Uomini E Topa

Le basi.
Le basi.

Che uomini e donne siano differenti, lo si dovrebbe capire da una semplice cosa: il corpo.

Noi, pene.

Loro, vagina.

E tette, of course.

Da qui tutti i trattati di antropologia, psicologia, tutti i discorsi fatti con gli amici su lui che è uno stronzo e lei una troia PUF! spariti. In un attimo.

In questi giorni mi ritrovo invorticato in un paio di storie altrui che a vederle da fuori non puoi che trarre una sola conclusione: noi uomini siamo dei coglioni.
Il nostro grande problema è che nel momento in cui una qualsiasi pischella in un qualunque momento ci fa annusare il contenuto delle sue mutandine prese in 3×2 da Yamamay, è come se la parte razionale del nostro cervello prendesse la valigia, ci schiaffasse dentro il minimo indispensabile per star via un po’ di tempo e sbattesse la porta al grido di “ma tanto già lo sapevi/che ritorno da te/senza niente da dire”.

E rimaniamo soli, con un pezzo di cervello in meno ed un’erezione potentissima che dura per qualche giorno.
Lo infiliamo ovunque, come forsennati, come se temessimo un’evirazione obbligatoria che da lì ad ore porterebbe tutti gli uomini a guardare il proprio pene galleggiare in un barattolo sotto salamoia.
Quelle nuove tette sono diverse, un nuovo campo da esplorare, per non parlare del triangolo che sì, l’avevamo considerato eccome.
Si scopa, si fan promesse, si vola sul tappeto arcobaleno del “vienimi in faccia ogni volta che vuoi”.

Poi dopo qualche tempo sentiamo bussare.
Alla porta non c’è nessuno.
Di nuovo due colpi.
Poggiamo l’orecchio, ma nulla.
Alla terza volta capisci che non viene da fuori, ma da dentro la tua testa.
E non perché tu stia impazzendo.

È il tuo cervello che chiede di tornare, che ti vede in difficoltà e vuole dare una mano.
Solo che il cervello non è come quell’amico che dice “va beh, hai fatto la stronzata ma è ok dai, te vojo bene lo stesso”.
Eh no.
Lui torna, magari te lo dice pure che ti vuole bene, solo che durante la sua assenza ha collezionato una bella serie di cose: ricordi, rimorsi e sensi di colpa.
E non vede l’ora di farti vedere le diapositive.

“Vedi, uomo, questo sei tu con Lei.. ti ricordi? qui era quando avevate litigato male ma poi vi siete ubriacati e vi siete ammucchiati così bene sul letto che lei quasi lo voleva al culo ma poi no.. ecco sì, lo stesso culo che adesso è traforato da qualcun altro..
CLACK
qui sei sempre tu, però quando ti sei chiuso a riccio e non volevi risponderle, e da lì è stata solo distruzione, morte e sangue..
CLACK
ah beh, questa è la mia preferita! dai che te lo ricordi anche tu.. quando vi stavate promettendo amore eterno, la casa, i bambini.. e poi lei il giorno dopo ti vomitava veleno addosso per cose vecchissime, e tu invece di ascoltare ti incazzavi e la trattavi malissimo.. adoro questo momento.”

CLACK

Ecco il tuo cervello: ore di foto ormai strappate e momenti che non torneranno e frasi che era meglio farsicazzipropri.

Tutto questo, però, è amplificato nel momento in cui quella nuova valle di piaceri l’hai esplorata mentre eri uscito da casa vecchia. Tradotto: è peggio se le hai messo le corna, o se comunque l’hai lasciata per la nuova.

Perché è lì che le sfumature scompaiono e si taglia tutto con l’accetta. Quel poco di cervello rimasto, quello che non è andato in ferie perché tanto non lavora mai, non filtra più i pensieri e comincia a farti cacare dalla bocca le prime stronzate che gli vengono: voglio stare da solo, non sei tu sono io, è un periodo in cui non posso concentrarmi su troppe cose, mi dispiace.

Ora, non so se vale anche per le donne -non ho termini di paragone a riguardo in quanto le mie storie son sempre finite in tragedia- ma attivamente ci sono passato, a dire certe puttanate. Ed era sempre perché insieme al mio cervello, in ferie c’erano andati anche i miei coglioni, e quindi dire “oh guarda mi scopo/vorrei scoparmi un’altra” sarebbe stata, col senno di poi, un’uscita di scena dignitosa.
Di sicuro avrebbe evitato lunghe scie di cuori morti, o feriti male.
Certamente, avrebbe evitato lunghe ore di diapositive dei ricordi, mostrate da un paziente cervello e due palle litigiose.

Ci sono cresciuto, tanto e bene, in mezzo alle donne. Da mia nonna in giù, dalle mie migliori amiche passando per l’amica degli amici che becchi una sola volta.
Siete diverse, sì.
Perché avete quella marcia in più che viaggiare di pari passo con voi, anche se capita così raramente, è un piacere che vale la fatica del viaggio.
È quando ci ritroviamo ad inseguirvi, che ci stanchiamo subito.

Il nostro problema, tutto maschile, è che ce ne accorgiamo dopo, di questa bellezza.
Ci ricordiamo dei panorami visti insieme correndo di pari passo con voi solo dopo che ci ritroviamo fermi.
Immobili.
Soli.

Starvi dietro è impossibile, generalmente.
Siete pazze, imprevedibili, gelose senza motivo -non sempre-, quel cazzo di ciclo fa più morti dell’autore di Game Of Thrones, a volte spiegarvi una semplice cosa diventa più difficile che insegnare ai pinguini a volare ma cazzo, se siamo ancora qui a scrivere/leggere di quanto siam diversi (e ripeto: pene – vagina/tette, vincete già solo per numero di attributi) vuole dire che ne varrete la pena.
Sempre.

E quindi, in conclusione finale ultima, mi auguro che chi in cuor suo si sia sentito colpito, sfiorato o comunque gli siano fischiate le orecchie capisca che a volte fermarsi, guardarsi in faccia ed ammettere di aver fatto del male a chi prima si diceva di amare può servire a molti.
È una cosa terribile, solo a pensarci.

Realizzare di averlo fatto è peggio, ma poterlo ammettere a se stessi ed alla diretta interessata almeno è liberatorio.

Credetemi.

Metropatia

“Abbonamento Sindaco” ti permette di non pagare la metro, tanto non ti serve.

Non avere la patente, ormai, sembra un sacrilegio.
Non averla a a quasi trent’anni, poi, è visto come un chiaro esempio di deficit dell’attenzione sociale.
Non averla a trent’anni ed abitare a Roma.. beh, quando lo dico faccio scappare più gente che se dicessi “ho la rabbia” o “ho votato Alemanno”, due cose che a spesso sembrano strettamente correlate, tra l’altro.

Lascio da parte i motivi personali che mi hanno portato (volente e nolente) a questa scelta, e passo subito a come questo può essere motivo di orgoglio, pregiudizio e parecchi ritardi ad appuntamenti. Vi racconterò come è la giornata di un romano a Roma sui mezzi pubblici, cercando anche di darvi qualche consiglio per quando deciderete, almeno per un giorno, di levare il culo dal sedile della vostra macchina.

Autista Romano, Saluto Romano.

Prima di tutto, prevedere.
Abitando in quella zona da acque internazionali, quel limbo tra Roma e Fiumicino che sarà per sempre comunque “fuori Roma”, sapere dove andare e a che ora è, come per tutti, fondamentale. Per me un po’ di più. Se devo andare al centro, so che ho due alternative: treno (che per raggiungere devo comunque prendere un autobus) o solo autobus.
Nel primo caso, scelta che prediligo e che prevede l’uso di entrambi i mezzi (e quindi il doppio dei problemi), devo prevedere l’auto che mi porterà alla stazione. E qui cominciano già le prima consultazioni all’oracolo di Delfi. E si, perché bisogna partire dal presupposto che per quanto tu possa consultare gli orari sul sito dell’Atac (che a volte sembrano avere quasi un senso) o già sia avvezzo agli orari giorno per giorno, devi considerare che l’Autista Romano, o che comunque opera su Roma, è una specie animale a sé. È talmente sensibile, l’Autista Romano, che il suo lavoro può essere condizionato da qualunque sfumatura ambientale e sociale: magari prima di partire dal capolinea, ha bisogno di riflettere sulla vita preparando il Fantacalcio sul suo iPad, o di stare al telefono con la moglie per essere aggiornato sugli ultimi risvolti (di interesse nazionale) della diatriba condominiale in corso. O magari vuole solo aspettare che il sole salga un altro po’ ché poi sulla Pisana sbatte proprio contro gli occhi.
Insomma, le variabili sono molte ma soprattutto (in modo tanto paradossale quanto lo è l’Autista stesso) costanti. Ed ogni giorno è una nuova avventura.

Dopo aver imparato a memoria modelli di camion, autocisterne e teste di cazzo al volante, salire sull’auto e perdere l’udito a causa del mix buche in strada e viti lente che permettono ad ogni singolo componente del mezzo di sbattere contro tutti gli altri creando così il nuovo singolo di Skrillex feat. Giovanni Allevi sotto ketamina, è sempre un piacere.
Arrivato alla stazione, parte la seconda serie di consultazioni all’oracolo, questa volta di Matrix. Qui entra in gioco infatti uno schema, un sistema per il quale il treno regionale che parte da Fiumicino Aeroporto e diretto principalmente ad Orte è sempre in ritardo.
Sempre.
Vuoi l’arrivo di un altro treno, vuoi l’ennesimo suicidio sui binari (e di questi tempi è più facile che qualcuno s’ammazzi piuttosto che piova), vuoi che gli orari probabilmente li ha preparati Topo Gigio mentre organizzava la campagna contro l’influenza A ed insegnava a Giacomo a nascondere la pistola, vuoi che magari quel giorno i pianeti sono allineati proprio male: il treno, anche se di soli due minuti, sarà in ritardo.
È così preciso, questo schema, che la simpatica signora di colore che insegnava a Neo l’arte della ribellione ha smesso di fumare e si è data alla vendita di gioielli fatti in casa.

Cose che capitano.

La fase successiva al prevedere (detta anche “di speranza”), è quella del sopportare.
Prima di tutto sopportare il fatto che il biglietto che avete timbrato prima di salire, ligi al vostro dovere di sentirvi migliori, passerà sicuramente per le mani di qualcuno che ci farà un filtro, ma non per quelle di un controllore. L’ultima volta che ho visto un controllore, compravo ancora l’abbonamento studenti.
Poi dovete sopportare il fatto che vi sembrerà di essere nella foresta Vietnamita ad Agosto quando è Gennaio ed un pezzetto di ghiaccio tritato in un Mojito quando in realtà è piena estate.
Sopportate infine il fatto di tenervi dall’avere qualunque stimolo fisiologico. Dio non voglia che la vostra vescica o il vostro sfintere decidano di attivarsi, perché i bagni di un treno regionale sono puliti come il set di un fil porno a fine riprese. Da quando sono andato una volta in uno di quei bagni mi illumino al buio e depongo uova di coccodrillo.
Insomma, per sopravvivere ad un viaggio in treno bisogna: risparmiare un euro di biglietto, vestirsi a cipolla ed espletare tutti i bisogni prima di iniziare il viaggio. Più tutta una serie di altri accorgimenti che solo l’esperienza, l’istinto ed un buon vaccino possono permettervi di sopravvivere per poterlo raccontare.

Ghostbusters.

Poi c’è la fase dell’adattamento.
Ogni giorno è diverso, e principalmente a causa della non puntualità. Perché degli scioperi non parlo, quella è la normalità, e lasciamo stare le condizioni climatiche e gli incendi.
Non puntualità che causa coincidenze mancate, imprevisti che portano a ritardi e sovraffollamenti. A volte, sul treno come sulla metro, ho visto così tanta gente che credevo di essere sul set di un film sulle deportazioni: gente innocente su mezzi stretti e maleodoranti, destinata a luoghi di tortura e supplizio, trasportata da gente burbera e in divisa.
Cambiare metro a Termini alle nove di mattina è una guerra in cui i soldati sono stati mandati senza avviso, armati di iPod e borse, con le facce stanche e spaventate. Ho avuto la fortuna di incontrare alcuni dei sopravvissuti ai cambi metro la mattina, ed in alcuni di loro ho potuto riscontrare gli stessi sintomi dello stress post traumatico dei reduci dei conflitti. Gente che ha assistito a stragi di così enormi proporzioni che quelle italiane in confronto sono come i film gialli del Sabato sera di Rai2 anni fa quando ancora non esistevano quelle del Sabato sera.
L’adattamento è qualcosa che non si spiega, non si tramanda. È quello che ci ha restituito pochi eroi e troppi cadaveri. Senza spirito d’iniziativa di fronte agli imprevisti, senza una visione chiara dell’ambiente che ci circonda, senza un piano B, una giornata sui mezzi pubblici a Roma può essere un gioco al massacro. Probabilmente porrebbe fine alla carriera di Bear Grylls, se decidesse di farci una puntata.

C’è una piccola fase intermedia, la più breve ma sicuramente la più gloriosa: l’arrivo. Uscire dalle scale della metro, scendere sulla banchina della stazione o saltare lo scalino dell’autobus è un momento bello. Sò soddisfazioni.
Sapere di essere arrivato, o anche di dover camminare un po’ ma di non dover più prendere un mezzo pubblico, è una sensazione di vittoria, come l’odore del Napalm.

Poi però arriva la fase finale, quella conclusiva e che spazza via ogni gloria che potete aver conquistato durante il giorno, il momento che chiude i giochi e vi fa tornare sulla terra: il ritorno a casa.
Tornare da dove siete arrivati con tanta fatica è come tagliarvi via un pezzetto del vostro corpo.
I mezzi sono più sporchi e puzzolenti del solito, spesso vuoti da far paura a Breivik, altre volte più pieni della mattina. Le stazioni sono angoli dimenticati da dio, gli autisti automi indifferenti alla razza umana, le fermate dell’autobus diventati circoli per i raduni della micro criminalità.
Non fai più caso ad orari ed impegni, vuoi solo girare le chiavi nella toppa e rimanere fermo da qualche parte, senza pannelli che sbattono, vecchi che strepitano, ragazzini idioti e rumorosi, esemplari di Autista Romano che emettono suoni e agitano gesti.

Per questo, va bene tutto, viva chi si muove per le città in modo alternativo, pollice su per chi crede #SalvareCiclisti ma.. pensare pure #SalvarePendolari?

Intervista Ai “Bud Spencer Blues Explosion”

Just Blues.

Quando io e Emiliano (da qui in poi Paja) arriviamo davanti l’Orion siamo in anticipo di cinque minuti. Mai successo, e credo che non succederà mai più, nemmeno per i nostri matrimoni. Se mai ci saranno.
Appena parcheggiamo, esce un sole che non si vedeva da giorni e giorni. È un segno.

Non nego di essere nervoso. E pure tanto.

Aspetto il concerto dei Bud Spencer Blues Explosion da almeno due mesi, da quando sotto la metro di Ostiense l’occhio si è lanciato sul manifesto dell’Orion.
Ma più che altro, lo aspetto da quando così, per scherzo ma nemmeno poi tanto, gli mandai un messaggio su Facebook.

“Ciao, sono un blogger che non ha nulla se non un sito personale. Sono un vostro fan e vorrei intervistarvi, anzi chiacchierare. Non pensate che sia scemo!!”

In sintesi, questo è stato il messaggio a cui non mi aspettavo risposta.
Ma non per loro cattiveria, anzi: la loro tranquillità e voglia di stare in mezzo a chi li ascolta è palese ad ogni live. E due pischelli che in tre anni sono stati due volte in America per tour e blues contest, che hanno girato l’Italia più loro che Gigi Bersani in campagna elettorale (riscuotendo per altro molto, ma molto più successo), e che fanno un pieno di gente ogni volta.. beh, io forse me la tirerei un po’ di più.
E invece passano pochi giorni che:

“Ciao Jacopo.. perché no? Cesare.”

Morto.

Da lì è iniziata un’attesa spasmodica, in cui ogni momento era buono per tirare fuori un taccuino e buttare giù domande, osservazioni, strappare un ricordo di un’intervista trovata sul Tubo per tirarne fuori qualcosa.
Ho ascoltato mille e mille volte tutti i loro album (di nuovo), ho cercato filmati di live sul palco ed in studio, rimanendo incredulo nel vederli improvvisare in mezzo ad un sentiero accanto ad un bosco, con Adriano, la sua chitarra acustica e l’inseparabile slide e Cesare seduto a terra con solo il rullante tra le gambe, suonato a mani nude, o vederli giovanissimi tenere lezioni di Blues alla Sapienza.
Insomma, ho scoperto che ‘sti due ragazzacci oltre ad essere parecchio bravi, hanno la necessità di suonare. Come, dove e quando possibile: l’importante è suonare.

Mi sono preparato come per un esame, come se le domande dovessero farle loro a me, e il non saper rispondere potesse diventare un divieto a vita di andare ai loro concerti. Non potevo permettermelo.
Il problema è che più passavano i giorni, più erano le domande che cancellavo: troppo semplici, già sentite. Mi dicevo “Con loro ci vorrei parlare, non interrogarli”.
Poi, l’illuminazione: il 21 sarebbe stato, oltre al loro concerto, il Natale di Roma e la giornata mondiale del negozio di dischi. Voi direte, va bene per il secondo, l’input è  buono e coerente. Ma la prima? Cioè, bello il fatto che il “compleanno” di Roma e via dicendo ma.. cazzo c’entra?

Vedrete.

Ma arriviamo al “giorno”. Scesi dal Maggiolone del Paja (che farà poi da sfondo all’intervista di quei bravissimi ragazzi di “Rome Live Music“), aspettiamo qualche minuto fuori. Il sole in faccia è solo una scusa che trovo per aspettare quel respiro profondo che mi serve per prendere borsa, macchinetta fotografica ed una buona dose di coraggio.
È il suono che sento mentre ci avviciniamo a farmi capire che andrà tutto ok. Lo sbalzo tra la luce del sole e il buio del locale mi lascia cieco per un po’, ma non sordo. Ecco lì Cesare a pestare la batteria come fosse giorno di vendemmia, e il vino che ne esce è calma per i miei nervi: siamo qui, finalmente ci siamo, non si scappa. Anche perché tutto voglio fare tranne scappare.

Momenti rari. E no, non sono bravo a fare le foto.

Quella che segue è un’ora e mezza di sound check, prima con Cesare, poi con Adriano e poi insieme, giusto per provare perché chi li conosce sa che la loro è solo una bozza di scaletta.. il resto viene da sé.
È bello vederli in un momento del genere, ma soprattutto è curioso vedere il contrasto tra il metodo chirurgico che applicano nel sistemare e provare gli strumenti, e la furia devastante che scaricano durante lo show.
Sembrano dei costruttori di bellissimi castelli di sabbia che fanno poi esplodere con i fuochi d’artificio.
Il bello distrutto con il superbo.

E alla fine anche questo momento finisce, e odio quando aspetti una cosa che sembra non arrivare mai e poi quando arriva nemmeno te ne accorgi. Tipo il weekend, o un orgasmo. E, scusate la malizia, ma oggi voglio godermelo e fumarmici pure una sigaretta dopo, checcazzo. Quindi occhi aperti e lucido.. anche se solo a metà.

Eccoli che escono dai camerini, e dopo qualche chiacchiera si inizia con i turni delle interviste.Ma c’è un problema: avendo parlato direttamente con Cesare e non con l’ufficio stampa, non sono in lista per le interviste. L’attimo di panico è spazzato via da quel santo di Daniele, nel team tecnico dei Bud oltre ad essere quello che crea e fa rispettare tutti gli ordini di interviste, set e così via. Dopo una chiacchierata, riusciamo a farci mettere in coda (grazie ancora davvero). Conosciamo le ragazze che sono prima di noi per parlare con loro, ci conosciamo un po’ e il fatto che io non scriva per nessuno se non per me le spiazza un po’.
Se ci penso, spiazza ancora anche me.

Adriano e Cesare ogni tanto riemergono da un’intervista, un tramezzino e gli ultimi aggiornamenti sulla situazione palco e salutano tutti, col sorriso e scusandosi sempre per l’attesa.
“Starei qui anche con la III Guerra Mondiale in corso”, e per fortuna lo penso solamente.
E alla fine eccoci lì, in fila coi Bud verso il camerino, che quasi mi viene da ridere.
Ci sistemiamo, io su una sedia e loro sul divano di fronte con il Paja in mezzo.

Ci siamo: i miei emisferi cerebrali si incrociano al posto delle dita perché non mi sembra carino farmi vedere così scaramantico.
Ho Cesare a sinistra, col cappellino e l’atteggiamento di chi vuole chiacchierare. Adriano, la sua chitarra in mano ed il suo sguardo tranquillo completano l’opera e decido di partire.

Accendo il registratore e..

[dopo le presentazioni, iniziano le domande]

J – Allora, volevo farvi un paio di domande allacciandomi al fatto che oggi è il Natale di Roma ed il Record Store Day. Riguardo a Roma, ho visto una vostra intervista in cui parlavate dell’idea di collaborare con il “Colle der Fomento”. Mi interessava sapere come è nata questa idea.

Adriano – Innanzitutto perché il “Colle der Fomento” è un gruppo vero, un gruppo semplice. E allo stesso tempo è un gruppo che dice le cose come stanno e senza sorrisi, e secondo me questa è l’attitudine giusta. E poi siamo orgogliosi che questa sia un’attitudine che esiste a Roma! Poi conservano questo rap degli anni ’90, vecchia scuola, che magari ha meno virtuosismi ma più concetti.. e questa è una cosa bella. Per cui io, da fan, quand’ero ragazzino che me li sentivo, ho sempre pensato che sarebbe stato fico fare un pezzo con loro, però al momento rimane solo un ‘idea.

J – Beh certo, infatti mi interessava il perché l’idea di collaborare insieme. Tu quindi li ascoltavi spesso?

A: Si si, avoja.

J – Per quanto riguarda invece la Giornata del Negozio di Dischi, e l’importanza del disco fisico in sé. Io cerco sempre di comprare il cd, [ruffiano mode on] anche i vostri li ho comprati su disco fisico.. compreso il vinile che se dopo magari me lo autografate.. [ruffiano mode off], voi che rapporto con il disco?

Cesare – Beh non avevo una lira, quindi fondamentalmente scaricavo perché di musica ne avevo bisogno, quindi c’è poco da fare: o te la scarichi, o non la senti. Visto che la musica è una necessità per me, per lui (Adriano, ndJ), per tutti, non solo per i musicisti, appena ho preso qualche soldo non solo con i Bud ma anche con altri lavori, la prima cosa che ho fatto è stato ricomprare i dischi che avevo scaricato, che già avevo sotto forma di mp3, ma di cui volevo riassaporarne il gusto avendo il disco.
Perché non è una mania dire che il suono è differente, è proprio così ed è un’altra cosa ascoltare un disco vero, come è bello ad esempio ascoltare determinati dischi in vinile piuttosto che su CD. Non necessariamente dischi vecchi, ma anche dischi che escono adesso che sono registrati su nastro e non digitalmente, forse rendono anche di più in vinile. Insomma è bello, è una cosa completamente diversa.
Secondo me c’è un calo ora, nello scaricare: sai all’inizio, quando una cosa è gratis, tutti la vogliono. Conoscevo gente che non si era mai cagata la musica in generale però poi aveva le discografie di tutti, mai sentite. Solo perché lo potevano fare gratis. Adesso è un po’ passato quel periodo, ora quando esce il disco ascolto l’anteprima su iTunes e poi li vado a comprare.
E poi il disco è proprio bello, con il libretto..

A – Beh anche il negozio di musica è come una biblioteca: andare lì a cercarti i dischi, a guardarti tutte le copertine.. sono necessità che comunque chi fa musica deve soddisfare. Per cui è un bene che ci sia questa festa.

J – Grandi.. Un’ultima cosa: come primo articolo di questo blog ho parlato degli artisti di strada, visto che mi sono trovato in mezzo ad una loro protesta visto che in quei giorni veniva discussa un’ordinanza, che è passata, e che limita al massimo la possibilità a questi ragazzi di esibirsi per strada..

C – Maddai..

J – Già. Adesso quindi c’è tutta una burocrazia di prenotazioni, il rischio del sequestro di strumenti e di multe.. insomma a classica cosa all’Italiana. E per questa cosa mi è venuta in mente una domanda: voi avete mai suonato per strada?
Mi spiego: mettervi lì voi come Bud, o individualmente, magari agli inizi.. non per forza per i soldi, ma anche solo per il gusto di mettervi lì e suonare, non so, a Trastevere o comunque a Roma in generale.

A – Guarda in realtà no, però certo se c’era una chitarra, una strimpellata sempre a titolo personale si faceva. Per divertimento insomma, senza farlo con l’intenzione di aggregare delle persone.

C – Si anch’io l’ho fatto sempre con gli amici.. [parlando con Adriano] Però con i Bud ti ricordi avevamo pensato di farlo, perché facciamo anche dei set acustici di solito in radio, sempre un po’ strani per le cose che usiamo.. e quindi sarebbe perfetto come set in strada.

J – Si, ho visto molti vostri video in cui suonate con strumenti alternativi.

C – Si, magari con la chitarra acustica e l’ampli a pile, che lo porti ovunque. Sarebbe fica come cosa.. e poi secondo me si alzano pure bei soldi!!

J – Beh si, so di gente che facendo giocoleria al semaforo qualche soldo lo tira fuori.

C – Sicuramente, anche se in Italia molto di meno. Ad esempio a Londra c’è un’organizzazione mostruosa, vai in strada e ci sono praticamente le spine della corrente. C’è molta più dignità. Il fatto di suonare per strada viene visto come una cosa….

A – ‘na poracciata!!

[ci sono un paio di minuti d’interruzione dovuti alle ultime dritte del tecnico a Cesare, con un sacco di risate alla fine. Il bello della diretta!!]

J – Si, per questo vi ho fatto la domanda perché sembra che chiedo se siete andati a fare l’elemosina, invece anche per me è una concezione diversa quella di andare per strada.

C – Ma è normale. Cioè, la musica è San Siro, è Sanremo, X-Factor.. no X-Factor no.. però alla fine la musica è tutto: anche uno che sta a casa e suona la chitarra da solo. C’è chi decide di studiarla tutta la vita e chi invece, non so, ha un’attitudine più punk.. ma non è che uno è più stronzo dell’altro. È un mezzo di comunicazione, ognuno fa quello che vuole.

J – Ok.. beh ragazzi, grazie. Erano domande molto random però.. questo volevo chiedervi.

C – Mi dispiace che avete aspettato un sacco di tempo, ma abbiamo avuto problemi tecnici..

Paja [ve l’eravate dimenticato eh?] – Anzi, c’ha fatto pure piacere!!

J – Capirai, non ce pareva vero. Ci siamo messi lì a sentirvi tutto il tempo. Ragazzi grazie davvero, adesso me faccio firmà il vinile però!!

[gli ultimi due minuti sono chiacchiere sparse, un po’ di info sul live registrato allo Studio Nero, Adriano che strimpella la sua chitarra acustica e ci chiede di dove siamo, oltre a preoccuparsi se avevo preso o meno la maglietta allo studio. E poi, si, ci ha detto “che miti!!”. Tiè.]

Eccoli qui, i Bud. Esattamente come me li aspettavo.
Anzi, fatemelo dire: meglio di come me li sarei aspettati.

Adriano e Cesare sono due ragazzi che suonano perché gli piace suonare. Gli piace sudare sui loro strumenti, sulla loro musica. Amano la musica in generale, e tutto quello che ci gira intorno. Per loro suonare per delle persone è un piacere, un onore.. e si vede.
Se penso che hanno accettato d parlare con me, che alla fine sono uno che i loro concerti e i loro album li ha sempre sentiti da fan, e mai da “operatore del campo”, ancora mi fa ridere. E rido contento, perché sapere che al mondo ci sono persone come loro, persone che solitamente pensi estranee e lontane da te e che invece ti accolgono nel loro camerino per parlare, mi riempie il cuore.

E non smetterò di ringraziarli non solo per il tempo che mi hanno dedicato, ma soprattutto perché quando hanno accettato di farlo ho deciso di aprire questo blog.
Quindi non fosse per loro (e per Veronica per la spinta finale e decisiva), non starei qui a prendere coraggio e a togliermi delle belle soddisfazioni.

Come dite?
Ah, com’è andato il concerto?
C’è bisogno davvero che vi dica com’è andato un concerto dei Bud Spencer Blues Explosion?

Ok, ve lo dico ma a modo mio.

Il fuoco nelle vene.

È stato sudato, urlato, fotografato, potente e graffiante. C’è stata “Giocattoli”, ormai una delle mie preferite in assoluto. Ci sono stati gli sguardi d’intesa fra di loro, i sorrisi di Adriano quando gridavamo “Dajeeeeee!!!!!!!!!!” e ci sono stati i colpi di quel metronomo umano che è Cesare. C’è stata “Dark was the night, cold was the ground”, che rimarrà per sempre la MIA cover preferita dei Bud. Mia e solo mia. Ci sono stati gli abbracci con mio cugino che non vedevo da tempo e che anche dopo anni riesco sempre a far finire sotto a gran bei gruppi. C’erano gli occhi chiusi del Paja che se la viaggiava. C’erano alcune delle persone a cui voglio più bene. C’è stata l’euforia per aver fatto partire praticamente tutti gli applausi. C’è stata quella tizia che mi voleva salutare ma che proprio non conoscevo e che alla fine ho dovuto scansare.

Ma soprattutto c’era la mia personalissima voglia di sentirli, di nuovo e finalmente. La mia voglia di poter dire di nuovo “io c’ero”, di fregarmene se ero il pazzo solitario che agitava da solo le braccia in aria imitando i movimenti di Adriano prima e quelli di Cesare poi. La musica, quando piace, ti esime dal dare e ricevere giudizi.

E sarà forse un modo stupido e retorico per chiudere, ma la musica fatta bene è qualcosa che unisce le persone, e Sabato sera si era formato un bel gruppo di amici sconosciuti.

Quindi, semplicemente, grazie Bud.

Alle prossime.

Vi Spiego Perché “Diaz” È Un Capolavoro

“Diaz”

Precisazione:
non è che ci siano spoiler, qui.
È chiaro che chiunque sia ben informato su quei giorni abbia poco da scoprire, vedendo il film.
Fatto sta che io il film io l’ho visto, e qui ne parlo.
Per il resto fate voi.

Per chi ha meno di trent’anni ed una sensibilità che vada oltre il postare foto di cani abbandonati su Facebook, i giorni del G8 di Genova e le immagini che ci venivano iniettate nelle retine sono stati il nostro undici Settembre.
Ma ancora non faceva figo perché non era successo, e quindi le “macellerie messicane” ed i “trattamenti al limite della tortura fisica e psicologica” sono state per 10 anni le etichette stampate addosso a quei giorni d Luglio.

Per chi è nato negli Ottanta, c’è poco altro a memoria che ci abbia sconvolto allo stesso modo: forse giusto la fine di “Friends”.

Se per la strage di Bologna, per la tragedia Ustica, gli omicidi di Falcone&Borsellino, siamo stati istruiti dai vari Minoli e Santoro per poi avere solo ora la possibilità di informarci veramente, da quel 2001 abbiamo cominciato a farci noi la nostra informazione.
TV, Radio e soprattutto Internet sono stati fonte di ricerca, documentazione e tanta, troppa rabbia.

C’erano però dei punti oscuri, dei momenti di Genova che non abbiamo visto e che invece “Diaz” ci sbatte in faccia come se fosse normale, naturale vedere cose che non abbiamo mai visto.

Il Signor “Carnera”.

Eliminiamo subito le due critiche che più spesso in questi giorni sono state lanciate contro il film: quello che si vede, è successo. Tutta la pellicola è basata sugli atti processuali ufficiali degli eventi che hanno portato in tribunale dirigenti, funzionari e poliziotti a dover testimoniare per tutto quello che era successo nella scuola “Diaz” e successivamente nella caserma di Bolzaneto. Poche chiacchiere quindi.

L’altro tentativo di critica, forse più subdolo e sicuramente senza sbocco alcuno. è il fatto che non vengano usati nomi veri. Verissimo. Il problema è che chi ha visto per dieci anni sempre le stesse immagini capisce senza problemi chi è il Carnera dalla faccia dura che atterra all’inizio del film, e che sembra voler fare di tutto (riuscendoci) per far sgorgare il sangue quella notte. Anche chi fa il primo rapporto ai giornalisti proprio fuori dal cancello della scuola ha un nome ed un cognome, così come il personaggio di Santamaria e perfino quello di Elio Germano e di tutti i  ragazzi coinvolti nel pestaggio.
In poche parole “Diaz” è una rappresentazione di quello che è successo.

Punto.

“Accoltellato”.

Ora: perché è un capolavoro?
Dividiamo il film in due campi ben separati: quello tecnico e quello umano.

Dal lato tecnico, il film è impeccabile.

A partire dalla bottiglia di vetro, spartiacque dei molti episodi del film e pretesto nella realtà per andare poi a sgomberare la scuola la notte stessa. Una scena che viene riproposta spesso durante le due ore di proiezione, e che con il suo climax trascina in modo perfetto lo spettatore nella spirale della follia di quei giorni.

Un’altra scelta che si è rivelata vincente è il fondere, soprattutto nei momenti dei cortei e della cariche della polizia, le immagine girate da Vicari insieme a quelle di repertorio: ecco quindi che in un secondo vedi gli attori scappare per una carica, ed improvvisamente ti ritrovi ad essere la ragazza che, caduta tra le siepi, riprende i poliziotti che passando la manganellano mentre lei grida “Por favor!! Por favor!!”.

Oppure sei lì a vedere Claudio Santamaria e Paolo Calabresi che entrano nel cancello della Diaz appena sfondato ed improvvisamente ti ritrovi ad essere il ragazzo che dall’edificio di fronte riprende quel nugolo di poliziotti che, come zombie, sfondano il portone ed entrano.

Tutto questo viene insieme ad una fotografia che toglie il fiato per quanto riesce a farti essere lì, a farti sentire quasi sporco di sangue, ed una recitazione che a volte ti fa credere che stia vedendo i filmati originali.

I “black bloc” nascosti nella scuola.

Il lato umano, invece, è quello che vi farà andare in giro come in trance usciti dalla sala. È la parte del film che vi strapperà l’anima, e vi farà vergognare di vivere ancora in Italia.
“Diaz” non si concentra solo sull’irruzione nella scuola, parte comunque centrale di tutto il film.
Quello che si percepisce, durante il film, è la costante tensione che in quei giorni percorreva Genova tutta.
Se l’irruzione è l’esplosione, il prima è la miccia lunga e lenta ed il dopo è la confusione che ti rimane addosso dopo un botto troppo forte. realizzi finalmente che quello che è successo doveva succedere, basta.
Ogni passo, ogni frase, ogni manganellata, ogni sputo ed ogni insulto sono un colpo dritto alla nostra coscienza. La schiuma che esce dall’estintore usato da Roja addosso ad un ragazzo ormai svenuto per i colpi subiti è la coltre di omertà che ci si è posata addosso negli ultimi dieci anni. Lo sputo della guardia carceraria i faccia alla ragazza nella caserma di Bolzaneto è la maschera di schifo con la quale ci siamo coperti il volto da quel Luglio. Il pestaggio del giovane avvocato del Social Forum, poco prima dell’irruzione, equivale all’aver picchiato la nostra voce perché non facesse troppo rumore passati quei giorni.

“Don’t clean up this blood”

Il film di Vicari riesce a farti piangere le stesse lacrime di rabbia che ci rigavano il volto quei giorni. Sono lacrime nuove, inaspettate, sono lacrime che bruciano la pelle allo stesso modo dei gas sparati dai celerini. Riesce a farti mordere le labbra fino a sanguinare. Riesce a non farti staccare mai gli occhi dallo schermo, perché sarebbe come negare anche un solo secondo di quello che è successo quella notte e le ore successive.

“Diaz” è un film che andrebbe proiettato nelle scuole, che andrebbe studiato nelle corsi di cinema e che andrebbe discusso come un trattato storico.

“Diaz” è un film definitivo, dopo il quale nulla dovrebbe essere più detto se non “colpevole” a chi in quei giorni ha avuto anche una sola, minuscola responsabilità per quello che è successo.

“Diaz” è un film che ti fa affrontare i tuoi demoni più profondi, che devasta ogni tua certezza e che uccide quel minimo di orgoglio patriottico che avevi.

Andatelo a vedere, ma andate al cinema.
“Diaz” è soprattutto un film che deve essere diffuso, e che merita pienamente ogni singolo euro che pagherete.

Sappiate però che quei soldi non ci ripagheranno mai per essere stati immobili così a lungo.