Non è che ci fosse nato, con quel problema. Solo che non ricordava la sua vita senza, quel problema.
I suoi ricordi partivano dalle prime notti insonni, da bambino, e passavano per la paura di venir inghiottito dalla sua stessa stanza da adolescente, con i Red Hot che lo guardavano dai poster con un calzino sul pisello e lo sguardo di compassione.
I concerti in cui doveva allontanarsi dalla mischia appena iniziati, le ore di educazione fisica passate a guardare gli altri correre, le prime volte ancora più imbarazzanti di quanto non siano già, con lui che col terrore di durare troppo e collassare, durava troppo poco.
Non c’era un ricordo che non fosse già avvelenato da quel problema.
Non era mai riuscito, in vita sua, a fare un respiro completo.
Non che ansimasse come un carlino, con la lingua di fuori e gli occhi a supplicare l’abbattimento. Anzi, la maggior parte della gente non se ne rendeva nemmeno conto e questo non faceva che aumentare il suo disagio.
Poche persone ne erano a conoscenza.
Certamente sua madre, che fin da subito fece il possibile per lenire le angosce del figlio pur consapevole della natura psicosomatica, più che fisica, di questo problema. Ma nessun pediatra, dal miglior Big Pharma al peggior New Age, era mai riuscito a fargli riempire del tutto i polmoni.
Un’altra persona che lo sapeva era una sua ex ragazza di quando aveva vent’anni che, stufa di provare a farlo durare più di cinque minuti, lo lasciò per un apneista e non si fece mai più sentire.
Perché una delle conseguenze peggiori che aveva scoperto con l’adolescenza era la difficoltà fisica che sì, in quel caso, lo faceva respirare come un maniaco che chiama a notte fonda, mischiata a quella psicologica della situazione: se provava a concentrarsi sulla partner subentrava la normale preoccupazione di fare figure di merda, subito sostituita dal respiro cortissimo e impossibile da completare, e quindi provava a distrarsi concentrandosi sulla partner e così via, in un loop che lo portava a diventare viola di imbarazzo e tachicardia.
I suoi amici lo prendevano per il culo il giusto, invitandolo a calcetto solo se serviva il portiere, o chiamandolo “Fiatocorto” durante le visioni collettive di Game of Thrones.
Ma il resto del mondo ignorava completamente la sua condizione e lui faceva di tutto per non darla a vedere. Spesso scorreva nella mente tutte le volte che confessarlo, o anche solo dirlo, avrebbe forse cambiato il corso degli eventi, piccoli o grandi che fossero.
Il suo esempio madre lo teneva stretto per sé, di quel giorno di mesi prima in cui camminava lento verso la fermata del bus che lo avrebbe portato a lavoro al centro. Aveva le cuffie grandi premute sulle orecchie, i passi a ritmo di Purple Haze quando notò lei che, poco più avanti, si era girata e con un cenno della mano stava provando a catturare la sua attenzione. Aveva i capelli rossi, crespi come la carta regalo di quella buona, gli occhi verdi e grandi da cartone animato della Disney e un vestito rosso con i rombi blu, leggero come fosse fatto di vento. Lui si sfilò le cuffie e le regalò un sorriso timido dei suoi, le labbra e le palpebre strette come in un’espressione da parente benevolo.
– Ciao! Scusa, ma alla fermata laggiù passa il 98 per il centro?
– Sì sì, ferma lì.
– Ma sapresti anche dirmi qual è la fermata vicino al museo di Storia?
– Beh guarda è la stessa a cui scendo io per l’ufficio, se vuoi saliamo e scendiamo insieme.
Quasi si sorprese, per questa botta d’intraprendenza.
– Volentieri!
La sorpresa fu doppia.
S’incamminarono uno accanto all’altra così, nel modo più naturale del mondo. Dovevano costeggiare un giardino pubblico per qualche centinaia di metri, prima di arrivare alla banchina, ma nessuno dei due sembrava riuscire a dire nulla. Nell’aria c’era quella piccola, leggera scossa elettrica, come quelle che partono dalle sfere di metallo e toccano la superfice di plastica nelle lampade da due soldi che si mettono in stanza per fare atmosfera. Entrambi sembravano temere che il parlare, così come il toccare le sfere da due soldi, avrebbe concentrato tutta l’elettricità del momento, mandandoli in corto.
Era tarda mattinata e nel giardino c’erano poche persone: qualche mamma distratta dal telefono mentre il figlio era intento a fare scorpacciate di terriccio, badanti che al contrario seguivano ogni passo di bambini scatenati che si rincorrevano e si gettavano a terra, per poi puntarsi contro il dito piangendo come se non ci fossero statepesante orecchie a sentirli. Appoggiata alla staccionata in legno, rivolta al marciapiede, c’era invece una piccola cucciola d’uomo con i boccoli biondi e gli occhi che seguivano chiunque passasse lì davanti, le mani poggiate su uno dei piccoli tronchi e la calma di un santone addosso. Lui, che cercava di camminare più leggero di quanto in realtà non si sentisse, la guardava fissare prima una signora con la spesa e il maglione rosso nonostante la primavera fosse già arrivata da un po’, per poi passare al giovane in completo di lino con l’auricolare in fiamme e gli occhiali a coprire gli occhi che si rigiravano ad ogni richiesta di qualche cliente troppo esigente. La cucciola d’uomo seguiva con occhi e testa fino a incrociare qualcun altro, e così via, come stesse assistendo a una lentissima partita di ping-pong.
Arrivò il loro turno, e ovviamente i piccoli occhi puntarono la fresca non-coppia e cominciarono a seguirli. Lui, che dei due era quello che camminava più vicino alla staccionata, agganciò lo sguardo della piccola e le sorrise, di nuovo come un nonno stanco ma orgoglioso della nipote, ma senza aspettarsi una reazione che invece arrivò pronta, come se non aspettasse altro: alzò la manina fino all’altezza del viso, e cominciò ad aprire e chiudere il pugno.
– Tào! Tào!
– Ma tào a te, cuccioletta!
Si vergognò subito per quella reazione immaginando la ragazza che lo vedeva come un rapitore di neonati e, sentendosi gli occhi di lei puntati addosso, spostò goffamente lo sguardo dalla bambina agli alberi, cominciando ad annuire come se stesse provando a riconoscere la specie. E la ragazza lo stava guardando davvero, ma con gli occhi dolci e un sorriso un po’ ebete tagliato sulla bocca di chi ha visto in quella risposta il bambino che c’è in lui. E fu lì che lei disse:
– Comunque mi chiamo
– Aobbù! Aobbù!
La cucciola di uomo aveva trasformato il piccolo pugno in un dito che indicava dietro di loro.
– Aobbù!
Lui immaginò fosse la parola chiave che i genitori della bimba le avevano insegnato in caso di una situazione caramelle-da-sconosciuti ed ebbe un principio di attacco di panico, mentre lei si girò nella direzione che puntava il ditino e sibilò un
– Mapporc.
Volutamente troncato, ma intuibile.
La bambina stava dicendo autobus, e la sua gioia nel vedere tale mezzo li aveva inconsapevolmente avvisati del suo arrivo.
Lei fece qualche passo scattando ma, sentendo che lui non correva con lei, si girò e lo vide lì, ancora a far finta di capire se quello fosse un pino o un rovo di rose.
– Beh? Non corri per prendere il bus?
Lui immaginò quella breve corsa, il fiato ancora più corto del solito, immaginò l’imbarazzo nel non riuscire a parlare per ore, figuriamoci per una mezz’ora di viaggio.
– No tranquilla, devo passare prima da una parte. Comunque chiedi all’autista di farti scendere all’altezza di Vicolo del Bel Respiro.
Ah.
L’ironia.
Lei non disse nulla, ma il sorriso tagliato divenne un solco di disappunto e, girandosi, non accennò nemmeno a un saluto.
La vide correre, venire superata dall’autobus e per un attimo sperò quasi che lei cadesse, o che una ruota del mezzo si bucasse in quel momento facendolo finire nell’altra corsia, qualunque cosa pur di poterla raggiungere camminando, spiegarle tutto e chiederle di uscire.
Ma lei era agile, il bus aveva le gomme nuove e il suo profilo venne inghiottito presto dalle porte a soffietto. E comunque non avrebbe mai avuto il coraggio di parlarle per mezz’ora, figuriamoci per ore.
Ecco, se il bus avesse tardato anche solo due minuti, magari a quest’ora lei starebbe ridendo tra le sue braccia mentre lui le racconta questo immaginario what if.
E invece mesi dopo era lì in ufficio, a sbrigare le ultime noiose pratiche prima di prendere quel dannato bus e tornare a casa. La pioggia frustava la finestra dello studio a ritmo regolare, e il suono sembrava quello delle onde che s’infrangono su un bagnasciuga di vetro. Era rimasto solo e mancava mezz’ora alla fine del turno, e decise di fare una cosa che non faceva mai. Recuperò le sue cose, le infilò velocemente nello zaino e dopo essersi messo la giacca a vento, andò via prima. Una scossa di adrenalina partì dalla schiena e gli scaldò tutto il corpo mentre chiudeva a chiave la porta blindata, e scendendo le scale iniziò a sudare. Stava guadagnando solo trenta minuti e in realtà, come sempre, era arrivato in anticipo anche quella mattina, ma il non aver chiesto permessi che comunque non gli sarebbero stati negati lo esaltava un po’. Mentre apriva il portone del palazzo per uscire, si rese conto che il ritmo del suo respiro era aumentato parecchio e approfittando della pioggia battente si fermò sulla soglia, poggiandosi prima con la spalla sul muro, e poi aspettando che il portone si chiudesse per poter scivolare un po’ all’indietro e adagiarsi sulla schiena.
Rimase così per un po’, buttando occhiate nella direzione dalla quale sarebbe dovuto arrivare il 98 e armeggiando con le chiavi di casa nella tasca del cappotto. Nei periodi più pesanti, spesso si ritrovava col pugno chiuso intorno al mazzo di ferri appuntiti, stretto fino a lasciarsi segni sui palmi.
Respirava sempre più veloce mentre iniziava a chiudere la mano sulle chiavi. Il fiato si accorciava e i secondi si allungavano, e pensò che un po’ d’acqua in testa fosse il modo migliore per riprendersi. Si sporse fuori dall’androne, approfittandone per girare la testa e sperare di vedere le luci del bus. La pioggia gli batté forte sui capelli, talmente forte che nonostante fossero foltissimi sentì il cuoio immediatamente fradicio. L’acqua scese veloce su tutto il volto. Era stata una pessima idea.
Si ritirò imprecando nell’androne e mentre si asciugava gli occhi sfregandoci le braccia sopra, sentì una mano toccargli la spalla.
Sobbalzò.
E poi, dopo un secondo, sobbalzò di nuovo.
Aveva riempito i polmoni.
Aveva preso tutta l’aria possibile nella bocca e l’aveva tirata via dalle narici come un condizionatore.
Aveva riempito i polmoni.
– Tào! Sei poi passato da quella parte, quel giorno?
Un nuovo respiro profondo.
La sua voce sembrava premergli gentilmente la cassa toracica per aiutarlo a tirare fuori tutti quei mezzi respiri che per anni lo gli avevano riempito il corpo.
Era davanti a lei, ai suoi occhi verdi, ai suoi capelli-carta-regalo.
Era davanti a lei, chiusa in un cappotto rosso pastello e un paio di anfibi blu, un goccia di pioggia ferma sotto la punta del naso che raccoglieva tutte le luci dei lampioni intorno.
Lui sorrise come mai prima, le narici piene del suo profumo, respiri così forti da avere quasi un sapore.
– Per tornare al discorso. Piacere, Aria.
Lui voleva ridere, voleva abbracciarla e ringraziarla, ma non fece in tempo a realizzare che la vita a volte è proprio strana che la società dei trasporti cittadina lo portò di nuovo sulla terra.
Il bus stava chiudendo le porte. Lei, girata di spalle, non capì il perché del suo scatto. Lui corse per qualche metro e inchiodò. Le sneakers consumate slittarono un po’ sul marciapiede bagnato ma riuscì a mantenere l’equilibrio. Si piegò poggiando le mani sulle ginocchia e respirò di nuovo, forte, mentre la pioggia gli scorreva sulle tempie, sugli occhi, sulla bocca.
Si girò e la vide ancora lì, di nuovo lontana, di nuovo con un’espressione di quel sorriso al contrario sul volto.
Lui tese la mano davanti a sé, il palmo rivolto in alto dove si formò subito una piccola pozza.
Arricciò un po’ le dita, mentre le diceva sorridendo:
– Beh? Non corri per prendere il bus?