A Pieni Polmoni

Non è che ci fosse nato, con quel problema. Solo che non ricordava la sua vita senza, quel problema.

I suoi ricordi partivano dalle prime notti insonni, da bambino, e passavano per la paura di venir inghiottito dalla sua stessa stanza da adolescente, con i Red Hot che lo guardavano dai poster con un calzino sul pisello e lo sguardo di compassione.
I concerti in cui doveva allontanarsi dalla mischia appena iniziati, le ore di educazione fisica passate a guardare gli altri correre, le prime volte ancora più imbarazzanti di quanto non siano già, con lui che col terrore di durare troppo e collassare, durava troppo poco.
Non c’era un ricordo che non fosse già avvelenato da quel problema.

Non era mai riuscito, in vita sua, a fare un respiro completo.

Non che ansimasse come un carlino, con la lingua di fuori e gli occhi a supplicare l’abbattimento. Anzi, la maggior parte della gente non se ne rendeva nemmeno conto e questo non faceva che aumentare il suo disagio.
Poche persone ne erano a conoscenza.
Certamente sua madre, che fin da subito fece il possibile per lenire le angosce del figlio pur consapevole della natura psicosomatica, più che fisica, di questo problema. Ma nessun pediatra, dal miglior Big Pharma al peggior New Age, era mai riuscito a fargli riempire del tutto i polmoni.

Un’altra persona che lo sapeva era una sua ex ragazza di quando aveva vent’anni che, stufa di provare a farlo durare più di cinque minuti, lo lasciò per un apneista e non si fece mai più sentire.
Perché una delle conseguenze peggiori che aveva scoperto con l’adolescenza era la difficoltà fisica che sì, in quel caso, lo faceva respirare come un maniaco che chiama a notte fonda, mischiata a quella psicologica della situazione: se provava a concentrarsi sulla partner subentrava la normale preoccupazione di fare figure di merda, subito sostituita dal respiro cortissimo e impossibile da completare, e quindi provava a distrarsi concentrandosi sulla partner e così via, in un loop che lo portava a diventare viola di imbarazzo e tachicardia.

I suoi amici lo prendevano per il culo il giusto, invitandolo a calcetto solo se serviva il portiere, o chiamandolo “Fiatocorto” durante le visioni collettive di Game of Thrones.

Ma il resto del mondo ignorava completamente la sua condizione e lui faceva di tutto per non darla a vedere. Spesso scorreva nella mente tutte le volte che confessarlo, o anche solo dirlo, avrebbe forse cambiato il corso degli eventi, piccoli o grandi che fossero.

Il suo esempio madre lo teneva stretto per sé, di quel giorno di mesi prima in cui camminava lento verso la fermata del bus che lo avrebbe portato a lavoro al centro. Aveva le cuffie grandi premute sulle orecchie, i passi a ritmo di Purple Haze quando notò lei che, poco più avanti, si era girata e con un cenno della mano stava provando a catturare la sua attenzione. Aveva i capelli rossi, crespi come la carta regalo di quella buona, gli occhi verdi e grandi da cartone animato della Disney e un vestito rosso con i rombi blu, leggero come fosse fatto di vento. Lui si sfilò le cuffie e le regalò un sorriso timido dei suoi, le labbra e le palpebre strette come in un’espressione da parente benevolo.

– Ciao! Scusa, ma alla fermata laggiù passa il 98 per il centro?

– Sì sì, ferma lì.

– Ma sapresti anche dirmi qual è la fermata vicino al museo di Storia?

– Beh guarda è la stessa a cui scendo io per l’ufficio, se vuoi saliamo e scendiamo insieme.

Quasi si sorprese, per questa botta d’intraprendenza.

– Volentieri!

La sorpresa fu doppia.

S’incamminarono uno accanto all’altra così, nel modo più naturale del mondo. Dovevano costeggiare un giardino pubblico per qualche centinaia di metri, prima di arrivare alla banchina, ma nessuno dei due sembrava riuscire a dire nulla. Nell’aria c’era quella piccola, leggera scossa elettrica, come quelle che partono dalle sfere di metallo e toccano la superfice di plastica nelle lampade da due soldi che si mettono in stanza per fare atmosfera. Entrambi sembravano temere che il parlare, così come il toccare le sfere da due soldi, avrebbe concentrato tutta l’elettricità del momento, mandandoli in corto.
Era tarda mattinata e nel giardino c’erano poche persone: qualche mamma distratta dal telefono mentre il figlio era intento a fare scorpacciate di terriccio, badanti che al contrario seguivano ogni passo di bambini scatenati che si rincorrevano e si gettavano a terra, per poi puntarsi contro il dito piangendo come se non ci fossero statepesante  orecchie a sentirli. Appoggiata alla staccionata in legno, rivolta al marciapiede, c’era invece una piccola cucciola d’uomo con i boccoli biondi e gli occhi che seguivano chiunque passasse lì davanti, le mani poggiate su uno dei piccoli tronchi e la calma di un santone addosso. Lui, che cercava di camminare più leggero di quanto in realtà non si sentisse, la guardava fissare prima una signora con la spesa e il maglione rosso nonostante la primavera fosse già arrivata da un po’, per poi passare al giovane in completo di lino con l’auricolare in fiamme e gli occhiali a coprire gli occhi che si rigiravano ad ogni richiesta di qualche cliente troppo esigente. La cucciola d’uomo seguiva con occhi e testa fino a incrociare qualcun altro, e così via, come stesse assistendo a una lentissima partita di ping-pong.
Arrivò il loro turno, e ovviamente i piccoli occhi puntarono la fresca non-coppia e cominciarono a seguirli. Lui, che dei due era quello che camminava più vicino alla staccionata, agganciò lo sguardo della piccola e le sorrise, di nuovo come un nonno stanco ma orgoglioso della nipote, ma senza aspettarsi una reazione che invece arrivò pronta, come se non aspettasse altro: alzò la manina fino all’altezza del viso, e cominciò ad aprire e chiudere il pugno.

– Tào! Tào!

– Ma tào a te, cuccioletta!

Si vergognò subito per quella reazione immaginando la ragazza che lo vedeva come un rapitore di neonati e, sentendosi gli occhi di lei puntati addosso, spostò goffamente lo sguardo dalla bambina agli alberi, cominciando ad annuire come se stesse provando a riconoscere la specie. E la ragazza lo stava guardando davvero, ma con gli occhi dolci e un sorriso un po’ ebete tagliato sulla bocca di chi ha visto in quella risposta il bambino che c’è in lui. E fu lì che lei disse:

– Comunque mi chiamo

– Aobbù! Aobbù!

La cucciola di uomo aveva trasformato il piccolo pugno in un dito che indicava dietro di loro.

– Aobbù!

Lui immaginò fosse la parola chiave che i genitori della bimba le avevano insegnato in caso di una situazione caramelle-da-sconosciuti ed ebbe un principio di attacco di panico, mentre lei si girò nella direzione che puntava il ditino e sibilò un

– Mapporc.

Volutamente troncato, ma intuibile.
La bambina stava dicendo autobus, e la sua gioia nel vedere tale mezzo li aveva inconsapevolmente avvisati del suo arrivo.
Lei fece qualche passo scattando ma, sentendo che lui non correva con lei, si girò e lo vide lì, ancora a far finta di capire se quello fosse un pino o un rovo di rose.

– Beh? Non corri per prendere il bus?

Lui immaginò quella breve corsa, il fiato ancora più corto del solito, immaginò l’imbarazzo nel non riuscire a parlare per ore, figuriamoci per una mezz’ora di viaggio.

– No tranquilla, devo passare prima da una parte. Comunque chiedi all’autista di farti scendere all’altezza di Vicolo del Bel Respiro.

Ah.
L’ironia.

Lei non disse nulla, ma il sorriso tagliato divenne un solco di disappunto e, girandosi, non accennò nemmeno a un saluto.
La vide correre, venire superata dall’autobus e per un attimo sperò quasi che lei cadesse, o che una ruota del mezzo si bucasse in quel momento facendolo finire nell’altra corsia, qualunque cosa pur di poterla raggiungere camminando, spiegarle tutto e chiederle di uscire.
Ma lei era agile, il bus aveva le gomme nuove e il suo profilo venne inghiottito presto dalle porte a soffietto. E comunque non avrebbe mai avuto il coraggio di parlarle per mezz’ora, figuriamoci per ore.

Ecco, se il bus avesse tardato anche solo due minuti, magari a quest’ora lei starebbe ridendo tra le sue braccia mentre lui le racconta questo immaginario what if.

E invece mesi dopo era lì in ufficio, a sbrigare le ultime noiose pratiche prima di prendere quel dannato bus e tornare a casa. La pioggia frustava la finestra dello studio a ritmo regolare, e il suono sembrava quello delle onde che s’infrangono su un bagnasciuga di vetro. Era rimasto solo e mancava mezz’ora alla fine del turno, e decise di fare una cosa che non faceva mai. Recuperò le sue cose, le infilò velocemente nello zaino e dopo essersi messo la giacca a vento, andò via prima. Una scossa di adrenalina partì dalla schiena e gli scaldò tutto il corpo mentre chiudeva a chiave la porta blindata, e scendendo le scale iniziò a sudare. Stava guadagnando solo trenta minuti e in realtà, come sempre, era arrivato in anticipo anche quella mattina, ma il non aver chiesto permessi che comunque non gli sarebbero stati negati lo esaltava un po’. Mentre apriva il portone del palazzo per uscire, si rese conto che il ritmo del suo respiro era aumentato parecchio e approfittando della pioggia battente si fermò sulla soglia, poggiandosi prima con la spalla sul muro, e poi aspettando che il portone si chiudesse per poter scivolare un po’ all’indietro e adagiarsi sulla schiena.
Rimase così per un po’, buttando occhiate nella direzione dalla quale sarebbe dovuto arrivare il 98 e armeggiando con le chiavi di casa nella tasca del cappotto. Nei periodi più pesanti, spesso si ritrovava col pugno chiuso intorno al mazzo di ferri appuntiti, stretto fino a lasciarsi segni sui palmi.
Respirava sempre più veloce mentre iniziava a chiudere la mano sulle chiavi. Il fiato si accorciava e i secondi si allungavano, e pensò che un po’ d’acqua in testa fosse il modo migliore per riprendersi. Si sporse fuori dall’androne, approfittandone per girare la testa e sperare di vedere le luci del bus. La pioggia gli batté forte sui capelli, talmente forte che nonostante fossero foltissimi sentì il cuoio immediatamente fradicio. L’acqua scese veloce su tutto il volto. Era stata una pessima idea.
Si ritirò imprecando nell’androne e mentre si asciugava gli occhi sfregandoci le braccia sopra, sentì una mano toccargli la spalla.
Sobbalzò.
E poi, dopo un secondo, sobbalzò di nuovo.

Aveva riempito i polmoni.
Aveva preso tutta l’aria possibile nella bocca e l’aveva tirata via dalle narici come un condizionatore.
Aveva riempito i polmoni.

– Tào! Sei poi passato da quella parte, quel giorno?

Un nuovo respiro profondo.
La sua voce sembrava premergli gentilmente la cassa toracica per aiutarlo a tirare fuori tutti quei mezzi respiri che per anni lo gli avevano riempito il corpo.

Era davanti a lei, ai suoi occhi verdi, ai suoi capelli-carta-regalo.
Era davanti a lei, chiusa in un cappotto rosso pastello e un paio di anfibi blu, un goccia di pioggia ferma sotto la punta del naso che raccoglieva tutte le luci dei lampioni intorno.
Lui sorrise come mai prima, le narici piene del suo profumo, respiri così forti da avere quasi un sapore.

– Per tornare al discorso. Piacere, Aria.

Lui voleva ridere, voleva abbracciarla e ringraziarla, ma non fece in tempo a realizzare che la vita a volte è proprio strana che la società dei trasporti cittadina lo portò di nuovo sulla terra.
Il bus stava chiudendo le porte. Lei, girata di spalle, non capì il perché del suo scatto. Lui corse per qualche metro e inchiodò. Le sneakers consumate slittarono un po’ sul marciapiede bagnato ma riuscì a mantenere l’equilibrio. Si piegò poggiando le mani sulle ginocchia e respirò di nuovo, forte, mentre la pioggia gli scorreva sulle tempie, sugli occhi, sulla bocca.
Si girò e la vide ancora lì, di nuovo lontana, di nuovo con un’espressione di quel sorriso al contrario sul volto.
Lui tese la mano davanti a sé, il palmo rivolto in alto dove si formò subito una piccola pozza.
Arricciò un po’ le dita, mentre le diceva sorridendo:

– Beh? Non corri per prendere il bus?

Uno Con Due Spalle Così

“Io, in vita mia, ho avuto la possibilità di stare con delle ragazze.
Lo so, lo so.
Sounds incredible.
Comunque non tante eh, rispetto ai racconti degli amici dai quindici anni in poi, che è tutto uno scopare e dimenticarsene.
Quando mai.
Però ecco, nonostante non sia un adone pare almeno io sia simpatico, e questo si dice porti a metà dell’opera. Solo che non suono in un orchestra e quindi ‘sta seconda parte dell’opera mi torna spesso difficile. La maggior parte delle volte son state loro a fare un primo passo, almeno per farmi capire che se si erano appena tolte il reggiseno da sotto la canottiera, non era perché faceva caldo (true story!).

Ma si sa, certe cose o le impari o non saprai mai come fare in alcune situazioni.
O meglio, lo sai pure, però poi ti scatta un turbinio di pensieri e dubbi e paura del rifiuto o della denuncia e quindi non ci provi mai.
E così, più o meno, da sempre.

Poi va beh, cresci e fai cose e conosci gente e piano piano ti ritrovi a 35 anni single e con delle domande. Che uno li chiamerebbe complessi ma, di nuovo, non suonando strumenti non mi piace catalogare ‘ste cose in ‘sto modo pesante. Però ecco, uno ce pensa a certe cose.
Mi spiego meglio.

Nella fascia d’età 12 – 18, giocando a basket e avendo ancora un po’ di massa muscolare prima di trasformarmi in Christian Bale ne L’uomo senza Sonno (ma ovviamente meno fregno), stavi fisicamente messo bene. Di nuovo, non ero un adone, per la maggior parte del tempo le pischelle erano già viste come amiche e quindi pure l’altroieri si scopava ieri.
Però ho mantenuto un fisico asciutto ma con una forma decente per qualche anno.
Poi il lento declino della terza età che arriva a vent’anni, tra uffici, sedie scomode, voglia di vivere pari a quella di Monicelli in ospedale, poco sesso discreta droga e rock’n’roll mi ha portato ad avere un fisico diverso.

Qui la premessa però devo fartela: a me, di avere il fisico o un po’ di muscoli o cose del genere, non me n’è mai fregato un cazzo, sia chiaro. Ho sempre accettato il mio corpo, ci ho lavorato sicuramente poco ma non posso dire di star peggio di tanta altra gente. Diciamo che mi è sempre andato bene così e non ho mai sentito la pressione di doverlo scolpire. Non ho manco mai passato più di cinque minuti allo specchio in vita mia. Prendere o lasciare insomma.
Poi è successo qualcosa.

In tutti ‘sti mesi pesanti come un post di Fusaro, ho cominciato a guardarmi con occhi diversi. Tra tutti i vari pensieri che rimbalzano nel mio cranio enorme, alcuni tornano veloci e taglienti. Anni di battutine sulle mie spalle, sulla panzetta, sul fatto che stavo gobbo. Ammiccamenti a uomini con schiene più dritte, culi più sodi, barbe più folte. Sia chiaro eh, anche io ci scherzo e anzi, spesso mi son ritrovato a invidiare genuinamente uomini più attraenti di me. O forse è solo la mia latente omosessualità, ma pure qui è un’altra storia.

Fatto sta che ogni tanto riaffora una frecciatina, una battuta, e tutto finisce nei miei occhi quando mi guardo allo specchio. E lo schema è simile ogni volta: appena mi guardo in faccia mi dico che alla fine, così brutto non sono. Poi scendo, e subito le spalle mi rimettono coi piedi per terra. Le tiro su, comincio a ripetermi che anche solo stare così potrebbe aiutarmi ma dopo dodici secondi sono di nuovo Quasimodo che suona le campane a morte.
Arrivo alla zona panza e lì la cosa si fa strana.
C’ho i fianchetti, sempre avuti e giustificati con il termine maniglie dell’amore anche se, a memoria, non è che ci si sia aggrappata poi tanta gente. C’è quel sottile strato di grassetto sulla vita, e la cosa strana è che ci son giorni in cui mi dico che ci sta, e altri in cui mi sembra di non riuscire manco a vedermi l’uccello.
E poi il gran finale: un culo più assente di me quando andavo al liceo.

Ora, io lo so che sta roba è personale, però penso pure che vada condivisa perché in un periodo di movimenti per la parità, il confronto, l’eguaglianza tra uomini e donne ci si scorda spesso che se da una parte le donne han passato gli ultimi millemila secoli a doversi sentire in costante gara col resto del mondo, negli ultimi anni molti uomini tipo me, che sbagliano tanto ma cercano sempre di correggersi, che non sono nati imparati, che provano a stare sul pezzo di tutto quello che succede nel mondo in questi ambiti, hanno difficoltà a rapportarsi sotto questo aspetto.
Ci sentiamo fuori luogo, fuori tempo, inferiori rispetto a chi fa del suo corpo un piccole tempio. Non è un pianto, il mio, non è una critica, non è la speranza di sentirmi dire

– Ma che dici dai, sei bellissimo!

(grazie Matre)

Questo non è nulla se non un pensiero grosso come il culo che non ho e che mi pesa molto in questo periodo.

So bene, benissimo che tutto è dovuto a quello che è successo negli ultimi mesi, alla rabbia, alle delusioni, e che verrà il momento in cui nella testa scatterà qualcosa e mi ritroverò di nuovo ad apprezzarmi per come sono.

Simpatico.”

Lisbona – Parte Quinta – Piccolo, Spazio, Pubblicità

Incappo in questo post che prende come scusa le canzoni uscite 20 anni fa per riassumere un po’ quello che successe nel 1998, e rimango affascinato dal fatto che, oh, sto invecchiando.
Ma proprio affascinato.
Solo per un attimo penso che, cazzo, venti anni son tanti e se tutto va bene altri quaranta e via a guardare i fiori dalla parte delle radici, “dimentichi del mondo, dal mondo dimenticati” [semicit. che se me la prendete vvb].

Ma poi ricordo mia madre che mi porta al cinema a vedere The Truman Show e due file dietro c’era un mio compagno delle medie che quando Jim Carrey sbatte i pugni sul muro di cielo in lacrime fa alla madre

“Perché piange?”

dandomi la conferma del coglione che era e che sempre rimase.

Ricordo sempre mia madre, verso la quale mi giro durante Salvate il Soldato Ryan, dopo che il nazista infila una lama intera nel cuore di uno di loro e subito dopo risparmia il porta munizioni terrorizzato. La guardo e con un volume di voce fin troppo alto le dico

“Ammazza oh, un nazista buono!”

rischiando di fare la figura del coglione di cui sopra, ma sapendo di essere semplicemente sotto shock per quello che stavo vedendo: ancora ora quel film mi mette incredibilmente a disagio, se pure non riesca a staccargli gli occhi di dosso.

Ricordo Matrix come uno dei primi film visti da solo con gli amici, al Cinema Reale di Trastevere e sì, ricordo pure che sul viale una volta usciti son stato un’ora a fare

“Swiiisssshhhh! Fiiiiiiii! Conosco il Kunf Fu!”

schivando proiettili e provando a saltare sui muri.

Ricordo che quando Sinatra morì ero a casa del mio migliore amico, e dalla madre sentii per la prima volta il soprannome, “The Voice”, perché lei disse

“Si è spento The Voice.”

e ripensare a questa scena, io e lei da soli in cucina, dopo pranzo, mi fa immaginare per una delle poche volte in vita mia un paradiso, quello classico solo cielo e nuvole, con un palco bianco e soffice dove Sinatra canta “Come Fly with Me” e il pubblico è formato solo da lei.

E la morte di Battisti invece mi fa pensare alla mia, di madre, quando la chiamo perché avevo appena saputo la notizia e la immaginavo devastata: mentre il segnale di linea libera andava mi passavano davanti i viaggi in macchina con Lucio che gridava “e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte” e mamma faceva la finta pazza al volante e ci scherzavamo un sacco su, su quanto fosse ironico sentire quei versi in automobile, e il tutto si riassumeva con io che le dicevo

“Ah Mà, e famme grattà!”.

Mi ricordo sul muro dietro la porta di camera mia il poster verticale di Michael Jordan fotografato da dietro, a mezz’aria, mentre sgancia il suo ultimo tiro della sua carriera con i Bulls, ovviamente contro Utah, uno di quei duelli da far diventare bianchi tutti i giocatori di Cleveland e Golden State.
Il timer sul tabellone fermo sei secondi e sei decimi, la palla appena rilasciata dalle mani, il pubblico dietro il canestro che già sa: il ragazzo con le mani nei capelli, la donna con un’espressione di rabbia e stupore, il tipo seduto immobile, impassibile, morto dentro (sì, si giocava a Salt Lake City) (e poi va beh, ode a Jordan e a quel tiro e alla sua carriera e alla sua persona IO LO AMO ma dopo quei 6.6 secondi Stockton ebbe il tiro della vittoria e ci andò così vicino che fosse entrata sarebbe cambiata la storia del mondo così come la conosciamo).

E poi la musica.
Mettere su MTV e stare ore a vedere videoclip su videoclip, aspettando quello che mi piaceva di più, perdendo tempo quando passavano quelli che mi facevano cacare. Videoclip col volume sparato se nel frattempo mi scappava la cacca, videoclip con appena due tacche verdi se stavo in camera ed era tardi e non volevo farmi beccare.
E le pippe sulle Spice Girls, Alexia, Anouk (madonna Anouk quanto mi ha cambiato i connotati ormonali). Tutto era ancora confuso e sfocato, le t.A.T.u. non avevano ancora portato la loro calda corrente lesbo dalla fredda Russia, e tutto quello che vedevo erano tette.

Mi ricordo la sigla di Fifa ’98 con i Chumbawamba che “parlavano a vanvera” e il galletto francese mascotte dei Mondiali che sgambettava un pallone in giro per i posti simbolo del paese. I demo dei giochi comparti con le riviste in edicola, le sessioni frenetiche con mouse e tastiera cercando di ammazzare quei poveracci di nazisti in Commandos, (“hai capito qual è il vero eroe di questi giochi qui? Da una parte ci sei tu, che appena ti sparano puoi recuperare subito i punti vita, e dall’altra questi poveracci che sono pure dei nazisti, però sta di fatto che è gente senza alternativa!”, altra cit. che vvb se), Abe Exoddus e la grazia di essere un gioco bellissimo e con un sacco di significati. E poi perché c’erano le chicche tipo lui che ruttava e scorreggiava.
Mamma, sempre lei, che dopo aver fatto la spesa al supermercato sulla Pisana mi comprava un gioco pirata per la Playstation, comprata e modificata nello stesso momento con i miei soldi, paghette su paghette messe da parte per un sacco di tempo. Ricordo ancora che insieme mi diedero due giochi per provarla: uno di macchine e una specie di Resident Evil. Facevano cacare.
Poi va beh, un giorno comprai i due cd che componevano Metal Gear Solid: il trucco di spostare il joypad sul giocatore due per impedire a Psycho Mantis di copiare le tue mosse, la morte ululata, straziante di Sniper Wolf, la rottura della quarta parete quando le istruzioni su cosa fare venivano da normali conversazioni nel gioco

– Ehi Snake.
– Dimmi Otacon.
– Mi raccomando, non farti notare quando entri nel capannone.
– Ok.
– Devi essere silenzioso nei movimenti, trattenere il respiro ed evitare di lasciare impronte sulla neve.
– Ok Otacon. Ma come cazzo faccio?
– Premi di seguito L1, L2, Cerchio, Triangolo, Quadrato, Quadrato, Quadrato, Ics, Quadrato, Quadrato, L1, Ics.
– Aspè ripeti che me lo segno. Otacon? OTACON?

Alla fine, se mi è venuta in mente tutta ‘sta roba da un elenco di cose successe nel 1998, le cose sono due: che ancora mi ricordo le cose e che quell’anno, considerando quello che ho scritto, è stato una sorta di punto di rottura. Forse è lì, in quei mesi, che ho cominciato a farmi un’idea, a capire di essere un qualcosa con i suoi pensieri, i suoi gusti, i suoi giudizi e i suoi pregiudizi. Credo sia in quel periodo che ho cominciato e mettere il naso, la curiosità vera e propria fuori di casa, annusando il mondo e cercando di capirne gli odori, che ancora oggi non distinguo e che so non riuscirò mai completamente.

Forse è nei miei tredici anni, che ho cominciato a diventare adolescente.

E la cosa fica è che non ho mai smesso.

La Dieta Denigrante

dieta

– Benvenuti da Dove Puoi, dove puoi mangiare il tuo panino scegliendo dal tipo di pane, fino al tovagliolo con cui lo serviamo. Chiedi, e ti sarà dato da mangiare!

– Salve, buongiorno. Bello il nome del posto! Certo, l’acronimo non è dei migliori, di questi tempi, ma

– DP? E perché mai?

– Niente. Cose mie. Senta

– Mi dica pure!

– Avete panini senza

Lattosio? Ma certo. Abbiamo questo pane fatto esclusivamente con farina di grano duro, acqua e sale.

– Ah, ok. Che io sappia -ma non sono del mestiere eh- il pane normale si fa proprio così. Farina, sale e acqua. Magari pure il lievito, se si va di fretta, ecco. Ma nulla più.

– Esatto! Senza lievito! La parola inizia con la elle, la stessa del latte. Quindi lo escludiamo per evitare contaminazione.

– Mi scusi?

– Beh qui siamo molto attenti alla contaminazione, quindi dividiamo gli ingredienti per lettera chiudendoli in micro stanze depressurizzate, con climatizzazione controllata e filtro antiumidità realizzato dalla NASA, evitando così che vengano a contatto nel caso ci venga chiesto un panino senza un particolare ingrediente. Capisco che sembra strano, ma abbiamo appositamente seguito un corso a riguardo, tenuto di un monaco tibetano che ha una casa sulle Ande ma con sede a Zurigo.

– Mi fa, come dire, molto piacere vedere questo impegno. Ma non è il lattosio che vorrei evitare, bensì

– Le uova? Beh ma non c’è problema! Abbiamo un pane che, se lo lasci dire, è proprio speciale! Fatto senza uova!

– Ma

– Però c’è il latte, magari le da fastidio!

– No guardi, io volevo sapere se avete del pane senza

– Aspetti. Ho capito. Lei vuole un pane fatto senza Cardamomo. Lo dovevo capire dalla sua faccia, dalla sua postura, che non è un amante del Cardamomo. Ho seguito un corso tenuto da un nano sordo su un jet privato costantemente in volo, che ci ha spiegato come capire i gusti alimentari delle persone dalle espressioni del viso e da come si muovono.

– Come «Lie to Me», ma col cibo?
– «Lài tu mì»? Non conosco.

– La cosa mi sorprende ben poco. Comunque. Io vorrei capire se avete un panino, un qualunque panino, ma che sia

– Ah beh ma se il pane allora non è un problema, le assicuro, dentro può NON metterci quello che vuole!

– No, veramente, io volevo mangiare sì un panino, ma che sia totalmente senza

– Carne? Ma scherziamo! Abbiamo panini per tutti i tipi di vegetariani e vegani. Panini con la cicoria raccolta da mia nonna la Domenica mattina presto, panini imbottiti di erba di prato pubblico ma anche privato, che costa dieci euro di più. Ma non è finita qui! Abbiamo panini senza pane ma con zucchine crude, panini con pane alle zucchine cotto imbottito di pane crudo, panini alle melanzane biologiche dei Monti Tiburtini e, specialità delle specialità, panino 50 Special dei Colli Bolognesi.

– E, scusi, cosa ci sarebbe nel 50 Spec

– Insalata Cesare e Crema Nini! AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!

-No guardi, lasciamo perd

– Ma scherzavo eh! L’insalata Cesare ha le uova dentro.

– Va beh, senta, io

– Ma aspetti! Non è finita qui, per chi non mangia carne come conseguenza di una sua libera scelta che però poi azzera il possibile mercato di quelli che hanno reali intolleranze alimentari ma ai quali viene data pochissima attenzione nonostante siano disposti a spendere per qualcosa che non hanno! Abbiamo un panino verde, con dentro ogni tipo di verdura biologica, servita su un vassoio di alghe fritte e tovaglioli di Setan, un nuovo tessuto costosissimo fatto di seitan preparato da enormi donne peruviane che hanno però mani piccole e delicate allenate appositamente per questo. Difficile rfiutare eh?

– Senta, io vorrei solo un panino senza glutine.

– Ah. Beh. Ecco. Questo non è possibile. Sa, la contaminazione. Poi comunque non è proprio facile facile, trovare le materie prime. Sa, farina di riso. Maizena. Lievito senza glutine. Poi dipende da che grado di celiachia ha, quanto glutine può assumere prima di sentirsi male. Ci diventa tutto troppo complicato, ecco.

– Ma, mi scusi eh, e tutte le camere senza pressione, la NASA, i Monti Tiburtini?

– Beh ma questi sono i nostri fornitori. È il mercato. Dove c’è domanda, c’è offerta.

– A me viene solo un’unica, grande domanda. Ma voi che aprite ‘sti posti ci fate, o ci siete?

– Ci facciamo.

– Almeno lei è onesto.

– E trasparente!

– Scusi?

– Niente. Cose mie.

Berlino

foto di Lei.
foto di Lei.

Berlino è nelle bottiglie stipate nelle buste del Kaiser’s, in mano ai senzatetto che ti sorridono gentili quando gli porgi una Berliner appena finita.

Berlino è in quella pozza perenne sotto al cartello «You are now entering» del checkpoint Charlie, che nessuno la nota ma fa u gran bell’effetto specchio per una foto al segnale.

Berlino è nella striscia di mattonelle che segna il passaggio del muro, e che quando ci fai caso non puoi non pensare al fatto che ti puoi permettere di fare «Alba! Tramonto!» come Homer da Ovest a Est, mentre nemmeno 30 anni fa ti sparavano sulla schiena.

Berlino è nel parquet scricchiolante degli appartamenti, coi pavimenti storti e le tazze del cesso col rialzo, così che tu possa vedere la tua cacca ancora calda.

Berlino è nell’odore quasi perenne di Turchia, fatto di felafel fritti al momento e kebab in scatola mai così buoni.

Berlino è nella torre della TV, che ancora più della Tour Eiffel ti ricorda dove sei, dove puoi andare, ma soprattutto da dove vieni.

Berlino è nella maniacale simmetria di Karl-Mark-Straße, un continuo specchio che non accetta difetti o imperfezioni, un tunnel architettonico dove la fine sembra non arrivare mai.

Berlino è nelle scritte sui muri, negli adesivi strappati, nell’onnipresente flyer del museo dei Ramones, nelle transenne di plastica bianca dei baustelle e nelle gru che incrociano le punte e fanno il cielo a quadri.

Berlino è nei caffè lunghi dei chioschetti, con le vetrine colme di fette di torta piene di glassa e brezel grossi come vinili.

Berlino è nei palazzi signorili abbandonati e riqualificati da decine di ragazzi che ci organizzano i concerti punk zozzi e puzzolenti, dove ti ritrovi a pogare sulle note di «Territorial Pissing» con due lesbiche piene di rasta e sudore.

Berlino è ovunque a Berlino, e in nessuna parte.

Berlino è mondo, e nel mondo ci si trova sempre bene.