Ridiculum Vitae

I'm Here For Da Job.
I’m Here For Da Job.

Sono passati più o meno dieci anni da quando ho iniziato a lavorare. Parlo di un lavoro “vero”, con busta paga e contratto. Era un magazzino vicino casa, dove dalle 7 alle 16 mi facevo un culo tanto a riempire muletti di sacchi di concime, fontanelle in ghisa ed ero circondato da gente che aveva finito a malapena le medie grazie probabilmente a minacce e macchine rigate ai professori. C’era uno che diceva di fare rap, mi diede un suo cd perché “non hai capito spacca proprio, e non perché l’ha fatto io zì”. Ecco, sembrava sentir cantare uno affetto da sindrome di Tourette su basi fatte tirando una palla matta di tre chili dentro un negozio di cristalli e pentole, e le tematiche principali delle canzoni erano la figa, i soldi e la figa piena di soldi. Durante le pause pranzo l’argomento più quotato erano le avventure coi transessuali, i neon sotto le scocche della macchina ed il pallone. Niente di diverso dalle chiacchiere da bar, in pratica. Di più c’era solo la puzza di ascelle ed ignoranza.
Poi c’era il responsabile del gruppo, un signore di un metro e mezzo per 130 chili con mani grosse come i Paesi Bassi e così ignorante da far sembrare Antonio Razzi un socio onorario de La Crusca. Probabilmente l’unica cosa che abbia mai letto in vita sua sono le istruzioni della caldaia.
Ed infine il titolare, uno che si faceva vedere solo per strillarti dietro e che ha il cognome della stessa macchina che guida: Ferrari. E mi fermo qui.

Poi ci fu Lecce, dove mi trasferii per provarci. “Chi non risica non rosica”, ed inutile dirvi che se sono tornato a Roma a rosicare ho rosicato parecchio.
Un tour operator che forniva servizi al 90% delle agenzie viaggi della Puglia, Basilicata e nord della Calabria, totalmente a gestione familiare: capo donna, fratello commerciale, altro fratello e cognata in amministrazione, cugine (le uniche sane di mente) con me al booking.

La situazione era tranquilla fino a quando si è inserito il marito della “capa”, un folle la cui idea di commerciale era fare volantini fatti con Paint. Giuro. Sarebbe stato meglio fare scritte in verde carciofo su sfondo verde pisello in Comic Sans. Corsivo. Grassetto.
Inutile dire che, essendo tutti imparentati, in problemi lavorativi (che c’erano) venivano schiacciati da quelli personali: da una cena del giorno prima ai più vecchi ed ammuffiti scheletri nell’armadio, ogni giorno era una puntata di Beautiful di cui ero il protagonista inconsapevole. Mi sentivo come l’amico della famiglia Forrester invitato al dietro le quinte di una loro sfilata che assiste ad un omicidio tra parenti, viene interrogato dalla polizia, trattenuto, percosso ma poi rilasciato.
Previously on “Tour Operator”.

E si torna a Roma, e si va a Tp (che vi risparmio, visto che ne ho parlato in abbondanza, ma se proprio volete uno spiegone lo trovate qui).

Prima dopo e durante, ci sono state vendemmie, animazioni, accoglienza ad un centro estivo, banchista da papà, pubblicista-social networker, receptionist in un lido di lusso che di lusso aveva solo i prezzi. Ora sono all’Angelo, mi trovo bene ma non posso considerarlo un lavoro vero e proprio per quanto non abbia intenzione di mollarlo.

Insomma, il mio curriculum è quello di uno che non ha una laurea, non ha studiato mai davvero qualcosa e non si è mai specializzato in nulla. Ma ci ho provato, ho girato, tentato, sudato e raccolto molto, nonostante tutto e tutti, ma soprattutto nonostante me.

Ed ora, quindi, insomma, “ma che vòi da noi”?
Boh, non lo so. So solo che questo, più che curriculum, è il mio “Ridiculum Vitae”.

E se adesso, dopo mesi, ancora non vengo chiamato da nessuno, io comunque non mi sento in colpa per le scelte che ho fatto. Non avrò un pezzo di carta col prefisso “Dott.” davanti al nome, ma sono pieno di esperienze da mettere sul campo. Quale, ancora, non lo so.
Ho provato ovunque, per qualunque tipo di lavoro. Le risposte che ho ricevuto sono le stesse che ho di vincere la schedina senza giocarla.
Ma non m’arrendo: mi viene il vomito, mi stanco, mi illudo e poi ci rimango male.. ma non m’arrendo.

E giuro che non ho visto Ridge infilare mezzo metro di lama nella schiena di quel tizio.

Roma Kaput Mundi

Lo è.

C’è stato un periodo, qualche anno fa, in cui si andava tutti in giro con i motorini fino a Trastevere e si beveva al Mr. Brown fino a cominciare a ridere da sentirsi male. Era il periodo del Villaggio Globale a sentire i concerti, a ballare e a bere Merlot scadente nella loro osteria. Serate che finivano con gente (me) ubriaca marcia nei carrelli della spesa trainata da gente altrettanto ubriaca. Weekend che finivano troppo presto ma che venivano vissuti dal primo all’ultimo minuto, come se spingendosi oltre il limite epatico fosse possibile rimandare l’arrivo del maledetto Lunedì, fatto di aule, banchi e professori che “tanto non capiranno mai”. Erano serate da passare infreddoliti su selle di mille motorini, di catene difficili da aprire dopo troppe vodka alla pesca (mi viene il vomito solo a scriverlo), serate di abbracci spontanei e guance rosse. Tutti erano amici di tutti, e nessuno era solo: c’era la comitiva, il gestore del locale, la cameriera, il passante. C’era Piazza Trilussa con i suoi scalini che ospitavano sempre qualcuno da incontrare, dove ti ci mettevi davanti e cominciavi a scrutare tra la folla manco si avesse tra le mani un libro di “Dov’è Wally?”. E la gioia di trovarlo, il proprio Wally, era sincera e spontanea, perché magari era pure un tuo compagno di scuola ma, che cazzo, non eri in quel cortile o nei corridoi ma in giro, e potevi fare quello che volevi.
Roma, in quei tempi e con la testa di un adolescente, era un intero mondo da scoprire, anche se magari si rimaneva (e si è rimasti) sempre nello stesso quartiere, quasi sulla stessa via.

In questi anni, però, troppe cose sono precipitate a Roma. Il connubio fra menti spappolate e politiche devastanti ha fatto precipitare la capitale in un vortice che risucchia tutto quello che di buono c’è. Ho visto locali chiudere sotto i colpi dei verbali dei Vigili, ragazzi morire per un rissa idiota, cambi di gestione che hanno obbligato ad alzare i prezzi abbassando la qualità. I Centri Sociali sono stati presi di mira da istituzioni che pensano solamente a gonfiare i propri portafogli e ad inchinarsi ai capetti che a Roma vogliono la disciplina e  l’ordine. Le associazioni culturali aggirano le regole con trucchetti da due soldi, mentre chi tenta di farle rispettare, quelle regole, viene additato e messo in un angolo, vessato di continuo fino a quando, stremato, rinuncia a portare avanti le proprie iniziative.
E faccio mea culpa, mea iper culpa per il fatto di non essermi mai davvero interessato a come funziona un luogo in cui le cose vengono fatte girare per il verso giusto, e pochissime volte mi sono impegnato davvero per far sì che questi posti potessero continuare ad avere i propri cancelli aperti.

Ora però ne ho la possibilità, perché da una settimana ho la fortuna, ed il piacere, di lavorare all’Angelo Mai Altrove. L’Angelo ha una storia forte, potente, fatta di occupazioni, sgomberi, altre occupazioni, delibere, ristrutturazioni, impegno, sudore, lacrime e risate. E’ uno di quei luoghi che, minimizzando, si potrebbe dire di “aggregazione”. E dico minimizzando perché non è solo questo, ma è mille cose di più. Mi sono bastati pochi giorni per capire che lì dentro ognuno è parte di un gruppo, che tu sia uno di loro da anni o da pochi giorni. Entrando in quel posto, si capisce che l’aria è piena di idee che vengono condivise e sviluppate, progetti che anche se a fatica vengono realizzati con i soldi di tutti.
L’Angelo, dove si trova ora, non era così: era una bocciofila dimenticata da tutti che è stata presa e trasformata in teatro e sala concerti, con due bar ed un’osteria in cui tutti sono i benvenuti. Non c’è una prima volta in cui si entra lì, perché c’è sempre un momento in cui riconosci una situazione vissuta, che siano gli gnocchi di Pina fatti in casa come faceva tua nonna, o i sorrisi di chi ti serve da bere come succedeva tempo fa. Quella dell’Angelo è una famiglia, che va oltre il legame di sangue ed arriva ad un livello più alto, un livello di collaborazione e sostegno che in giro, in questa città, non si trova più.

Ma non è tutto rosa e fiori: l’Angelo Mai, da otto giorni, è occupato. Ed il motivo è molto semplice.
Circa un mese fa sono stati costretti a chiudere il bar e l’osteria, uniche fonti di sostentamento (oltre all’entrata che però non è sempre a pagamento) per poter continuare a finanziare i concerti, le mostre, gli spettacoli, le rassegne cinematografiche. Un’imposizione che, nel giro di pochi giorni, ha portato i ragazzi a dover chiudere tutta la struttura. Un’imposizione giustificata dal fatto che, secondo la giunta Alemanno, i fondi non venivano usati per le cose citate sopra ma solo per guadagnarci sopra. Un’accusa grave ed infondata, un colpo duro per un collettivo fatto di ragazzi pieni di passione.
E proprio questa passione ha portato tutti a decidere di occupare, unica scelta possibile per poter far fronte alle spese di gestione e ai pagamenti di chi ci lavora quotidianamente. Una decisione difficile ma affrontata con gioia, nonostante il costante spauracchio dello sgombero.

(vi ricordo, nel frattempo, che “associazioni” come Casa Pound hanno ricevuto -gratis- dal comune di Roma edifici e spazi enormi per le loro attività come riunioni, cinghiamattanza ed organizzazione di raid contro chi è ritenuto “altro”.)

Insomma, l’Angelo è in pericolo.
Noi (perché sì, mi reputo già un “noi”) siamo pronti a tutto, perché luoghi come l’Angelo DEVONO rimanere aperti, DEVONO essere ancora luoghi di incontro per i cittadini, DEVONO continuare a proporre iniziative culturali. Ricordatevi che l’Angelo Mai ha ospitato centinaia di eventi, ed ultimamente ha ricevuto il supporto degli affezionatissimi Afterhours con un concerto davvero unico. E continua ad avere supporto da esponenti di tutti i generi.
Quello che credo però è che debba avere anche il vostro, di supporto. Anzi, soprattutto il vostro. E non intendo che dobbiate venire a spendere per forza, perché il supporto più grande che possiamo ricevere è la vostra presenza, il vostro passaparola, la vostra voglia di vedere ancora aperti posti come questo.

Solo con posti come l’Angelo Mai altrove si può ancora far qualcosa per la comunità, per poter tornare tutti sui motorini a cantare, per fare amicizia con il gestore del locale e col passante, per poter di nuovo incasinarci ad aprire la catena.

Per poter tornare, di nuovo, ad essere orgogliosi della nostra città e di chi ci abita.