Improvvisate #2 – Come Tifare Ancora Per Lance Armstrong

(cose mal digerite ed appuntate al momento che copincollo prima che finiscano sotto al sedile di “Wristcutters”  detto anche “di cosa stavamo parlando?”)

Chi abita a Roma sa di cosa parliamo quando sgraniamo gli occhi davanti ai “cambiamenti” da campagna elettorale. Come dicevo qualche tempo fa, la ventata di aria nuovamente vecchia penetra nelle crepe istituzionali della città, riempie gli ignoranti polmoni della gente ed arriva al cervello facendoti credere che sia tutto vero. Una sorta di gigantesca allucinazione collettiva che ti fa vedere operai che operano, vigili che vigilano e autobus che autobussano.
Cose reali, ma che poi spariscono regolarmente alla conclusione delle elezioni.

Ma siamo nel 2013, esiste un mondo parallelo fatto di reti wifi e smartphone grazie al quale veniamo a sapere che le stampanti 3D sono in grado di riprodurre un rene
e che Gianni Alemanno ha un account YouTube.
Lo scopri perché ti tocca vederlo in tuta nera mentre va a caccia di mignotte sulla sua moto, perché a lato del video i primi consigliati sono Alemanno tra la gente, Alemanno spazzino,Alemanno a un comizio, Alemanno che respira, Alemanno che guarda. Sembrano le serie di libri per bambini dove l’orso sfigato diventa un eroe all’ultima pagina.

Oggi, però, si è raggiunto il climax, il colpo di scena finale che tutto crea e tutto distrugge: papà Berlusconi raccomanda il figlio tutto speciale Alemanno. Un video che non puoi esimerti dall’ammirare, slogando le tue mascelle in un’espressione tra l’incredulo ed il santiddio.

Lo zar compare seduto nel salotto di una casa scelta ed arredata probabilmente dallo scenografo dello spot con Alvaro Vitali per MAS: tessuti dorati, quadro con dipinto un qualche monumento con particolare dorato, lampada di mia nonna con finiture dorate, protagonista con faccia d’orata.

Più o meno così.
Più o meno così.

In rigoroso completo con spilla tricolore, papà Silvio sembra il genitore chiamato dal preside perché non sanno se bocciare o meno il figlio. Un padre farebbe di tutto, pur di far passare l’anno (cinque, in questo caso), e quindi di getta nel classico pippone pidiellino con introduzione, cose cattive sui comunisti, cose buone sul figlio.
Inizialmente esorta tutti a votare (#vincechivota), sottolinea che il sindaco è di tutti i romani come se questa cosa non fosse mai stata già detta in ogni occasione al mondo per qualunque tipo di ruolo, e comincia con il pippone contro Marino (solo scrivendo il nome, gli ho già fatto più campagna elettorale di quanta ne ha fatta per sé stesso).
Nell’ordine, papà tentacolo lungo ci dice di non affidarci al vivisezionista seriale perché:

– “Marino non è di Roma“.
Vero, è di Genova. Così come anche Alemanno non è di Roma, bensì di Bari;

– “Marino non conosce la città”.
Ora, non so come fare le pulci in fatto di toponomastica urbana a Ignazio, però ieri al confronto Sky a sbagliato un re su sette, mentre er sindeco sui nomi dei Colli ha preferito glissare. Giudicate voi, io lo chiamo attacco di “mecacosotto”;

– “Marino non ne conosce vita e problemi”.
Sarà, ma di certo sarà a conoscenza del fatto che la vita rasenta quella di gente sotto coprifuoco, che ha perso il senso della realtà e cammina coi paraocchi, ed i problemi sono quelli di una città dell’est Europa di vent’anni fa, con servizi inesistenti e criminalità a mille.

Poi passa al figliol prodigo, elogiando la sua conoscenza della città (“di Roma conosce tutto”); dice che “ha lavorato bene per cinque anni”, anche se penso volesse dire “ha piazzato gente a lavorare per bene”; sa cosa bisogna fare per migliorare la nostra vita e quella della nostra città, e questa sembra una frase che un maniaco direbbe alla sua vittima in un filmaccio di serie ics: “so io cosa è bene per te piccola, so cosa ti serve. Quello che ti serve è essere sodomizzata mentre ti tengo la testa nel cesso tappandoti il naso con un morsetto da batteria”. Diciamo che mi è suonato così.

Infine ci raccomanda di andare-a-votare, e di scegliere la “competenza, l’esperienza e la serietà di Gianni Alemanno, sindaco della nostra capitale”.

Un papà in piena forma, tre quarti di minuto splendidi, perfetta sintesi della propaganda liberticida cui ormai siamo abituati.

Dopo anni, possiamo capire da soli chi e chi non, giudicando in base a fatti reali, dalla lettura di una delibera sbagliata ad una passeggiata per Roma. Perché basta fare due passi per capire che troppe cose non vanno.

Io Marino il vivisezionista seriale non l’ho votato al primo turno, avevo ben altro per la matita.
Ora è un passaggio obbligato, ed agire al contrario sarebbe come tifare ancora per Lance Armstrong.

Roma E Lavori, Gioia Ed Odori

Per ogni sesso e quoziente intellettivo al di sotto della media.
Per ogni sesso e quoziente intellettivo al di sotto della media.

Mi alzo ancora impastato dalla sera prima, gli occhi gonfi ed il cervello che sbatte nel cranio nemmeno fosse la fail compilation di Aprile. Dopo la pisciata da seduto per non sbagliar mira ed un caffè veloce, mi metto la maglietta del giorno prima, i jeans dei due giorni prima, e le mutande me le tengo, che da seduto mentre pisciavo ho visto che si può ancora fare. Calzini leggeri, scarpe ancora più leggere. Mi preparo la prima sigaretta della giornata, inforco gli occhiali da sole ed esco.

Dopo aver salutato Drugo per tutte le scale che portano alla strada chiusa, m’incammino per arrivare all’incrocio dove prendere l’autobus. E noto la prima cosa strana. Lì per lì non capisco, è talmente impercettibile e sconcertante allo stesso tempo che i miei occhi si muovono come quelli dei camaleonti per un po’. Considerando che i miei occhi già solitamente si muovono in quel modo, questo crea un corto circuito che mi fa crollare definitivamente, e mentre mi inginocchio in preda ad una crisi mistica, capisco: hanno rifatto la strada. L’asfalto fresco quasi luccica, il suo odore è ancora nell’aria ma non è pesante, è quasi un aroma che mi accompagna fino alla fermata. Questo profumo scatena un qualche ricordo, forse un impegno, un qualcosa da fare tra un po’ ma proprio non mi viene in mente, e poi ecco l’autobus.
Stranamente puntuale.

Dopo nemmeno dieci minuti sono già sul treno. Un piacevole e breve viaggio sull’autobus, senza buche o pannelli di ferro che sbattono contro altro ferro che di solito di fanno sperare di morire il più velocemente possibile, il tempo di arrivare al binario che ecco il treno, anche lui preciso come non lo era da mesi. E mentre sono seduto, in viaggio verso Tiburtina, ecco che compare. Lui, l’altissimo, l’intangibile: il controllore. Pensi che in effetti ultimamente se ne vedono molti di più rispetto al solito. Continuo a pensarci mentre gli mostro l’abbonamento, e ci penso ancora mentre scendo le scalette mentre il treno rallenta, e smetto di pensarci quando sento odore di pulito, di appena pulito, e scatta di nuovo il ricordo di dover ricordare, qualcosa da fare tra qualche settimana, e intanto l’odore di pulito mi accompagna mentre scendo per entrare nei corridoi lunghissimi di Tiburtina.

Scendo a largo Preneste nemmeno venti minuti dopo. Scendo dal 409, stranamente vuoto e veloce. Scendo mentre vedo un altro 409 dall’altra parte, anche lì poca gente. Attraverso la strada e decido di aspettare il tram, anche solo per quella fermata, che oggi il mio culo ha più piombo che gli anni ’70. Cammino sulla banchina ed arrivo vicino alla panchina, una di quelle nuove bianche con la seduta più scomoda del pouff di Fantozzi. E mi accorgo che non solo è una di quelle nuove. È una di quelle nuove, ma nuova. Nel senso di appena bullonata, lucida come un ospedale, con la scritta della fermata ancora tutt’intera ed addirittura la pellicola sui vetri pubblicitari. Se Steve Jobs si fosse lanciato nel mondo delle infrastrutture, questa panchina l’avrebbe disegnata lui. Una folata di vento fa muovere un angolo della pellicola, ed un odore di nuovo mi risveglia. Ancora. Mentre nel naso mi arriva l’odore tipico di una confezione appena aperta, nel cervello riparte la giostra che gira per arrivare a farmi ricordare che cazzo devo fare tra qualche settimana. Continuo a pensarci mentre salgo sul tram, mentre sono sul tram, mentre scendo da questo fottuto tram e ancora non mi ricordo che co..

Ed ecco che un ultimo odore mi fa ricordare tutto, come uno che si riprende da un amnesia. Sono a pochi passi dal portone del palazzo della mia ragazza, quando la puzza di un’enorme cacca mi apre le porte della percezione e capisco: siamo in odore di voto.
Questa decadente città che è diventata Roma, ad un paio di mesi dalle elezioni per scegliere il sindaco, rinasce. Si popola di operai stradali indaffarati, di integerrimi controllori, di dipendenti ATAC attenti e precisi. Le strade brillano, le buche spariscono, gli alberi sono potati al punto giusto ed i vigili sono sempre nei loro gabbiotti. Ci sono più poliziotti in giro, ma sono meno invadenti e più osservatori.

E capisco che sotto tutta quella serie di odori, quello dell’asfalto, sotto quello di pulito del treno, tra quello della plastica nuova, sotto a tutto questo c’è la puzza di merda e marcio che è sempre presente, ma che in periodi come questo si attenua e cerca di confondersi tra il nuovo. Si insinua e cerca di distrarti da quello che in realtà è sotto i tuoi occhi tutti i giorni, ma che ultimamente è più bello e profumato.

Mi ricordo che a fine Maggio, il 26 ed il 27, devo andare a votare. E devo scegliere tra uno che forse se ne va ma intanto prova a spruzzare deodorante per l’ambiente per aver vomitato su questa città dopo essersi ubriacato a spese nostre con amici e parenti; uno che ha dovuto fare le primarie per essere candidato di un partito che ormai non esiste più, e che in più ha il piglio di un peluche; uno del M5S; uno che ha contribuito a riempire Roma di cemento e che adesso parla di green economy. Tralascio gli altri, che nemmeno meritano attenzione.

E quindi? Niente da fare, ennesimo voto da naso tappato e occhi socchiusi?

Stavolta no.

Me dici chi?
Te dico Sandro Medici.

Uno che sa il fatto suo, sa cosa dice, sa cosa ha fatto. Non mi dilungo, qui trovate tutto. Spoiler: suona le percussioni da dio ed è della Roma. Poi fa anche politica eh.

(rimanete sintonizzati verso l’Angelo Mai Altrove Occupato. non si sa mai)

Ridiculum Vitae

I'm Here For Da Job.
I’m Here For Da Job.

Sono passati più o meno dieci anni da quando ho iniziato a lavorare. Parlo di un lavoro “vero”, con busta paga e contratto. Era un magazzino vicino casa, dove dalle 7 alle 16 mi facevo un culo tanto a riempire muletti di sacchi di concime, fontanelle in ghisa ed ero circondato da gente che aveva finito a malapena le medie grazie probabilmente a minacce e macchine rigate ai professori. C’era uno che diceva di fare rap, mi diede un suo cd perché “non hai capito spacca proprio, e non perché l’ha fatto io zì”. Ecco, sembrava sentir cantare uno affetto da sindrome di Tourette su basi fatte tirando una palla matta di tre chili dentro un negozio di cristalli e pentole, e le tematiche principali delle canzoni erano la figa, i soldi e la figa piena di soldi. Durante le pause pranzo l’argomento più quotato erano le avventure coi transessuali, i neon sotto le scocche della macchina ed il pallone. Niente di diverso dalle chiacchiere da bar, in pratica. Di più c’era solo la puzza di ascelle ed ignoranza.
Poi c’era il responsabile del gruppo, un signore di un metro e mezzo per 130 chili con mani grosse come i Paesi Bassi e così ignorante da far sembrare Antonio Razzi un socio onorario de La Crusca. Probabilmente l’unica cosa che abbia mai letto in vita sua sono le istruzioni della caldaia.
Ed infine il titolare, uno che si faceva vedere solo per strillarti dietro e che ha il cognome della stessa macchina che guida: Ferrari. E mi fermo qui.

Poi ci fu Lecce, dove mi trasferii per provarci. “Chi non risica non rosica”, ed inutile dirvi che se sono tornato a Roma a rosicare ho rosicato parecchio.
Un tour operator che forniva servizi al 90% delle agenzie viaggi della Puglia, Basilicata e nord della Calabria, totalmente a gestione familiare: capo donna, fratello commerciale, altro fratello e cognata in amministrazione, cugine (le uniche sane di mente) con me al booking.

La situazione era tranquilla fino a quando si è inserito il marito della “capa”, un folle la cui idea di commerciale era fare volantini fatti con Paint. Giuro. Sarebbe stato meglio fare scritte in verde carciofo su sfondo verde pisello in Comic Sans. Corsivo. Grassetto.
Inutile dire che, essendo tutti imparentati, in problemi lavorativi (che c’erano) venivano schiacciati da quelli personali: da una cena del giorno prima ai più vecchi ed ammuffiti scheletri nell’armadio, ogni giorno era una puntata di Beautiful di cui ero il protagonista inconsapevole. Mi sentivo come l’amico della famiglia Forrester invitato al dietro le quinte di una loro sfilata che assiste ad un omicidio tra parenti, viene interrogato dalla polizia, trattenuto, percosso ma poi rilasciato.
Previously on “Tour Operator”.

E si torna a Roma, e si va a Tp (che vi risparmio, visto che ne ho parlato in abbondanza, ma se proprio volete uno spiegone lo trovate qui).

Prima dopo e durante, ci sono state vendemmie, animazioni, accoglienza ad un centro estivo, banchista da papà, pubblicista-social networker, receptionist in un lido di lusso che di lusso aveva solo i prezzi. Ora sono all’Angelo, mi trovo bene ma non posso considerarlo un lavoro vero e proprio per quanto non abbia intenzione di mollarlo.

Insomma, il mio curriculum è quello di uno che non ha una laurea, non ha studiato mai davvero qualcosa e non si è mai specializzato in nulla. Ma ci ho provato, ho girato, tentato, sudato e raccolto molto, nonostante tutto e tutti, ma soprattutto nonostante me.

Ed ora, quindi, insomma, “ma che vòi da noi”?
Boh, non lo so. So solo che questo, più che curriculum, è il mio “Ridiculum Vitae”.

E se adesso, dopo mesi, ancora non vengo chiamato da nessuno, io comunque non mi sento in colpa per le scelte che ho fatto. Non avrò un pezzo di carta col prefisso “Dott.” davanti al nome, ma sono pieno di esperienze da mettere sul campo. Quale, ancora, non lo so.
Ho provato ovunque, per qualunque tipo di lavoro. Le risposte che ho ricevuto sono le stesse che ho di vincere la schedina senza giocarla.
Ma non m’arrendo: mi viene il vomito, mi stanco, mi illudo e poi ci rimango male.. ma non m’arrendo.

E giuro che non ho visto Ridge infilare mezzo metro di lama nella schiena di quel tizio.

Roma Kaput Mundi

Lo è.

C’è stato un periodo, qualche anno fa, in cui si andava tutti in giro con i motorini fino a Trastevere e si beveva al Mr. Brown fino a cominciare a ridere da sentirsi male. Era il periodo del Villaggio Globale a sentire i concerti, a ballare e a bere Merlot scadente nella loro osteria. Serate che finivano con gente (me) ubriaca marcia nei carrelli della spesa trainata da gente altrettanto ubriaca. Weekend che finivano troppo presto ma che venivano vissuti dal primo all’ultimo minuto, come se spingendosi oltre il limite epatico fosse possibile rimandare l’arrivo del maledetto Lunedì, fatto di aule, banchi e professori che “tanto non capiranno mai”. Erano serate da passare infreddoliti su selle di mille motorini, di catene difficili da aprire dopo troppe vodka alla pesca (mi viene il vomito solo a scriverlo), serate di abbracci spontanei e guance rosse. Tutti erano amici di tutti, e nessuno era solo: c’era la comitiva, il gestore del locale, la cameriera, il passante. C’era Piazza Trilussa con i suoi scalini che ospitavano sempre qualcuno da incontrare, dove ti ci mettevi davanti e cominciavi a scrutare tra la folla manco si avesse tra le mani un libro di “Dov’è Wally?”. E la gioia di trovarlo, il proprio Wally, era sincera e spontanea, perché magari era pure un tuo compagno di scuola ma, che cazzo, non eri in quel cortile o nei corridoi ma in giro, e potevi fare quello che volevi.
Roma, in quei tempi e con la testa di un adolescente, era un intero mondo da scoprire, anche se magari si rimaneva (e si è rimasti) sempre nello stesso quartiere, quasi sulla stessa via.

In questi anni, però, troppe cose sono precipitate a Roma. Il connubio fra menti spappolate e politiche devastanti ha fatto precipitare la capitale in un vortice che risucchia tutto quello che di buono c’è. Ho visto locali chiudere sotto i colpi dei verbali dei Vigili, ragazzi morire per un rissa idiota, cambi di gestione che hanno obbligato ad alzare i prezzi abbassando la qualità. I Centri Sociali sono stati presi di mira da istituzioni che pensano solamente a gonfiare i propri portafogli e ad inchinarsi ai capetti che a Roma vogliono la disciplina e  l’ordine. Le associazioni culturali aggirano le regole con trucchetti da due soldi, mentre chi tenta di farle rispettare, quelle regole, viene additato e messo in un angolo, vessato di continuo fino a quando, stremato, rinuncia a portare avanti le proprie iniziative.
E faccio mea culpa, mea iper culpa per il fatto di non essermi mai davvero interessato a come funziona un luogo in cui le cose vengono fatte girare per il verso giusto, e pochissime volte mi sono impegnato davvero per far sì che questi posti potessero continuare ad avere i propri cancelli aperti.

Ora però ne ho la possibilità, perché da una settimana ho la fortuna, ed il piacere, di lavorare all’Angelo Mai Altrove. L’Angelo ha una storia forte, potente, fatta di occupazioni, sgomberi, altre occupazioni, delibere, ristrutturazioni, impegno, sudore, lacrime e risate. E’ uno di quei luoghi che, minimizzando, si potrebbe dire di “aggregazione”. E dico minimizzando perché non è solo questo, ma è mille cose di più. Mi sono bastati pochi giorni per capire che lì dentro ognuno è parte di un gruppo, che tu sia uno di loro da anni o da pochi giorni. Entrando in quel posto, si capisce che l’aria è piena di idee che vengono condivise e sviluppate, progetti che anche se a fatica vengono realizzati con i soldi di tutti.
L’Angelo, dove si trova ora, non era così: era una bocciofila dimenticata da tutti che è stata presa e trasformata in teatro e sala concerti, con due bar ed un’osteria in cui tutti sono i benvenuti. Non c’è una prima volta in cui si entra lì, perché c’è sempre un momento in cui riconosci una situazione vissuta, che siano gli gnocchi di Pina fatti in casa come faceva tua nonna, o i sorrisi di chi ti serve da bere come succedeva tempo fa. Quella dell’Angelo è una famiglia, che va oltre il legame di sangue ed arriva ad un livello più alto, un livello di collaborazione e sostegno che in giro, in questa città, non si trova più.

Ma non è tutto rosa e fiori: l’Angelo Mai, da otto giorni, è occupato. Ed il motivo è molto semplice.
Circa un mese fa sono stati costretti a chiudere il bar e l’osteria, uniche fonti di sostentamento (oltre all’entrata che però non è sempre a pagamento) per poter continuare a finanziare i concerti, le mostre, gli spettacoli, le rassegne cinematografiche. Un’imposizione che, nel giro di pochi giorni, ha portato i ragazzi a dover chiudere tutta la struttura. Un’imposizione giustificata dal fatto che, secondo la giunta Alemanno, i fondi non venivano usati per le cose citate sopra ma solo per guadagnarci sopra. Un’accusa grave ed infondata, un colpo duro per un collettivo fatto di ragazzi pieni di passione.
E proprio questa passione ha portato tutti a decidere di occupare, unica scelta possibile per poter far fronte alle spese di gestione e ai pagamenti di chi ci lavora quotidianamente. Una decisione difficile ma affrontata con gioia, nonostante il costante spauracchio dello sgombero.

(vi ricordo, nel frattempo, che “associazioni” come Casa Pound hanno ricevuto -gratis- dal comune di Roma edifici e spazi enormi per le loro attività come riunioni, cinghiamattanza ed organizzazione di raid contro chi è ritenuto “altro”.)

Insomma, l’Angelo è in pericolo.
Noi (perché sì, mi reputo già un “noi”) siamo pronti a tutto, perché luoghi come l’Angelo DEVONO rimanere aperti, DEVONO essere ancora luoghi di incontro per i cittadini, DEVONO continuare a proporre iniziative culturali. Ricordatevi che l’Angelo Mai ha ospitato centinaia di eventi, ed ultimamente ha ricevuto il supporto degli affezionatissimi Afterhours con un concerto davvero unico. E continua ad avere supporto da esponenti di tutti i generi.
Quello che credo però è che debba avere anche il vostro, di supporto. Anzi, soprattutto il vostro. E non intendo che dobbiate venire a spendere per forza, perché il supporto più grande che possiamo ricevere è la vostra presenza, il vostro passaparola, la vostra voglia di vedere ancora aperti posti come questo.

Solo con posti come l’Angelo Mai altrove si può ancora far qualcosa per la comunità, per poter tornare tutti sui motorini a cantare, per fare amicizia con il gestore del locale e col passante, per poter di nuovo incasinarci ad aprire la catena.

Per poter tornare, di nuovo, ad essere orgogliosi della nostra città e di chi ci abita.

Stessa Lotta, Altra Merda

“One does not simply walk into Malagrotta.”

Per chi non conoscesse la mia zona (Malagrotta – Ponte Galeria), a voi una piccola introduzione.

Mordor.

Fine introduzione.

Nella mia zona arrivano tutti i vostri rifiuti, di tutti voi che abitate a Roma. Quindi quando buttate i piatti di plastica, la carta, le mini istruzioni dell’iPhone5 ecco, arriva tutto qui. In più, quando andate all’ospedale per farvi il test dell’HIV dopo l’Erasmus, ecco anche la siringa che conteneva il vostro sangue arriva qui.
Qui da noi, in pratica, arriva la vostra merda.

Ora, come saprete (?) qui abbiamo la discarica di Malagrotta, aperta ormai da più di trent’anni, dove arrivano quasi 5000 tonnellate di rifiuti al giorno. È come se dall’alba al tramonto vi scaricassero a 500 metri da casa mille elefanti Africani. O poco meno di 45000 dei vostri preziosi iPhone5. Questo fa della discarica di Malagrotta il più grande impianto di “smaltimento” rifiuti d’Europa.
In più abbiamo inceneritori, gassificatori ed una raffineria perché che cazzo, se dobbiamo farle le cose facciamole bene.

Cosa comporta tutto ciò?
Innanzitutto, praticamente ogni giorno l’aria si riempie di quell’odore tipico della morte. Immaginate di annusare un barattolo di vetro che aprite dopo cinque anni, ed in cui avevate messo due uova sode, un passerotto, quattro cucchiai di merda di quattro tipi diversi (cena messicana, fagioli con le cotiche, pannocchie di Calcutta, aglio e cipolla) ed una copia di Libero.
Ogni sera, poi, i gabbiani ci deliziano con il loro passaggio della durata di circa un’ora che sì, col tramonto dietro vengono belle foto.. se al loro culo da cecchino non riesce un headshot.

La divisa da faggiano: un must che resiste a tutte le mode.

La cosa ben più grave e seria, però, è la morte vera e propria che l’insieme di queste cose porta con sé. Il tasso di mortalità, se non erro, si aggira attorno al 28%, media altissima rispetto a quasi tutte le altre zone di Roma (ma attenzione perché lo schifo arriva fino a Monteverde, e oltre). E non risparmia nessuno: dai ragazzi di quindici anni morti di leucemia a persone che a meno di settant’anni si beccano i tumori più strani.
Aria avvelenata, falde acquifere inquinate, la fiamma della raffineria che brucia manco fosse l’inizio di “Blade Runner”. Tutto insieme, tutto il giorno.

E qui arriviamo a Sauron, quello che tutto ha costruito e tutto controlla: Manlio Cerroni.
Due righe sull‘avvocato: è così vecchio che i dati sulla sua carta d’identità sono scene di caccia ed impronte di mani. È così ricco che potrebbe comprarsi due volte il debito della Grecia e comunque andarci sopra. Ha la pista per il suo elicottero nei pressi della discarica: leggenda vuole che mentre era a bordo, per due volte in due occasioni diverse l’elicottero sia precipitato. Illeso. Roba che io una volta sono finito in coma per aver sbattuto un ginocchio contro un tavolino.
Ed ovviamente, il caro vecchio Manlio ha le mani (i tentacoli) ovunque, e gli basta uno schiocco di dita per azzittire tutti e sentirsi dire “zì badrone”. Nulla sembra poterlo fermare.

Sembra.

La brace unisce. Da sempre.

Si perché da mesi, proprio di fronte a casa mia, si sta lavorando per sistemare il nuovo sito per la nuova discarica. E si, perché Malagrotta sembrerebbe leggermente piena, ma sono anni che l’attività viene prorogata. E visto che ormai la prospettiva di potermi godere almeno dei super tramonti sta (pronti per la chicca?) TRAMONTANDO, così come la speranza di molte persone della zona, i comitati di zona sono riusciti finalmente ad unirsi. Dopo trent’anni, finalmente migliaia di persone si sono ritrovate sotto la stessa bandiera. Niente politica, niente secondi fini (o almeno ci si prova).
In strada è scesa la gente, quella che la zona ha contribuito a farla fiorire davvero, con costanza e senso civico, con gli scioperi della fame, con la gente incatenata ai cancelli, con i cortei e le fiaccolate (di questi temi in particolare, avevo parlato qui e qui, sul mio blog serio).

È una lotta che va avanti da anni, ormai si può dire decenni. Una lotta in cui ci sono stati dei caduti, ovviamente solo dalla parte dei “buoni”. Ma nuove leve si sono aggregate, me incluso.
Ma è c’è ancora chi mi sorprende ed affascina, come mio padre e con lui centinaia di persone, che erano lì trent’anni fa e che ancora urlano, s’incazzano, fanno feste, organizzano manifestazioni enormi e coinvolgono sempre più persone.

Pasta al sugo, un altro sinonimo di coesione sociale.

Ed è stato scoprendo le foto che avete visto in questo post che ho capito che la lotta è la stessa, la merda è altra. Ma ci sono persone talmente incredibili da resistere ancora. Duri come la roccia, spaccano tutto ed arrivano oltre, ben oltre il limite entro il quale i più si fermerebbero stremati e umiliati.

Questa gente, come tutti quelli che lottano per le cause giuste per di più senza la copertura di nessuna istituzione, senza nemmeno sentire la necessità di avere accanto un partito.

Questi sono i nostri partigiani, e le iscrizioni sono aperte a tutti.