“Ti Aspetto Al Gate”

Giacomo era all’aeroporto per la seconda volta in due mesi. Non ci tornava da quando si era trasferito, erano state otto settimane di focus sul lavoro e cercare di non ammazzare nessuno in ostello. E la seconda era stata la parte più difficile. Il training era andato liscio nonostante il primo giorno si fosse spaccato un neo sulla fronte con una capocciata a un tavolo, davanti a tutta la classe. La trainer gli aveva dato un cuoricino antistress, e la persona a cui veniva passato doveva presentarsi in modo informale. Aveva una camicia con un taschino nel quale provò a infilarci il cuore ma era troppo grande, non ci stava tutto, era proprio infilato solo un pezzetto e dopo pochi secondi di equilibrio instabile in cui Giacomo si muoveva parlando di sé ecco che il cuore cade, finisce sotto a un tavolo e lui, con un’agilità non sua, si lancia per prenderlo e BAM! neo su angolo del legno, rivolo di sangue caldo sulla fronte e trainer che sbianca. Cerotto, risate, that’s a me, Giacomo!
Dopo due mesi era operativo insieme a tutti i suoi colleghi e le sue colleghe, pronti ad assistere clienti al telefono coi loro problemi di accesso all’account, pagamenti, cose basiche prima di partire col lavoro vero e proprio, fatto di ospiti fuori casa senza chiavi, proprietari irraggiungibili, e tutto il corredo di bestemmie che ci veniva insieme.

Giacomo era all’aeroporto per la seconda volta in due mesi ed era già entrato in modalità vacanza, dopo i primi giorni in ostello finiti a litigare con un portgohese ubriaco e continuati in un’altra struttura, più accogliente, più amica. Proprio in quei giorni però si sarebbe dovuto trasferire nella prima stanza in affitto della sua vita a Lisbona, e questa visita gli aveva permesso di affittare una stanza solo per loro per quella settimana. Ci era passato la mattina per lasciare le sue valigie e Maria, la proprietaria, era stata subito più che accogliente, lasciandolo libero di gestire spazi e tempi come voleva. Giacomo aveva spiegato in inglese gli spostamenti di quei giorni, lui che stava traslocando e lei che veniva a farsi un’idea della città, Maria capiva il giusto e rispondeva il minimo ma sempre con entusiasmo, con un’empatia sincera nonostante si fosse sviluppata in quei pochi minuti di conversazione. Empatia che Giacomo non avrebbe poi riscontrato così frequentemente nei portoghesi, e che solo successivamente gli risultò ancora più pura e lucente.

Giacomo era all’aeroporto per la seconda volta in due mesi e ancora non aveva idea di quanto familiare l’aeroporto di Lisbona sarebbe diventato, quanto facile sarebbe stato impararlo a memoria. Non ci sarebbe voluto molto, visto che ha solo 3 Terminal: è tipo un Ciampino che ce l’ha fatta per pochissimo. Però acquisire la sensazione di familiarità con un posto gli dava fiducia in se stesso, e lo manteneva alla giusta distanza dall’Alzheimer.
Era piazzato davanti all’uscita giusta, ne era sicuro: aveva controllato le prime sedici volte perché se lo era scordato tra adrenalina, ormoni e piccole tachicardie, altre otto per controllare che fosse in orario, e quattro giusto per congratularsi con se stesso del fatto che ora sapeva gate e orario a memoria.
Sapendo tutto il tuttibile su questo dannato aereo che sembrava essere in ritardo di anni pure se stava perfettamente in orario, Giacomo si era girato una sigaretta quasi alla cieca, ché guardava più l’uscita che cartina e filtro e tabacco, ma ormai era un così esperto fumatore che avrebbe potuto girarla al buio, bendato, con Justin Bieber sparato a tutto volume e confessando i suoi più torbidi segreti, basta che fate atterrare questo fottuto aereo!
Si era accesso la sigaretta dentro l’aera fumatori subito alla destra di una porta scorrevole, che davvero figurati se avrebbe mai violato una regola stupida come quella, solo che ancora non capiva le aree fumatori all’aperto. Non le comprendeva. All’interno dell’aeroporto certo, nemmeno doveva pensarci al perché, la riposta era comunque graziarcazzo, ma fuori? Fuori è fuori, o lo vieti del tutto o non rompermi il cazzo, che manco butto la cicca in terra, piuttosto me la tengo in tasca se non c’è un posacenere, ma per chi mi avete preso oh? Io le regole le rispetto, per dio.

Giacomo era all’aeroporto per la seconda volta in due mesi ed era leggermente nervoso.
Quasi stava per buttare la cicca in terra, guarda un po’, ‘sti bastardi, e invece la spense con cura sulla piccola griglia accanto al secchio, per poi buttarla nel piccolo contenitore di ferro sporco e storto come i suoi polmoni.
Rientrò risucchiato dal rumore delle porte scorrevoli che si aprivano, si gustò il cambio di clima, quel tepore tra l’umano e il condizionatore che ti accoglie mentre fuori Lisbona si sta riprendendo da due mesi di pioggia e fa il suo clima da Aprile, quel freschetto che ancora ti fa piacere sentire il caldo che fanno gli altri esseri umani, prima di schifarli appena fanno venticinque gradi e ti stanno a quei duecento metri che guarda mi stai opprimendo.
Si aprì la giacca, incrociò le braccia e si mise ad aspettare in una ridicola posa da buttafuori, pronto a far passare tutti i passeggeri del prossimo aereo tranne una.

Giacomo era all’aeroporto per la seconda volta in due mesi, e una volta uscito aveva la sua mano stretta nella sua mentre si infilavano nel taxi, mentre salivano le scale per poggiare cose e corpi nella stanza di Maria, mentre ne uscivano due ore dopo leggeri, affamati, pronti a mangiare cibo come avrebbero fatto di continuo, nei giorni successivi, a divorare carne e pesce mentre si mangiavano con gli occhi a vicenda. Lisbona li avrebbe graziati con un sole che, va beh, c’era da ammetterlo, pure se faceva caldo la gente intorno gli stava simpatica, a Giacomo. Quando stavano insieme in realtà tutta la gente era simpatica, e avevano pensato che fosse sempre un po’ pure merito loro, che a vederli non è che ti sentivi proprio di trattarli male, a quei due, con le mani di uno nella mano dell’altra, fuse, che a vederle oggi in una foto avresti pensato a un’intelligenza artificiale che aveva fatto tutto bene, tranne proprio le mani. E invece no, nessun’intelligenza di nessun tipo avrebbe mai potuto fare tutto così bene e fallire solo le mani. Non c’era proprio modo di inventarseli, a quei due, perché prima di loro non era esistito niente di simile e quindi non c’era archivio, biblioteca, museo, quadro, foro, libro che parlasse d’amore da dove andare a pescare per riprodurli. Figuriamoci le mani.

Lisbona in quei giorni era bella, forse come non lo sarebbe più stata, almeno per Giacomo.
All’aeroporto ci sarebbe tornato tante volte, nei cinque anni successvi a quell’Aprile caldo, luminoso, profumato. Ancora non sapeva che una di quelle volte sarebbe stata per lasciarla andare via. Ancora non lo sapeva e non doveva saperlo nessuno dei due, quei due che avevano ancora tempo per stringersi le mani, farsi baciare dal sole e rendere il mondo un po’ più bello e divertente.

La finestra sul campanile

Davanti la finestra della mia camera la vista non è più o meno bella né più o meno brutta di altri posti medi nel mondo. Per dire, la vista qui è meno bella di quella che avevo a casa mia a Roma: paradossalmente, pur vivendo circondato da morte nascosta dietro discariche e fabbriche, la mia cucina dava sulle colline, su bei tramonti, su aerei che atterravano facendoti immaginare storie. Però ne ho pure viste un sacco brutte forte, tipo quelle nei palazzoni a Magliana, o con la vista nei cortili interni abbandonati dal signore. Qui a Lisbona me ne ricordo uno particolarmente brutto, sia per il (non) panorama che per la questione umana, di oppressione pure guardando fuori da un vetro.
Era la cucina di un grande appartamento, in ci vivevano un paio di colleghi con altre due, tre persone. Una bella casa che nonostante fosse in condivisione, dava l’idea di avere spazio per viverla. Cosa rara, in una città come questa, con gli affitti alle stelle e le persone che pagano uno sproposito per degli sgabuzzini, spesso senza finestra alcuna. In ogni caso, la cucina è vivibile, fornita e con una piccola veranda chiusa tipica di alcuni palazzi della città. Tipica è anche la finestra scorrevole che solitamente affaccia su qualcosa. In questo caso, i primi tempi, questo qualcosa era un’altra cosa molto tipica di Lisbona: un palazzo vuoto. Nel senso, vuoto dentro, senza piani, una sorta di scenografia scala e peso uno a uno. Tipo la casa in Via dei Matti numero 0 della canzone. Le strade sono costellate di questi enormi pannelli di palazzi, sorretti da complicati intrecci di travi di legno e acciaio, bulloni enormi che scarnificano il cemento, vernice che cade dalle pareti staccandosi come pezzi di ghiaccio da un iceberg. A volte ci sono i segni di un incendio, come il nero intorno a una finestra. Son spettacoli pietosamente belli, quelli di queste scenografie di film che non gira più nessuno.
Una parete di queste stava lì, a nemmeno dieci metri dalla finestra scorrevole della veranda. E copriva tutto: la vista sulla strada a destra, una piccola collinetta sulla sinistra, e di base la luce del giorno in tutte le direzioni, a tutte le ore. L’unica altra cosa visibile era l’arrugginita scala antincendio che scendeva a zig-zag lungo la parete del palazzo. Volendo ci si sarebbe potuti andare e anzi, in teoria, ci si sarebbe dovuti andare in caso di emergenza. Ma col cazzo: mi accontentavo di aver poggiati lì i posacenere e dovermi solo allungare un poco per ciccarci dentro. Poi è successo che dopo un po’ di tempo, a sorpresa, hanno iniziato dei lavori nel palazzo vuoto. Tipo, che ce ne sono a bizzeffe, in giro, e tu dici “proprio questo?” e la risposta è un sì che dura mesi, che tu vai a trovare i tuoi amici e la parete davanti, quella che prima non conteneva nulla, adesso è nuova, ridipinta e soprattutto molto più vicina alla finestra. Nelle settimane successiva, sembrava vederla crescere. Ed è strano eh, dire di aver visto crescere una lastra di cemento e acciaio. Però così è stato, l’abbiamo vista crescere fino a che quasi si faceva toccare. Sembravamo dei piccoli Tim e Lex che accarezzano il brontosauro.
È finita che salire sulla scala antincendio non sarebbe stato più così pericoloso, visto che ormai l’altro lato, quello che dava prima sul vuoto e poi sulla parete pannello, ormai poggiava su quella che era diventata la nostra parete dinosauro adottiva, perfettamente incastrata tra due palazzi. In caso di incendio in qualsiasi dei due, comunque, sarebbe stato inutile scappare perché le fiamme avrebbero attaccato subito l’altro in un secondo.

Davanti la finestra della mia camera la vista non è più o meno bella né più o meno brutta di altri posti medi nel mondo.
Affaccia per metà sulla parete lunga e sinistra di una chiesa. Sinistra se la guardi da davanti, ma pure se la guardi e basta una chiesa ha sempre un non so che di sospetto. Però questa è lontana, c’è una strada in mezzo per fortuna. Per l’altra metà ci sono palazzi nella norma, alti quanto il mio, più o meno, che fa sei discreti piani di costruzione. Se mi affaccio un po’ (ma poco, che mi caco sotto alla sola idea di avere uno svarione per l’altezza, visto che sto al terzo) a destra si vede la strada che gira e se ne va, e a sinistra il resto della chiesta e in fondo e molto lontano, c’è il Jardim da Estrela e la basilica subito dietro. Insomma, a sinistra c’è molta religione, dalla mia finestra.
E io me l’ero scordato. Perché nostro signore, nella sua immensa bontà, aveva fatto smettere le campane della suddetta chiesa, quella sinistra in base a come la guardi o se la guardi e basta. E lo dico senza sarcasmo alcuno. Per quanto le campane possano magari dar fastidio, alla fine possono ricordarti casa e magari se a casa stavi bene si chiude un cerchio di bei ricordi. A meno che tu non sia il figlio sopravvissuto della Franzoni. In ogni caso, queste campane di questa chiesa sinistra suonavano letteralmente come campane. Sai quando dici a un amico che canta male “madonna che campana che sei!” beh ecco, loro erano proprio fedeli al loro nome. Suonavano i tipici motivetti folkloristici cristiani innanzitutto sempre due, tre minuti prima dell’ora in cui sarebbero dovute partire. E già. Poi avevano questo modo tutto loro di andare fuori tempo a ogni singolo colpo, ogni nota stonata e ricordando solo vagamente e con molti sforzi da parte soprattutto dei non credenti il motivo originale. Cioè, la melodia, che il motivo nel senso del senso, della ragione, del perché, lasciamo perdere che è meglio guarda.
E quindi nostro signore, vostro, loro insomma lui, deve aver imposto la mano sulla coscienza del signor prete facendogli chiamare un tecnico, che ha fatto il suo lavoro di tecnico ma con l’aggravante (in questo caso, un gran vantaggio per tutti) di essere portoghese. Quindi coi tempi suoi. Quindi molto tempo. Quindi un sacco di mattine e sere senza quello straziante grido di aiuto di due enormi tazzine da caffè in rame messe a testa in giù, che piangono tutto il loro disagio come nel finale di una performance andata male di Bells Got Talent. Se il cristianesimo è pace beh, signore mio, hai il mio voto.

Ma poi il signore, che probabilmente senza il rumore delle campane sentiva meglio le bestemmie in romano, toscano e milanese che arrivavano da casa nostra, ha deciso che era tempo per il tecnico di terminare il suo lavoro. Ieri, dopo una serie di prove durate una decina di minuti, nostro signore ha di nuovo inaugurato le campane. A quante pare, le hanno accordate meglio. Al momento suonano solo allo scoccare delle ore, ma lo fanno ancora con un minuto di anticipo e senza troppa cura. Mentre scrivevo, proprio ora, son scattate nel frattempo le 13 e le 13.30. In entrambi i casi ha suonato parecchi secondi prima, e con lo stesso suono senza manco provarci, a fare i due rintocchi dei quarti d’ora.

Davanti la finestra della mia camera la vista non è più o meno bella né più o meno brutta di altri posti medi nel mondo.
Però i suoni.
Ah! I suoni.

Lisbona – Parte Prima

Sono due settimane che cammino con la schiena dritta.
Lei me lo dice sempre, che cammino gobbo. Che dovrei tirar fuori le spalle e fare l’uomo erectus.
Solo che in certi momenti girare per la mia città mi pesava troppo, che i pensieri facevano gruppo e mi schiacciavano il collo. E nonostante io mi guardi molto intorno, mentre cammino, a Roma ormai lo facevo dal basso verso l’alto.

Ora son due settimane, che cammino con la schiena dritta.
Prima di tutto perché mi sento un turista e come ogni turista che si rispetti, guardare ogni angolo di una nuova città è un dovere morale.
E poi perché in realtà mica son venuto qui per fare il turista. Son qui per provarci e provarci significa anche rischiare di fallire, e proprio per questo devi prendere e assimilare e vedere tutto quello che puoi.
Te lo devi godere.

E allora rubo con gli occhi, con le orecchie, ascolto questa lingua che sembra difficilissima e ne rimango affascinato. Obrigado, bom dia, aberto, fechado, tudo bem, non sapere dove vanno gli accenti, sbagliare, riprovare, sbagliare di nuovo, riderne assai.

Il Barrio Alto ti spezza il fiato sia perché per arrivarci, ovviamente, devi salire, ma anche perché ti giri ed è Berlino e poi ti ritrovi a San Lorenzo con gli spacciatori a ogni angolo ma meno rompicoglioni, giri la testa ed è Pigneto coi murales fichissimi e i murales che sfottono i murales. I localacci con la Capirinha a due euro si rincorrono con quelli puliti con la musica dal vivo, con le porte a vetri leggere per attirare la tua attenzione mentre cammini, che vedi i suoni e senti le persone. La birra a poco e i cocktail complicati, lo Ze Dos Bois che ha tre piani praticamente spogli se non fosse per le sedie tutte diverse, un grosso divano e un terrazzo che appena ti affacci pare Trastevere e senti il cuore che vola alto.

Se non fosse che piove da quasi una settimana, il sole a Lisbona è prepotente e colora tutto.
Che io non ci ho mai davvero fatto caso, a quanto i colori fanno bene alla testa, e per fortuna ‘sta città te lo ricorda, con i muri rosa e verdi e gialli e le maioliche che riflettono la luce che si apre e arriva dove quella diretta del sole proprio non potrebbe. I coperchi gialli dei cassonetti e il verde/rosso della bandiera sul parlamento che l’altra sera c’era il vento forte e dava certe schicchere che faceva rumore fino in strada, nonostante se ne stia lì in alto a prendersi tutta l’aria del mondo.

Eh.
Il vento.
Il vento qui è quella cosa che un po’ senti sempre, soprattutto quando il sole ha dominato la giornata e se ne va, lasciando spazio all’aria fredda dell’oceano. O almeno, mi piace pensare che sia così, ma non sono un meteorologo e quindi potrebbe pure essere uno che lascia sempre aperta una porta gigantesca, da qualche parte. Però il vento c’è e con la pioggia a pulviscolo (gnagnarella©) che non smette di scendere ti combina un macello, ti fracichi come se passassi sotto a quelle doccette da festival che ti bagnano a trecentosessanta°. Gli ombrelli si rigirano come pedalini in lavatrice, i binari dei tram diventano degli scivoli in miniatura e le discese si fanno nemiche, tra sanpietrini e pozze agli incroci.

Lisbona è quella città dove hanno deciso di mettere una sede di questa compagnia di telecomunicazioni che è stata abbastanza matta da assumermi, e dove l’aria che si respira è un po’ quella che speri di trovare in una multinazionale, a partire dal prefisso multi: multiculturale, multirazziale. Insomma, una canzone degli Ska-P. Uno di quei posti dove per forza di cose alleni il tuo inglese e conosci un sacco di persone così diverse da te che alla fine ci trovi un sacco di cose in comune. Quei posti in cui il rapporto umano c’è per forza e quindi viene valorizzato. Che almeno ci si confronti alla pari, sempre, ché nessuno sta sopra di te perché è bello, né tu stai sotto perché sei una merda.

Son due settimane che cammino con la schiena dritta.
Mi sento un turista in Erasmus, uno che qui ci sta per sbaglio e allo stesso tempo non poteva far altro che venire qui, come se fosse stato scritto da qualche parte.
Sento cose ora, a trentatré anni compiuti il giorno che sono atterrato qui, che mi chiedo se avrei dovuto provare prima, se magari è la cosa giusta all’età sbagliata.
Poi mi dico che meglio tardi che mai non ha mai avuto più senso che in questo momento e allora ben vengano le paure, i pensieri, ben venga questa enorme amplificazione di sentimenti che ti fa amare il mondo e ti spalanca il cuore e le braccia e la testa.

Ben venga tutto, che è il momento di prenderselo e sorridere se un giorno me lo perderò per strada.