per mesi non l’avevo notato
preso dai pianti
le bestemmie
le seghe
le bestemmie segate
e le seghe bestemmiate
se ne sta lì
appeso
proprio accanto a me
attaccato al sopra di un pigiama che non metto più
che esce fuori da questi cassetti
che non son proprio cassetti
ma griglie che escono
ho sempre pensato di sfilarle del tutto
ed usarle per un barbecue
io e te
carne
vino
i tuoi occhi
e i tuoi capelli
intanto
però
lui se ne sta lì
quel tuo capello
un po’ liscio un po’ riccio
sicuramente bello
e la mattina quando il sole mi taglia in due la stanza
ecco la mattina
se mi sveglio dal lato giusto
quello che poi era il tuo
ecco la mattina
se mi sveglio dal lato giusto
lo vedo prima di tutto
prima della sveglia
prima del comodino
del tetto
o del letto
prima di tutto
la mattina
quando mi sveglio
il sole lo travolge
ed il capello brilla
ma brilla forte
e per un attimo
la mattina appena sveglio
mi sembra quasi di sentire il tuo odore
mi sembra quasi di poter piantare un gomito sul cuscino
usare la mano per poggiarci la testa
e guardarti
è così forte, la sensazione
che una mattina mi sono alzato
e ti ho preparato la colazione
te l’ho portata a letto
ma tu non c’eri
di nuovo
io però lo lascio lì
che magari un giorno ti ci ritrovo attaccata
a quel capello
come un grappolo di uva dolcissima buonissima bianchissima
come un pendente luccicoso
come un angioletto del presepe appeso ad un filo dorato
Bella.
Come stai?
Lo sai che sei bella? lo sei tanto
Sei bella come l’alba in spiaggia dentro al sacco a pelo, con i granellini di sabbia dappertutto e gli occhi stanchi pieni d’amore
e di granellini.
Sei bella, bella come una battuta di Spinoza in mezzo a tante battute mediocri
sei quella battuta che mi fa ridere da solo, ma ridere vero eh, mica una faccina da tastiera mentre in realtà sei serio
(:
sei così bella che quando vedo un film con Scarlett Johansson io penso “sì la Scarlett è bella ma io ci metterei te al posto suo, così se ci vediamo insieme un film con la Scarlett che in realtà sei tu io guardo te e poi lo schermo e poi di nuovo te e poi di nuovo lo schermo e vedo sempre te”
ecco quanto sei bella
anzi, lo sei di più
lo sei e lo sette e lo otto e secondo me arrivi a dieci
e se sono fortunato riesco a stringere qualche mano e faccio alzare l’asticella
così arrivi almeno almeno a undici, se non dodici
sei bella come una canzone triste ma bella, non una tristebbasta
tipo “Last Goodbye” di Jeff Buckley
che la senti e pensi che è triste triste però è proprio bella
lui si danna perché la sogna ogni notte
e le dice che lei nemmeno saprà mai quanta ragione di vita è stata per lui
però si lasciano
e lui è morto
ma tu sei bella lo stesso e quella canzone è sì triste ma bella
come te
che sei bella come una risposta dopo l’invio di un curriculum
che anche se ti dicono “grazie non siamo interessati ma la terremo in considerazione”
tu sei contento perché almeno ti han risposto
che di solito nemmeno quello fanno
e tu pensi “va beh, bella”
ecco, come sei bella
sei bella tanto così
e se potessi vedermi, adesso
mentre dico che sei bella così
vedresti le braccia larghe che fanno un cerchio enorme
ecco
sei bella tanto da riempire quel cerchio
solo che le mani non si toccano
quindi il cerchio non si chiude
La mia controfigura ti aveva scritto un canzone, tempo fa.
Difficile spiegare perché sono così contento.
Ballo da più di due ore, ballo della serie “fallo come se nessuno ti stesse guardando” ma è una cazzata, perché ci saranno almeno altre 400 persone intorno a me ed è difficile immaginarsi soli. Però ballo, e poi guardandomi intorno vedo che anche tutti gli altri stanno seguendo il dogma del passare inosservati. Con risultati disastrosi, tra cui probabilmente anche il mio.
Ma ballo.
Che poi non sono due ore, ma due sere. Ieri Angelo, oggi Angelo.
Ieri sera siamo andati via col collo piegato dalle risate. Risate perché presi bene, presi bene perché quando una pischella rimbalza dai tuoi jeans a quelli del tuo migliore amico a così via già ti immagini da vecchio, con i tuoi nipotini seduti uno per gamba, davanti al camino acceso, mentre gli racconti di quella sera quando tu e il tuo amico vi siete montati una in due mentre vi davate il cinque alla Todd. I tuoi nipotini avranno traumi sessuali per sempre, ma ormai erano rimasti solo loro a non sapere la storia.
E la storia è importante.
Inutile dire siam tutti tornati a casa a pacco asciutto ma tant’è, ne sono valse le risate e gli sguardi e la anche remota possibilità di timbrare due biglietti in uno.
Stasera siam di nuovo qui, dopo un bellissimo concerto. C’è Bob che pompa i suoi dischi e noi a ballare. La situazione è simile alla sera prima, con la stessa pischella che aggiunge solo un altro paio di persone al suo carnet ma per il resto siam qui, a divertirci e pure parecchio.
La mia serata non è iniziata serena, questo sì. Non posso negare che mentre il gruppo suonava, più di una volta mi son girato per guardare se fossi lì in mezzo. Potresti esserci, forse non ci sei, ma io controllo. Non so se sperare di beccarti o meno. Forse no. Anzi molto probabilmente no.
No.
Però ti cerco, forse perché così potrei nascondermi e mandar giù questo Gin Tonic con tutto il bicchiere.
Solo che è proprio mentre do un’ultima occhiata in giro, a serata quasi finita, che incrocio un paio d’occhi che c’è da mettersi seduti per riprender fiato.
Lì per lì avevo notato la tua amica, ma più che altro i suoi occhiali enormi da clown e per la voglia che avevo di rubarglieli. Mentre mi guardo intorno per attaccare, mi giro e tu mi stai guardando. Uno di quegli sguardi che distogli subito perché “m’ha beccato”.
Ora, se lo struscio malizioso ed aperto al pluralismo di quella ragazza mi metteva in imbarazzo ma alla fine capisci il gioco delle parti e ci stai, il tuo sguardo di ieri m’ha paralizzato. I tuoi, sguardi.
Da baldanzoso maschio che non sa muoversi ma lo fa lo stesso, regredisco allo stato embrionale: comincio a giocare col bicchiere lanciandolo in aria e rischiando di rompere crani e coglioni altrui.
Mi giro, mi stai guardando.
Faccio giravolte, passetti, impreco a denti stretti perché non ho il coraggio di venir lì sugli spalti a blaterarti qualcosa, tipo la situazione del Nasdaq o se sei convinta anche tu che gli SMS di solidarietà siano una truffa.
Mi giro, mi stai guardando.
Continuo a ballare nonostante la musica stia finendo, le luci siano accese e quindi, in questo momento, sono un coglione di quasi un metro e novanta che balla seguendo le voci nella sua testa.
Mi giro, non ci sei più.
Cazzo.
Comincio a muovere la testa manco fossi un androide in corto circuito.
“Dove sei?”
Cerco quegli occhi, quei capelli corti biondi e quel viso sicuramente non terrestre. Ti assicuro che con quello sguardo mi hai quasi spaventato. Cerco quel vestito (viola?), quella borsetta nera. Cerco pure la tua amica degli occhiali, o quella riccia con cui ad un certo punto scrutavi la sala, con io che ero lì a zompettare come un lemure nel periodo dell’accoppiamento. Ti sei messa pure gli occhiali da vista. Montatura celeste, se non sbaglio.
Ma non ci sei.
Bevo un’ultima cosa, maledicendomi e mordendomi labbra e gomiti e orecchie.
Un abbraccio a tutti, usciamo. Fuori dall’Angelo ci salutiamo, e mentre il giro di “se beccamo ar kebbabbaro” continua vedo la tua amica riccia.
Ti cerco, di nuovo.
Niente.
Stupido me stupido me.
Sarà impossibile vederci di nuovo, quindi ti ringrazio per avermi fatto innamorare di nuovo dell’idea di essere innamorato. Il nemmeno troppo nascosto sedicenne che è in me ti è debitore, e ti vorrebbe offrire da bere Venerdì. All’Angelo.
Che la magia della casualità e della botta di culo facciano il loro corso.
“Foto che non c’entra Gnente”, Ponte Galeria, (poco fuori) Roma.
Tre giorni di montagne e nuvole, foglie secche e grappa, tavole sempre piene e camini che a starci davanti avrebbe problemi anche Vulcano.
Un mix tra “Stand By Me” e “Il Grande Freddo”, ma senza cadaveri nei boschi o essere amici da una vita. Non tutti, almeno. Iniziare stringendosi la mano e cercando in tutti i modi di non dimenticarsi il nome dell’altro, per finire abbracciati tra un “è stato un piacere” ed i mille “ribecchiamoci a Roma”.
Ed allo stesso tempi condividere risate che non ti facevi e non facevi fare ai tuoi amici di sempre, con un buonumore che da qualche settimana avevi detto “lo metto qui che così me lo ricordo” e che ovviamente non trovavi più ma che all’improvviso BAM! eccolo e senti che bello, tiene quasi caldo qui in montagna.
Una camminata in un bosco che aspettavi da tempo senza cercarla, quei silenzi di sottofondo e quei rumori improvvisi, secchi. Ricci che ti cadono sulle spalle sfiorandoti la testa mentre ti fai una foto, quasi a volerti sgridare per le tue distrazioni da uomo di città.
La legna da raccogliere, tronchi caduti a fare da leva e ancora tante risate, tagli sui pollici, la pioggia che ti sorprende nell’unico momento di relax, quello fatto di panini e vino e racconti. E poi quelle stronzate che ti illuminano il cervello e che ti fanno capire come l’uomo, pur di faticare di meno, se ne inventerebbe di ogni.
Lo zaino porta legno porta legna. Brevetto, please.
E dopo due giorni di tutto questo e molto altro, due tappe così pesanti che al giro d’Italia sarebbero quelle da centoventi chilometri di salita con pendenza al novantaquattro percento.
La seconda è L’Aquila.
Non c’ero mai stato, all’Aquila, né prima né dopo quella notte. E soprattutto dopo mi ero ripromesso di andarci ed invece eccomi lì, ieri, per la prima volta.
Era sera, buio, con pioggia leggera ma così fitta che è facile immaginare l’acqua infiltrarsi nelle crepe. Crepe che sono ovunque, e sono tutte enormi. Ed anche loro si possono tranquillamente paragonare a delle enormi cicatrici.
Ed i punti per provare a richiuderle sono tanti, diversi, ma che a poco sembrano servire. Sembrano sacchi stracolmi di macerie che qualcuno ha provato a chiudere con il filo da cucire.
Camminando per le strade, i vicoli, mi ha colpito l’odore di legna, quello classico della segatura e delle falegnamerie. All’inizio non capivo da dove arrivasse: intorno a noi c’erano solo piccoli cumuli di calcinacci, impalcature in ferro che amplificavano il rumore delle gocce di pioggia tanto da farle sembrare i passi di un qualche mostro nascosto nel buio, e tanto silenzio. Poi ho collegato: praticamente tutte le porte, soprattutto quelle ad arco, avevano delle strutture in travi di legno che ne sostenevano la struttura. Tonnellate di pietra e cemento sostenute da quattro travi messe in croce.
E poi le tante finestre aperte. Una delle cose più inquietanti che abbia mai visto con i miei occhi.
Decine di finestre aperte su stanze in cui ormai non c’è più nessuno che si possa affacciare, fumare una sigaretta guardando stancamente le vecchiette che camminano con le buste della spesa, o lo studente di corsa con i libri sottobraccio.
Finestre che sembrano occhi spalancati di edifici sofferenti, in punto di morte, increduli nel momento di andarsene.
Due cose, però, mi hanno colpito in modo molto positivo.
La prima, anche se molto strana, è stata della musica in filodiffusione che abbiamo sentito due volte in due vicoli diversi. Premetto, entrambe canzoni di merda da hit radio, ma mi hanno fatto pensare tantissimo alla Overture 1812 di Tchaikovsky che parte nelle strade di Londra in “V per Vendetta” per arrivare a esplodere insieme al palazzo di Giustizia. E spero di poter vedere altrettanta gente per le strade di quella splendida città.
La seconda [JINGLE PUBBLICITARIO] è il ristorante-pizzeria-facciamo un filetto al Montepulciano da sentirsi male “Oro Rosso” di cui ho trovato solo questa versione brutta di una pagina FB. Proprio al centro storico, vicino ad una rotonda e a due passi dallo strano e molto Berlinese auditorium in legno colorato, costruito all’ingresso del Parco del Castello. Si mangia benissimo, c’è un cameriere simpatico quanto sudato e ripeto, quel filetto con crema al Montepulciano era una cosa che vale il viaggio.
Insomma, un weekend che ci voleva, soprattutto per questo weekend.
Mi sei stata accanto, questo so.
Intere nottate passate insieme a ridere, gridare, imprecare e gioire.
Poi magari per giorni, a volte mesi, ci si perdeva di vista: io ero troppo impegnato con la mia vita, tu sempre chiusa in casa davanti alla tv.
Ma quando ci si rivedeva, mi bastava un dito per accenderti e scaldarti. E tu non dicevi mai nulla, stavi lì e ti facevi dire e fare di tutto.
Insieme abbiamo visto film (pure quelli zozzi), serie tv, foto, abbiamo ascoltato musica ma soprattutto giocato, grazie al tuo dono innato di farmi tornare bambino tutte le volte.
E le tue forme. Cazzo, le tue forme: morbide, piene, con quel tuo vestito sempre nero ma portato con eleganza e disinvoltura, che quasi sembravi una sposa in negativo.
Mentre poi, in tutti questi anni, mi divertivo con altre donne, tu mi hai sempre aspettato, senza mai farmi pesare i miei difetti e le mie mancanze.
Sei stata un’amica, una compagna, un’amante, tutto quello che ho sempre cercato in qualcuno.
Ora, dopo quattro anni, te ne sei andata.
È stato un attimo: mi son girato, e sei finita nelle braccia di un altro.
Molto più giovane di me, tra l’altro.
Ma ti capisco, ti capisco davvero.
E penso, con tutto il cuore, che te lo meriti.
Addio amica mia, ti vorrò per sempre bene.
Nemmeno quel bambino ti tratterà bene come ti ho fatto io.
La cosa importante è di non smettere mai di interrogarsi. La curiosità esiste per ragioni proprie. Non si può fare a meno di provare riverenza quando si osservano i misteri dell'eternità, della vita, la meravigliosa struttura della realtà. Basta cercare ogni giorno di capire un po' il mistero. Non perdere mai una sacra curiosità. ( Albert Einstein )