A Pieni Polmoni

Non è che ci fosse nato, con quel problema. Solo che non ricordava la sua vita senza, quel problema.

I suoi ricordi partivano dalle prime notti insonni, da bambino, e passavano per la paura di venir inghiottito dalla sua stessa stanza da adolescente, con i Red Hot che lo guardavano dai poster con un calzino sul pisello e lo sguardo di compassione.
I concerti in cui doveva allontanarsi dalla mischia appena iniziati, le ore di educazione fisica passate a guardare gli altri correre, le prime volte ancora più imbarazzanti di quanto non siano già, con lui che col terrore di durare troppo e collassare, durava troppo poco.
Non c’era un ricordo che non fosse già avvelenato da quel problema.

Non era mai riuscito, in vita sua, a fare un respiro completo.

Non che ansimasse come un carlino, con la lingua di fuori e gli occhi a supplicare l’abbattimento. Anzi, la maggior parte della gente non se ne rendeva nemmeno conto e questo non faceva che aumentare il suo disagio.
Poche persone ne erano a conoscenza.
Certamente sua madre, che fin da subito fece il possibile per lenire le angosce del figlio pur consapevole della natura psicosomatica, più che fisica, di questo problema. Ma nessun pediatra, dal miglior Big Pharma al peggior New Age, era mai riuscito a fargli riempire del tutto i polmoni.

Un’altra persona che lo sapeva era una sua ex ragazza di quando aveva vent’anni che, stufa di provare a farlo durare più di cinque minuti, lo lasciò per un apneista e non si fece mai più sentire.
Perché una delle conseguenze peggiori che aveva scoperto con l’adolescenza era la difficoltà fisica che sì, in quel caso, lo faceva respirare come un maniaco che chiama a notte fonda, mischiata a quella psicologica della situazione: se provava a concentrarsi sulla partner subentrava la normale preoccupazione di fare figure di merda, subito sostituita dal respiro cortissimo e impossibile da completare, e quindi provava a distrarsi concentrandosi sulla partner e così via, in un loop che lo portava a diventare viola di imbarazzo e tachicardia.

I suoi amici lo prendevano per il culo il giusto, invitandolo a calcetto solo se serviva il portiere, o chiamandolo “Fiatocorto” durante le visioni collettive di Game of Thrones.

Ma il resto del mondo ignorava completamente la sua condizione e lui faceva di tutto per non darla a vedere. Spesso scorreva nella mente tutte le volte che confessarlo, o anche solo dirlo, avrebbe forse cambiato il corso degli eventi, piccoli o grandi che fossero.

Il suo esempio madre lo teneva stretto per sé, di quel giorno di mesi prima in cui camminava lento verso la fermata del bus che lo avrebbe portato a lavoro al centro. Aveva le cuffie grandi premute sulle orecchie, i passi a ritmo di Purple Haze quando notò lei che, poco più avanti, si era girata e con un cenno della mano stava provando a catturare la sua attenzione. Aveva i capelli rossi, crespi come la carta regalo di quella buona, gli occhi verdi e grandi da cartone animato della Disney e un vestito rosso con i rombi blu, leggero come fosse fatto di vento. Lui si sfilò le cuffie e le regalò un sorriso timido dei suoi, le labbra e le palpebre strette come in un’espressione da parente benevolo.

– Ciao! Scusa, ma alla fermata laggiù passa il 98 per il centro?

– Sì sì, ferma lì.

– Ma sapresti anche dirmi qual è la fermata vicino al museo di Storia?

– Beh guarda è la stessa a cui scendo io per l’ufficio, se vuoi saliamo e scendiamo insieme.

Quasi si sorprese, per questa botta d’intraprendenza.

– Volentieri!

La sorpresa fu doppia.

S’incamminarono uno accanto all’altra così, nel modo più naturale del mondo. Dovevano costeggiare un giardino pubblico per qualche centinaia di metri, prima di arrivare alla banchina, ma nessuno dei due sembrava riuscire a dire nulla. Nell’aria c’era quella piccola, leggera scossa elettrica, come quelle che partono dalle sfere di metallo e toccano la superfice di plastica nelle lampade da due soldi che si mettono in stanza per fare atmosfera. Entrambi sembravano temere che il parlare, così come il toccare le sfere da due soldi, avrebbe concentrato tutta l’elettricità del momento, mandandoli in corto.
Era tarda mattinata e nel giardino c’erano poche persone: qualche mamma distratta dal telefono mentre il figlio era intento a fare scorpacciate di terriccio, badanti che al contrario seguivano ogni passo di bambini scatenati che si rincorrevano e si gettavano a terra, per poi puntarsi contro il dito piangendo come se non ci fossero statepesante  orecchie a sentirli. Appoggiata alla staccionata in legno, rivolta al marciapiede, c’era invece una piccola cucciola d’uomo con i boccoli biondi e gli occhi che seguivano chiunque passasse lì davanti, le mani poggiate su uno dei piccoli tronchi e la calma di un santone addosso. Lui, che cercava di camminare più leggero di quanto in realtà non si sentisse, la guardava fissare prima una signora con la spesa e il maglione rosso nonostante la primavera fosse già arrivata da un po’, per poi passare al giovane in completo di lino con l’auricolare in fiamme e gli occhiali a coprire gli occhi che si rigiravano ad ogni richiesta di qualche cliente troppo esigente. La cucciola d’uomo seguiva con occhi e testa fino a incrociare qualcun altro, e così via, come stesse assistendo a una lentissima partita di ping-pong.
Arrivò il loro turno, e ovviamente i piccoli occhi puntarono la fresca non-coppia e cominciarono a seguirli. Lui, che dei due era quello che camminava più vicino alla staccionata, agganciò lo sguardo della piccola e le sorrise, di nuovo come un nonno stanco ma orgoglioso della nipote, ma senza aspettarsi una reazione che invece arrivò pronta, come se non aspettasse altro: alzò la manina fino all’altezza del viso, e cominciò ad aprire e chiudere il pugno.

– Tào! Tào!

– Ma tào a te, cuccioletta!

Si vergognò subito per quella reazione immaginando la ragazza che lo vedeva come un rapitore di neonati e, sentendosi gli occhi di lei puntati addosso, spostò goffamente lo sguardo dalla bambina agli alberi, cominciando ad annuire come se stesse provando a riconoscere la specie. E la ragazza lo stava guardando davvero, ma con gli occhi dolci e un sorriso un po’ ebete tagliato sulla bocca di chi ha visto in quella risposta il bambino che c’è in lui. E fu lì che lei disse:

– Comunque mi chiamo

– Aobbù! Aobbù!

La cucciola di uomo aveva trasformato il piccolo pugno in un dito che indicava dietro di loro.

– Aobbù!

Lui immaginò fosse la parola chiave che i genitori della bimba le avevano insegnato in caso di una situazione caramelle-da-sconosciuti ed ebbe un principio di attacco di panico, mentre lei si girò nella direzione che puntava il ditino e sibilò un

– Mapporc.

Volutamente troncato, ma intuibile.
La bambina stava dicendo autobus, e la sua gioia nel vedere tale mezzo li aveva inconsapevolmente avvisati del suo arrivo.
Lei fece qualche passo scattando ma, sentendo che lui non correva con lei, si girò e lo vide lì, ancora a far finta di capire se quello fosse un pino o un rovo di rose.

– Beh? Non corri per prendere il bus?

Lui immaginò quella breve corsa, il fiato ancora più corto del solito, immaginò l’imbarazzo nel non riuscire a parlare per ore, figuriamoci per una mezz’ora di viaggio.

– No tranquilla, devo passare prima da una parte. Comunque chiedi all’autista di farti scendere all’altezza di Vicolo del Bel Respiro.

Ah.
L’ironia.

Lei non disse nulla, ma il sorriso tagliato divenne un solco di disappunto e, girandosi, non accennò nemmeno a un saluto.
La vide correre, venire superata dall’autobus e per un attimo sperò quasi che lei cadesse, o che una ruota del mezzo si bucasse in quel momento facendolo finire nell’altra corsia, qualunque cosa pur di poterla raggiungere camminando, spiegarle tutto e chiederle di uscire.
Ma lei era agile, il bus aveva le gomme nuove e il suo profilo venne inghiottito presto dalle porte a soffietto. E comunque non avrebbe mai avuto il coraggio di parlarle per mezz’ora, figuriamoci per ore.

Ecco, se il bus avesse tardato anche solo due minuti, magari a quest’ora lei starebbe ridendo tra le sue braccia mentre lui le racconta questo immaginario what if.

E invece mesi dopo era lì in ufficio, a sbrigare le ultime noiose pratiche prima di prendere quel dannato bus e tornare a casa. La pioggia frustava la finestra dello studio a ritmo regolare, e il suono sembrava quello delle onde che s’infrangono su un bagnasciuga di vetro. Era rimasto solo e mancava mezz’ora alla fine del turno, e decise di fare una cosa che non faceva mai. Recuperò le sue cose, le infilò velocemente nello zaino e dopo essersi messo la giacca a vento, andò via prima. Una scossa di adrenalina partì dalla schiena e gli scaldò tutto il corpo mentre chiudeva a chiave la porta blindata, e scendendo le scale iniziò a sudare. Stava guadagnando solo trenta minuti e in realtà, come sempre, era arrivato in anticipo anche quella mattina, ma il non aver chiesto permessi che comunque non gli sarebbero stati negati lo esaltava un po’. Mentre apriva il portone del palazzo per uscire, si rese conto che il ritmo del suo respiro era aumentato parecchio e approfittando della pioggia battente si fermò sulla soglia, poggiandosi prima con la spalla sul muro, e poi aspettando che il portone si chiudesse per poter scivolare un po’ all’indietro e adagiarsi sulla schiena.
Rimase così per un po’, buttando occhiate nella direzione dalla quale sarebbe dovuto arrivare il 98 e armeggiando con le chiavi di casa nella tasca del cappotto. Nei periodi più pesanti, spesso si ritrovava col pugno chiuso intorno al mazzo di ferri appuntiti, stretto fino a lasciarsi segni sui palmi.
Respirava sempre più veloce mentre iniziava a chiudere la mano sulle chiavi. Il fiato si accorciava e i secondi si allungavano, e pensò che un po’ d’acqua in testa fosse il modo migliore per riprendersi. Si sporse fuori dall’androne, approfittandone per girare la testa e sperare di vedere le luci del bus. La pioggia gli batté forte sui capelli, talmente forte che nonostante fossero foltissimi sentì il cuoio immediatamente fradicio. L’acqua scese veloce su tutto il volto. Era stata una pessima idea.
Si ritirò imprecando nell’androne e mentre si asciugava gli occhi sfregandoci le braccia sopra, sentì una mano toccargli la spalla.
Sobbalzò.
E poi, dopo un secondo, sobbalzò di nuovo.

Aveva riempito i polmoni.
Aveva preso tutta l’aria possibile nella bocca e l’aveva tirata via dalle narici come un condizionatore.
Aveva riempito i polmoni.

– Tào! Sei poi passato da quella parte, quel giorno?

Un nuovo respiro profondo.
La sua voce sembrava premergli gentilmente la cassa toracica per aiutarlo a tirare fuori tutti quei mezzi respiri che per anni lo gli avevano riempito il corpo.

Era davanti a lei, ai suoi occhi verdi, ai suoi capelli-carta-regalo.
Era davanti a lei, chiusa in un cappotto rosso pastello e un paio di anfibi blu, un goccia di pioggia ferma sotto la punta del naso che raccoglieva tutte le luci dei lampioni intorno.
Lui sorrise come mai prima, le narici piene del suo profumo, respiri così forti da avere quasi un sapore.

– Per tornare al discorso. Piacere, Aria.

Lui voleva ridere, voleva abbracciarla e ringraziarla, ma non fece in tempo a realizzare che la vita a volte è proprio strana che la società dei trasporti cittadina lo portò di nuovo sulla terra.
Il bus stava chiudendo le porte. Lei, girata di spalle, non capì il perché del suo scatto. Lui corse per qualche metro e inchiodò. Le sneakers consumate slittarono un po’ sul marciapiede bagnato ma riuscì a mantenere l’equilibrio. Si piegò poggiando le mani sulle ginocchia e respirò di nuovo, forte, mentre la pioggia gli scorreva sulle tempie, sugli occhi, sulla bocca.
Si girò e la vide ancora lì, di nuovo lontana, di nuovo con un’espressione di quel sorriso al contrario sul volto.
Lui tese la mano davanti a sé, il palmo rivolto in alto dove si formò subito una piccola pozza.
Arricciò un po’ le dita, mentre le diceva sorridendo:

– Beh? Non corri per prendere il bus?

Quattro Motivi per Rimanere a Roma – Uno

L’Applicazione Fai-Da-Te del Codice Stradale

Se con Marino la situazione della Polizia Municipale stava cominciando a migliorare (un ex poliziotto a capo, introduzione di nuovi sistemi per le multe, servizi che vivevano di segnalazioni del cittadino) con la giunta Raggi la situazione è tornata come prima, e cioè: liberi tutti.
Questo vuol dire che se hai una macchina puoi tranquillamente continuare a parcheggiare in doppia fila, passare a rosso inoltrato, suonare clacson come se fossimo tutti sordi e stare al telefono per ore, tra le tante cose.
Il pedone non esiste, quindi nessun problema se dovete lasciare la macchina sulle strisce o davanti alle rampe per disabili.
Il ciclista è invece un animale strano, bistrattato da entrambe le suddette categorie ma sempre arrogante quel basta da fregarsene di tutti e fare di necessità (l’arrangiarsi a causa della totale assenza di piste e segnaletica riservate) virtù (stare ovunque, dal marciapiede ai binari del tram).
La quasi totale mancanza di controlli, per nulla compensata da sporadiche quanto aggressive apparizioni di dipendenti ATAC che come avvoltoi girano tra macchine parcheggiate una sopra all’altra, con proprietari che inventano scuse come coi compiti alle elementari («capo m’è appena morta nonna! se l’è magnata er cane!»), insomma se non fosse per le ronde da leghisti stupidi e qualche capannello di vigili ai gabbiotti nelle ore di punta, Roma a livello di civismo stradale starebbe al pari di quelle capitali dell’Est Asiatico dove gli incroci sembrano ingrandimenti di formicai abitati da insetti idrofobi.

Ma è anche tutto quello che riguarda la strada, e non solo chi la abita, a rendere Roma unica.
Alcuni esempi?

I parcheggiatori abusivi sono ormai così presenti e radicati da essere finalmente in procinto di prendere l’autorizzazione per essere regolarmente abusivi.
Alcuni semafori non cambiano colore per così tanto tempo da sembrare dipinti.
I cartelli stradali sono espositori per adesivi “La droga dà la droga daje”, “Welcome to Favelas” e “Ultras Roma Per Sempre Forza Maggica Totti Sindeco”.
I marciapiedi sono tutto tranne zone franche per pedoni: diventano parcheggi, scorciatoie per motorini, banali appendici delle corsie dedicate.
Tassisti che menano autisti NCC che menano conducenti Uber che al mercato mio padre comprò.

Insomma, in un mondo che punta al verde, all’ecologia, alla riduzione di emissioni nocive, che ti obbliga a camminare o pedalare, a rinunciare alla macchina se non addirittura a vietarla, Roma va orgogliosamente controcorrente confermandosi una città a misura d’auto: 613 ogni mille abitanti, oltre due milioni e trecentomila veicoli circolanti su poco meno di tre milioni di abitanti.
E proprio per questo il codice stradale deve, essere speciale. Non può andare incontro al comune senso civico ma deve essere di nicchia, particolare, unico, così come la città che ne permette l’applicazione.
Siamo o non siamo quelli famosi per Gregory Peck e Audrey Hepburn in due sulla vespa, senza casco, a guardare tutto tranne che la strada?

Dello Scrivere, Del Votare ed Altre Amenità

Writing

Che a me piaccia scrivere è fuori discussione: c’è chi si becca i miei improperi su Facebook quasi ogni giorno e pare pure apprezzarli, e c’è chi arriva fin qui per inoltrarsi in un mondo fatto di deliri, dialoghi fuori fase e tante cazzate.
Spesso sfioro il personale, a volte lo buco proprio, in altri casi mi piace scrivere di quello che ho appena visto, o pensato, o pensato di vedere (grazie THC).
Ci sono cose che riempiono lo spazio vuoto di questo status e poi vengono cancellate, che non vedranno mai la luce del monitor né quella della mia memoria, spazzate via in un colpo di Delete.
Poi ci sono cose, e so che ha dell’incredibile, di cui non scrivo. Per decenza, certo, ma anche per scaramanzia, che spesso a dir cose poi sfumano. Però giuro, ho un altro FB di contenuti salvato sul PC che rimarrà così almeno per metà, mentre l’altra metà spera di uscir fuori tra lustrini, pajette e la testa alta. Succederà, se solo avessi una costanza anche solo percepibile, palpabile, o un tipo che ad ogni momento libero che spreco mi spari con un teaser sulla faccia.

Typing

Ora, avendo in questo periodo la possibilità di vedere Sky ed ho visto un pezzo di confronto di ieri, tra Roberto Giachetti e Virginia Raggi.
Mi astengo dal giudizio generale, ma a tre giorni dal ballottaggio non puoi sorridere e dire che la squadra non la dichiari perché ti han chiesto riservatezza (quando due minuti prima hai detto che la scegli tu, e solo tu), e perché visto che la stampa ti ha attaccato allora è meglio di no. Non puoi dire con gli occhi sognanti che però è una squadra bellissima e super fica, però non te lo dico.
Dall’altra parte c’è uno di quelli che vi piace chiamare «professionisti della politica», che è vero in tutte le sue sfumature, anche positive. Perché non è un voto di fiducia, non è un voto sugli intenti. Questo è un voto fondamentale per tanti, troppi motivi, ed io devo essere sicuro di votare qualcosa di reale. Perché a votar Giachetti ce ne vuole, ma almeno mi ha dato dei nomi da poter verificare io, con le mia dita. Che verifica è la vostra, se poi confermate una squadra che verrebbe sputtanata in due minuti? Perché volete fare un referendum per tutto (pure per la via da intitolare) e quando si parla di chi dovrà rimestare nel fango di ‘sta città facciamo sorrisi ed occhi a cerbiatto?

Bambi

Ma sapete quante volte ho detto alla gente che stavo scrivendo un libro? Poi, alla domande

di che parla?

o

quando esce?

mi spuntava un cappello da moschettiere tra le mani e gli occhi mi si trasformavano in due pozzi di dolcezza e grassi saturi.
Ho circa una ventina di inizi di libri, in ‘sto PC. Ho materiale per romanzi, raccolte di racconti, rappresentazioni teatrali e sceneggiature di cortometraggi sulla disperazione ed il dolore. Però non faccio partire un crowfunding per finanziarmi il libro, senza dire la trama, o i personaggi, o anche solo dare una sinossi si quello che cazzo succederà.
Chi me li darebbe, i soldi?

Poi oh, oggi io c’ho lo sterminio nelle fibre muscolari, pronto a scattare invadendo la Polonia, però pure voi veniteme incontro.

Hollyrome Party

"Ma cosa fa quel mentecatto?"
“Ma cosa fa quel mentecatto?”

Avete mai visto «Hollywood Party»? Spero di sì, cristo.
In pratica c’è Peter Sellers che interpreta un attore indiano, una comparsa in realtà, ed è la persona più impacciata che ci sia. All’inizio del film, interpreta il ruolo di questa specie di beduino che deve difendere il suo avamposto nel deserto. Diviso in più scene, si vede tutto il suo essere distratto, incapace ed egocentrico, suscitando comunque compassione ed allegria nello spettatore: non muore nonostante decine di colpi fucile ricevuti mentre avvisa con i suoi compagni la tromba, agonizzante ma vivo fino al ridicolo in cima ad una montagna; si fa beccare con un orologio da polso durante le riprese quando il film è ambientato a fine ‘800; e nella scena madre (e siamo solo al primo quarto d’ora del film) per allacciarsi il sandalo fa saltare in aria un intero castello, subito dopo l’avviso del regista che annunciava come la scena potesse essere girata una, ed una sola volta.
Il film poi prosegue con il party vero e proprio, dove Sellers viene invitato per errore.
Un capolavoro di comiche, in alcuni punti un film muto bellissimo.

Party3

Ecco, ci ho pensato oggi leggendo tutti ‘sti endorsement a Giachetti per il fatto delle Olimpiadi, o della crisi di nervi della Raggi sul referendum (!!!) per lo stadio.
Io penso che agli occhi degli altri, Roma risulta come Peter Sellers in «Hollywood Party»: appena ci danno il ciak per provare a fare qualcosa di concreto (la fine di Alemanno, Marino, la sua cacciata, un commissario che manco Basettoni, ora il primo turno, e mò il ballottaggio) l’attenzione si sposti sempre su altro.
Perché mentre si scannano su cinque cerchi ed un pallone, oggi non leggo loro dichiarazioni sul fatto che la metro passava con la stessa frequenza con cui Luca Giurato azzecca cinque frasi semplici di seguito. E sapete la causa? Pare abbiano sbagliato a montare le ruoete sui vagoni. Capite? Due linee e mezzo di metro (una Lione a caso ne ha quattro, e sei volte in meno gli abitanti di Roma), e questi sbagliano a montare le ruote.
Proprio come dover girare una scena di pochi secondi, e topparla clamorosamente tutte le volte. C’è sempre qualcosa di più piccolo e importante che ingigantiamo fino a saturarcene i coglioni per due settimane. Poi di nuovo via, un’altra scena brevissima che si protrae per giorni perché arriviamo sempre in ritardo, o perché ci squilla il cellulare durante le riprese.
Stiamo trasformando questa città in una tragedia dai mille atti, passando per una commedia da due soldi con un finale più che scontato.

If you know what I mean.
If you know what I mean.

La Mia Celiachia, La Vostra Moda

Celiac

Io sono celiaco.
Dalla nascita.
Solo che alla nascita non potevano saperlo, e neanche prima: si era a cavallo tra il 1984 ed il 1985 e tra le analisi sul feto forse si faceva a malapena quella dell’HIV, figuriamoci quella per la celiachia. Considerate solamente che nel 2007 i celiaci (diagnositcati) in Italia erano poco più di 60.000. Nel 2011, sono saliti a 500.000.
Immaginate negli ultimi quattro anni.

Immaginate dal 1985.

Ovviamente non vuol dire che sono solo aumentati i celiaci, ma anche che sono state perfezionate le tecniche di diagnosi.
Ma non voglio tediarvi con numeri e robe di scienza, ma raccontarvi al volo cosa è stata, è ora e sarà per sempre la celiachia.

Inizio premettendo una cosa: la vita, da celiaco, è normalissima. Se segui la dieta, non hai problemi a vivere normalmente.
Certo è che qualche problema, se sei poco attento o molto stupido, te lo da.

Certo, come vi dicevo, all’inizio non sapevano cosa avessi.
Fin dalle prime pappe, vomitavo continuamente e non crescevo.
Mesi di ricoveri, analisi, flebo in testa che poi dici come mai a trent’anni hai la fobia degli aghi. Genitori preoccupati, nonni e parenti vari in ansia. Pediatri che consigliavano a mia madre “signora se piange non le dia da mangiare”, e giù di ricoveri e tentati omicidi (nei confronti dei pediatri).
Frullati di agnello.
Poi la diagnosi, il cominciare ad informarsi, il capire che alla fine ci si può campare.
All’epoca al massimo c’erano biscotti semplici, farina e pasta.
Ora i prodotti, grazie a dio, variano e di molto.

Ma non è stato sempre facile facile, ecco. Per fortuna, con una mamma appassionata di cucina, ero abituato alle sue cose, ai suoi dolci, e le varie Fiesta o Kinder Paradiso non mi hanno mai attirato. A scuola però la mia merenda erano i panini immasticabili, peculiarità che molti prodotti senza glutine ancora mantengono orgogliosi. Alle feste ho sempre mangiato l’interno dei panini all’olio, la fetta di torta mi passava davanti al naso correlato dalla faccia di chi me la porgeva che diceva chiaramente “ah! già! tu non puoi. povero” ed alle prime cene con i compagni di scuola, quasi sempre organizzate in pizzerie, portavo la mia base precotta, sigillata nella plastica, che consegnavo al cameriere a cui regolarmente dovevo chiedere massima attenzione nel tenerla lontana da forni e pale piene di farina tipo 00. E qualcuno, ancora ricordo, si rifiutò per paura di eventuali conseguenze.
Ma, davvero, non ne soffrivo. Avevo già una discreta sensibilità che mi portava a dire “aò, c’è chi sta peggio”.

Peggio, però, ogni tanto ci son stato.
Ho tre ricordi nitidi delle reazioni mie al glutine. E dico mie perché non tutti ne soffrono così male, o con le reazioni che leggerete.

Celiac_Lie

Il primo risale a me piccolo, prima dei 10 anni sicuramente.
All’epoca era ancora periodo di prove che il Policlinico richiedeva di fare, anche e soprattutto a distanza, quando ero a casa. Una di queste, probabilmente ideata dai fascisti del glutine per far parlare i Partigiani celiaci, era di farmi mangiare un piatto di pasta normale.
Ovviamente, l’incarico se lo assumeva quella poveraccia di mia madre che non poteva nemmeno dirmelo.
A tradimento.
Ricordo benissimo l’odore, di quella volta. L’odore diverso, “non è la mia pasta, lo sento!” dicevo a mia madre. Col cuore rotto, mentiva dicendomi che l’aveva cucinata in un modo diverso. E insomma, se te lo dice tua madre.
Ricordo il sudore classico da pre vomito, e subito dopo un lago di sbratto rosso di sugo sul pavimento della mia cameretta, dove mi ero rifugiato a morire.

Il secondo ricordo che ho sono io intorno ai 12 anni. Ero in vacanza con gli zii e mia nonna all’isola di San Pietro. Il mare, le attenzioni, il sole. Ero un bimbo felice. Celiaco, ma felice.
In paese ci fermiamo in una pasticceria e, dopo mille raccomandazioni di mia nonna ed altrettante rassicurazioni da parte della pasticcera (“tranquilla signora, non è fatto né è andato a contatto con la farina!”), mi mangio un Sospiro.
“Buono!”, pensavo, “e che bello che io l’abbia potuto prendere in un posto normale!” mi dicevo, probabilmente non azzeccando così bene il congiuntivo.
“Mannaggia alla peppa!”, pensavo mentre, a metà bagno in mare, cominciò il sudore. E lo stomaco che si tendeva. E il vomito usciva, prima mentre ero piegato dietro una duna della spiaggia, e dopo in casa con nonna che mi seguiva con lo spazzolone mentre andavo in giro a fare la rappresentazione esatta de “L’Esorcista”.

Il terzo (ma non ultimo, ne ho a pacchi tra scommesse perse al McDonald’s e scambi di torte di Pasqua) risale ad un paio di anni fa.
San Mamma, ormai già stabilita in Salento, in vista di un po’ di giorni “cor fijo suo” prepara la pasta al forno. Cannelloni e conchiglioni ripieni, un po’ per me ed un po’ per lei e mio fratello.
“Ammazza chebboni Mà”, le dico, mentre lei assaggiandoli esclama “Me sò superata, non li distinguerei dai quelli normali!”.
Eh, infatti.
Due ore dopo ho l’attacco più brutto che io ricordi. Dopo la prima vomitata, mi ritrovo seduto sul cesso con mia madre davanti che regge una bacinella, mentre alzo l’asticella del cosiddetto “Colpo del Re”, e cioè ruttare e scorreggiare contemporaneamente: una scarica di diarrea continua e straziante (che un mio amico chiamerebbe “pisciare dal culo”) accompagnata da conati e rigurgiti di succhi gastrici, mentre il sudore è così tanto che a mia madre scivola la mano dalla mia fronte ed io, per la prima ed ultima volta in vita mia, anche se solo per un secondo, mi sento mancare.
Il pomeriggio lo passai a letto, tra apparizioni della Madonna dei Celiaci e la bacinella sempre pronta.
Ricordo anche una cosa divertente: appena mia madre rientro dopo un’assenza forzata di un paio d’ore, gridai “Bacinella! BACINELLA!” anche se ormai non stavo più male. Ma lei non poteva saperlo.
Per poco non mi schiatta d’infarto.

Insomma, la vita del celiaco non è impossibile. Ha i suoi alti e bassi, ha sintomi diversi, compare ad età differenti.
Ma è sempre stata una dieta, e poco più.

Il problema vero, negli ultimi anni, è chi la parola dieta l’ha presa troppo (poco) sul serio.
Ora, tra veganesimo, fruttariani e mangia sassi, la parola dieta è più usata di un cesso dell’autogrill. Ed ora comprende anche quella senza glutine.
Perché ora c’è la sensibilità al glutine.
Dio cristo.
La sensibilità.
La sensibilità a me ha sempre causato cazzi amari: piangere per le pubblicità, soffrire più del dovuto per una storia finita, piangere per un’altra pubblicità.
In questo caso, ‘sta sensibilità al glutine mi causa un gran rodimento di culo.

Celiac_Prob

Perché ora il glutine è ovunque per tutti, ma nel modo sbagliato.
Perché ora se ti fa male la testa dopo un piatto di pasta, sei sensibile al glutine. Non è il fato.
Se hai mangiato una pizza ripiena di alici, soppressata e bufala, e poi ti gonfi, sei sensibile al glutine. Non è che stai digerendo la merda.
Se l’altra notte hai sognato la farina, sei sensibile al glutine. Non è che ti sta per morire il vicino.

Tutta ‘sta sensibilità aumenta la richiesta, solo che chi offre ne sa ancora meno di chi chiede.
Perché mentre chi scopre, o pensa di aver scoperto, la sua enorme sensibilità non sa di cosa parla, non sa che il glutine è una proteina, che i villi intestinali di un celiaco sono bruciati mentre l’interno di un intestino normale sono il bosco di braccia tese di Battisti, il sensibilino non sa che significa vomitarsi l’anima o non saper dove mangiare ché tanto se sgarra al massimo si gonfia un po’, intanto chi si trova una richiesta così alta di cucina senza glutine s’improvvisa. Inventa il cazzo di sapone per le mani con la scritta “Senza Glutine” in bella vista quando il glutine o te lo mandi giù, o non ti fa una mazza. Compaiono cartelli a caratteri cubitali con scritto “Senza Glutine” ovunque, fuori da gelaterie, pizzerie, ristoranti, che non hanno cambiato il menù né tanto meno la cucina. Però c’è scritto, quindi è vero.
Come la Bibbia.

Celiac_Trend

Io, ai sensibili al glutine, auguro un giorno da intolleranti, al glutine.
Un giorno in cui dopo un paio d’ore dall’etto di pasta si possano svomitazzare l’anima, giusto per fargli capire che sì, sicuramente limitarne l’assunzione fa bene a chiunque ma che no, la celiachia non è una cazzo di moda.
La celiachia, quella vera, se presa sottogamba può dar problemi seri alla tiroide, portare al cancro all’intestino, allo stomaco. Insomma, mica cazzi.

Quindi, per favore, smettiamola un secondo di far diventare moda il cibo, fermiamoci un secondo dal trend della cucina particolare.
Capite cosa avete, se avete qualcosa, e mangiate di conseguenza.
Ma per voi, non per l’immagine che volete gli altri abbiano di voi.

Io, adesso, dopo che il Duplo non m’interessava ed il pane me lo faceva mamma, se passo davanti ad una pasticceria o sento l’odore del pane fresco, un po’ rosico.
Se smettessi improvvisamente di essere celiaco, anche solo per un giorno, ingrasserei una decina di chili tra pasticcini e pizza bianca con la mortazza.

A ‘sto punto, se non volete strafogarvi per voi, fatelo per me.

Sensibilini.