l’ultima volta
saremmo andati via insieme
magari ubriachi marci
sfatti dalla vita
ma ancora con la forza per fare l’ultima
e per “scarico qualcosa al volo, che ci vediamo?”
e poi crollavi che nemmeno stava al cinquanta percento
ed io ti levavo il pc di dosso
ti baciavo
e ti guardavo fino a che non svenivo
l’ultima volta
non avrei rosicato a vederti parlare con uno che chiccazzè
almeno non così tanto
non fino al punto di andarci in loop
con quel nanetto in maglia celeste
e sentir stapparsi lo stomaco dieci minuti dopo
dall’angoscia pura
e correre a vomitare
che manco ero sbronzo
femminuccia
l’ultima volta
quella moretta non l’avrei manco notata
o almeno non ci sarei rimasto così
ché una arriva
ti chiede da bere
e lo fa con quegli occhi enormi
proprio mentre tu ammazzeresti a mani nude
tutto l’esercito russo
e lei ti chiede un cocktail
ti guarda fisso mentre lo chiede
ti guarda fisso mentre lo prepari
ti guarda fisso mentre ti da i soldi
e ti guarda fisso pure mentre le dai le spalle per darle il resto
te li senti nella schiena
quegli occhi neri come l’abbandono
e ti rigiri e lei ti fissa mentre si gira e dici “che le dico?”
ed ovviamente la vedi ballare sotto quel faro rosso
e non puoi muoverti
non vuoi
fatto sta che non lo fai
e lei poi sparisce
per tornare sotto forma
di ennesima sequenza di lettere su di uno schermo
non l’avrei nemmeno sentiti
quegli occhi
e invece sto qui
a sbatter la capoccia
sul nulla
di nuovo
l’ultima volta
nessun angelo mi aveva detto di esser stato un cazzone
con te
e la cosa mi ha sorpreso
perché sì che il discorso l’ho tirato fuori io
ma è pur vero che te lo aspetti da chi conosci meglio
da chi vedi anche fuori da lì
se pur son pochi
e la cosa non mi ha infastidito
anzi
lo sapevo
però m’ha fatto strano
ecco cazzone
suona bene
da l’idea
l’ultima volta
minimo saresti rimasta a cantare Elvis
o Lucio
ed io a brontolare fuori
sbronzo
sfatto
ma innamorato perso
e ti avrei aspettato
solo per vederti barcollare un po’ in salita
con la luce celeste dell’alba
l’odore dei cornetti caldi
e quella voglia di letto mista ad una di
per sempre
mai detto
ma pensato
tanto
che a dirlo a certe persone
si fanno i danni
e invece a tenerselo dentro
guarda qui
che campione
che ne esce fuori
l’ultima volta
non avrei mai pensato
di pensare
a quando sarebbe stata l’ultima volta
pensa ora
che ho capito proprio
che l’ultima volta
è stata l’ultima volta
ed è anche ora
cioè non proprio ora
giusto il tempo di dirti
“mi dispiace”
ma solo fino ad ora
perché da ora in poi
no more dispiacersi
basta non arrivare al punto
di doverlo fare
quindi ciao
statemi bene
soprattutto tu
ma ora basta
che sarai stanca forte pure tu
La cosa importante è di non smettere mai di interrogarsi. La curiosità esiste per ragioni proprie. Non si può fare a meno di provare riverenza quando si osservano i misteri dell'eternità, della vita, la meravigliosa struttura della realtà. Basta cercare ogni giorno di capire un po' il mistero. Non perdere mai una sacra curiosità. ( Albert Einstein )