Sette Gradi Di Una Relazione

La conoscete la teoria dei sei gradi di separazione? Ok, per chi ha vissuto fin ad oggi nel ripostiglio di Brunetta, è la teoria secondo la quale io posso conoscere un’altra qualunque persona nel mondo semplicemente tramite altre quattro persone. Chessò, posso arrivare a Roberto Saviano in cinque mosse, o forse anche meno visto che abito in una zona in cui il più pulito ha la scabbia, ma tant’è.
Ecco, nonostante siamo sette miliardi e tutti diversi, tu che leggi potresti conoscere qualcuno che abita a Civitavecchia. Forte eh?

Insomma, l’altro giorno mentre decidevo se mettermi la cravatta o il cappio, ho pensato che uno schema simile esiste per le relazioni, con un passaggio finale in più. Nonostante si sia innamorati e convinti che sarà per sempre, la maggior parte delle volte una storia finirà in sei punti.
Sempre.

Vi spiego quali.

Incontro

Sono passati mesi dalla tua ultima scopata. Ma che dico scopata, sono passati mesi dall’ultima volta che hai parlato con una donna che non fosse la commessa del Tuodì. Dopo la tua ultima storia, ti sei ripromesso di tutto: basta relazioni serie per un po’, basta donne al di sotto dei 26 anni, basta con quelle viziate, basta basta basta. Hai finalmente raggiunto quell’equilibrio comunque instabile, uscendo però da quella situazione che ti portava un giorno a piangere, ed il giorno dopo a iniettare veleno con lo sguardo. Sei quasi felice.
Poi la incontri.
Magari proprio la sera che ti sei ripromesso di farti una serata facile.
Perché appena la vedi, capisci già che non t’interessa più nulla.

Non ti avevo proprio notato la prima sera.
“Non ti avevo proprio notato la prima sera.”

Approccio

Vi siete guardati. A volte sfiorati. Vi è capitato ancora di vedervi al locale. Lei saluta tutti al bancone, tu poca gente, però è l’occasione per presentarsi. Tu biascichi il tuo nome manco fossi in overdose, lei scandisce ogni lettera del suo manco lavorasse alla Crusca. All’inizio vi ignorate, poi inizia un corteggiamento che il National Geographic ritirerebbe una troupe intenta a riprendere il rarissimo Vermis Giovanardis che dice una cosa giusta, pur di fare un servizio su di voi che schizzate ormoni come in una pubblicità di Hugo Boss.
Tu cominci a girarti sigarette con una mano mentre con l’altra sotto l’ascella intoni “I Can’t Help Falling In Love With You”, nella versione degli UB40.
Lei invece farà capolino con lo sguardo dalla selva delle sue amiche civette, intente a mangiare le budella di un topo, e ti guarderà con gli occhi così illuminati da sembrare uno dei bambini de “Il Villaggio dei Dannati”.

"Dio, già gli succhierei via l'anima."
“Dio, già gli succhierei via l’anima.”

Contatto

Ci siamo.
Dopo le richieste su Facebook, le scambio di mail ed account Twitter, gli hashtag su Instagram e.. ah già, i numeri di telefono, c’è l’appuntamento.
E non parlo di quelli in cui siete entrambi imbarazzati, da “oddio che dico” e sguardi sulle merde per strada pur di non guardare lei.
Parlo di un primo appuntamento a ruota libera, fatto di risate e sguardi che sai già si trasformeranno in scambi di fluidi attraverso modalità più o meno legali.
Un’uscita che sai già diventerà un’entrata.
Vi raccontate tutto quello che il discorso appena chiuso vi fa venire in mente, uno scambio di battute così veloce da far girare la testa agli sceneggiatori di “The Newsroom”.
È lei. È presto, ancora non sei nemmeno sicuro del fatto che abbia davvero una vagina. Ma si sa, nessuno è perfetto.

"Va bene anche se mi dai fuoco nel sonno."
“Va bene anche se mi dai fuoco nel sonno.”

Salita

E non salita faticosa. Ma la salita che fai per arrivare in vetta. Vetta di cui parleremo dopo.
Sono i momenti in cui avete già fatto sesso, amore, bondage e fisting, in cui vi siete raccontati i vostri segreti più nascosti (“e ti giuro, non immaginavo che una testa umana potesse davvero parlare, una volta staccata dal corpo”), in cui ognuno dei due esce anche in compagnia degli amici dell’altro.
Vi sorprendete di quante cose avete in comune: ma va, anche tu trovi INDISPENSABILE respirare?
Quando tu sei in giro e lei ti chiama, cominci a fare le classiche cose da innamorato che sta al telefono: ti allontani dagli amici, ti metti davanti a un muro, poggi il dito su una macchia nella vernice e cominci a far girare il fottuto mondo intorno a quell’indice. Ti bruciasse casa, tu quel dito dal muro non lo leverai fino a quando lei non chiuderà la chiamata.
I tuoi amici intanto si sono già ubriacati, ripresi e sbronzati di nuovo.
Ma anche tu non sei del tutto lucido.


non mi veniva nessuna foto azzeccata, quindi ecco un evergreen

Apice

Eccola, la vetta.

È quando tutto va bene, molto bene. Siete una cosa sola, anche quando non state insieme. La gente vi guarda e muore di dolcezza, i diabetici vengono dimezzati, i cali di zuccheri vengono guariti e vincete il premio Nobel per l’Amore come dei moderni coniugi Curie, ma senza che lei muoia per esposizione alle radiazioni, e lui per una carrozza che gli ha spremuto il cranio.
Siete belli. Vi vedete più belli, in forma, nonostante siate immersi in quell’oceano di cazzi chiamato vita. Lavoro, studio, impegni, responsabilità?

!!SHUT DA FUCK UP!!

Noi siamo innamorati.
Nulla potrà mai scalfirci.
Nulla.

"Ma cosa sarà mai, questo nulla che sento giungere sulla mia nuca?"
“Ma cosa sarà mai, questo nulla che sento giungere sulla mia nuca?”

Discesa

Come la salita non era intesa come negativa, di contro la discesa non è una di quelle da fare coi fiori tra i capelli cantando “Aquarius” e masticando acidi.
Decisamente no.
Diciamo che più come essere infilati in un barile pieno di acciughe morte di varie malattie veneree, sigillato e buttato giù da uno di quei canyon alla Beep Beep.
È che escono fuori i “difetti incrociati”, e cioè tu le fai notare il suo che lei ti fa notare il tuo. Poi entrano in gioco i caratteri, il passato, le situazioni di tutti i giorni.
Insomma, quella che prima era la fabbrica di Willy Wonka ora è la casa di una confraternita dopo la festa di fine anno, ragazza stuprata e piena di Roipnol inclusa.
Non capisci nemmeno come ci siete arrivati, a rinfacciarvi di quando tu hai lasciato il cotton fioc usato nelle lasagne, o di quando lei è uscita una sera tornando due giorni dopo giustificandosi dicendo che c’era una svendita di scarpe a Siena.
È fatta, senti il suolo che si avvicina sempre più veloce.
E vaffanculo lo sapevo che non facevano paracaduti di Hello Kitty.

Però fanno il gioco di Hello Kitty che usa un paracadute. Mind blowing.
Però fanno il gioco di Hello Kitty che usa un paracadute. Mind blowing.

Schianto

BAM!!
Suolo.
Durissimo, granitico suolo.
Ti rialzi, scacci la polvere dai vestiti mentre aspetti che si posi quella alzata dalla caduta.
Per dio non si vede una mazza.

Ma capisci anche senza vedere che lei non c’è più.

Anzi, ora che ci fai caso è passato anche un bel po’ di tempo.
La polvere sta ancora lì, ma sai che tanto prima o poi scenderà.
È questione di fisica, è natura, è la vita.
Da sempre.
E allora prendi delle scatole e ci metti dentro tutto quello che ti servirà in futuro.
Col tempo le aprirai sempre meno, ricordandoti a memoria quello che sai ti sarà utile, per un sorriso come per una riflessione seria.
Col tempo.

E poi oh, col tempo potrai dire che sono passati mesi, dalla tua ultima scopata.

Introduzione Retroattiva

Mi piacerebbe dare per scontato che tutti voi abbiate già sentito (parlare) delle miniature, ma di scontato ormai ci sono solamente le tariffe per i cellulari ed i prodotti di prima necessità alla Coop. Quindi se proprio non ci siete ancora arrivati, vi do un assaggio:

Senza dilungarmi troppo, ieri Gabriele e Silvia (le minature, se ancora non si è capito) si sono esibiti al Celacanto, piccolo grande centro di quella che tutti chiamano cittadinanza attiva, ma che lì si fa per davvero. Creato dall’associazione “Coppula Tisa” anni fa, il Celacanto ha cominciato a distinguersi dalla massa di associazioni più o meno attive sul territorio salentino. Territorio che sembra essere stato scoperto solo negli ultimi cinque anni, ma che ha più storia e tradizioni degli Stati Uniti d’America. Una terra amata ed allo stesso tempo presa di mira da speculazioni, palazzinari, gente che senza scrupoli devasta interi terreni con i purtroppo noti “ecomostri”, dalla casa costruita sulla scogliera al bar che per essere tirato su distrugge costa e spiaggia.
Antesignani nel campo, i soci di Coppula Tisa nel non troppo lontano 2005 acquistarono un orribile fabbricato abusivo mai terminato che deturpava da fin troppo tempo un tratto bellissimo di costa. Dopo averlo acquistato, beh.. lo hanno distrutto a colpi di ruspe e picconi. Un’azione, una di quelle vere in cui ci sporcano le mani, la fronte, in cui ci ferisce e si marchia il posto col sangue. Da lì, questo tipo di azione è stata ispirazione per tantissime altri “compra per distruggere” nell’ambito dell’abusivismo edilizio.
Gente col cuore, quella di Coppula Tisa.
Cuore e palle, lasciatemelo dire.

Azioni. Reazioni. Emozioni.
Azioni. Reazioni. Emozioni.

Oltre a questo e ad altre tantissime iniziative (laboratori di riuso e riciclo, falegnameria, detersivi e prodotti per la casa fai da te), una delle più belle è forse quella dell’ospitalità solidale. Esempio: se sei un musicista, cantante, artista di strada e vuoi esibirti o solo trovare un posto dove dormire, tu ci metti la tua arte, e loro l’ospitalità tutta salentina. Una camera, il cibo, ma soprattutto la compagnia ed i sorrisi, che di questi tempi sono più rari di un assessore che ci capisca qualcosa del suo lavoro.
Ma può capitare che tu non sappia suonare altro che un citofono, e che la tua arte di strada al massimo sia tenere la porta aperta alle signore. Ecco, anche in questo caso sei sempre loro ospite e tutto quello che devi fare è dare una mano a sistemare il posto. Dal mettere un paio di chiodi al dipingere, dal cucinare e scartavetrare un muro.

“Ma io sto in vacanza!!”

E allora vai a spendere un sacco di soldi per un posto affollato e che è tenuto come la stanza delle torture di Guantanamo.

(ok mi sono dilungato)

Insomma, ieri sera il mondo miniature e quello Coppula Tisa sono entrati in collisione, una splendida collisione.
Mi hanno chiesto di introdurli prima del concerto. Visto che non parlavo davanti a così tanta gente da quando mi sono dovuto giustificare per un arresto per atti osceni in luogo pubblico, mi sono un po’ emozionato.
Quello che è uscito fuori è stato:
“hghghghgh miniature ghghghhg orgoglioso ghhghghg grazie ghhghggh miniature!!”

Quello che avrei voluto dire, invece, è questo:
“Gabriele e Silvia, qui dietro a me, sono le miniature. Li ho conosciuti quasi due anni fa mentre passeggiavoa Piazza Navona con un’amica per Roma. Non so se, in un altro momento della mia vita, mi sarei fermato. E non per togliere qualcosa a loro, anzi. A fine serata vi sentirete più ricchi di ora, ne sono sicuro. Ma sapete quando “è il momento”? Ecco, quello lo era. Quel giorno di Ottobre col sole, il sorriso e la bellezza di quella mia amica che non vedevo da troppo tempo, la piazza piena al punto giusto. Insomma, era il momento.
E dopo un’intervista, dopo averli fatti conoscere in giro grazie alla rivista per cui collaboro, grazie alla loro disponibilità artistica ma soprattutto umana eccoli qui. Dopo avergli rotto le scatole per tutto questo tempo, avergli scroccato pranzi, passaggi e cd, è con un piacere che non so nemmeno descrivere in questo momento che vi presento due bravissimi artisti, due geniali musicisti ma, ecchecavolo lasciatemelo dire, due amici.

Le miniature.”

Ecco, vale sicuramente meno ora che il concerto è finito tra applausi, sorrisi e tanta ottima musica.
Ma credo valga e varrà per sempre come introduzione a due persone straordinarie, e che mi aiuterà a ricordare la serata di ieri come una delle più belle della mia vita.

Abbracci

Miele ovunque.
Miele ovunque.

Stazione Tiburtina.
Manca poco alle quattro di pomeriggio.
Cammino sotto un cielo grigio che finalmente non rispecchia quello che ho dentro.
Dentro mi splende il sole, ho il cuore pieno e la testa leggera, nonostante i pensieri che si accalcano e spingono e fanno a gara a chi ce l’ha più grosso.

Nelle cuffie parte “Tree Hugger”, una della tante tracce piene di miele ed amore della colonna sonora di Juno. Cammino a passi svelti che non voglio far tardi, ho cose da fare gente da vedere, stasera c’è la festa di Le Cool a cui tengo troppo per poter perdere tempo, il treno passa a momenti e faccio per imboccare il portico appena sceso dalle scale mobili. La schiena ancora mi fa male ma il cuore pompa zucchero e scioglie il dolore. Mentre la tartaruga vorrebbe volare ed il cactus avere un fiore rosa in testa, sento la voce di un uomo con la classica intonazione di chi parla con un bambino.

Alzo gli occhi dalla punta delle scarpe e vedo la copia senza soldi di Nanni Moretti piegato sulle gambe, che parla ad una bambina che avrà al massimo cinque anni, bionda da far spavento e col visetto di chi ancora non ha capito come funziona qui intorno.

L’uomo continua ad indicare, e sempre con il tono da tonti che abbiamo quando parliamo ai bambini le dice “guarda chi c’è! Lo vedi? Eccolo lì, eccolo che arriva!!”.

Mi giro aspettandomi un fratello più grande, uno zio, comunque un adulto.

E invece ecco un suo piccolo, dolce coetaneo. Un nanetto di un metro che inizia a correre.

Lei sorride, di quei sorrisi che i bambini hanno quando vedono una cosa bella e dimenticano tutto il resto: i giochi, il gelato, i colori, gli uccelli.

Ride di un sorriso pieno. Fa due tre passetti sul posto, come per caricarsi. Allarga le braccia come se dovesse spiccare il volo, il sorriso ormai così largo da sembrare finto. Gli occhi le brillano di luce propria. Altri due passetti..

.. e parte.

Scatta come una molla, le braccia ed il sorriso larghi che di più si sbezzerebbero. Corre dritta e veloce, l’altro bambino che allarga le braccia e noto solo ora che ha un fiore in mano, una di quelle margherite enormi che paragonata a lui sembra un albero.

Quando finalmente, dopo una corsa che sarà sembrata ad entrambi una maratona, entrano in contatto, è come veder nascere una stella.
Quasi cadono all’indietro, ma le braccia dell’una stringono l’altro e rimangono aggrappati, come sospesi su quelle piastrelle, tra la gente, tra i grandi che ‘ste cose non le fanno più.

Mi accorgo dopo qualche secondo che sono rimasto fermo a guardarli, con un sorriso così ebete da sembrare un cinquenne anche io. Una scena che fermami il cuore, che più pieno di così non ce la fa.

E capisco che cose del genere succedono di rado, e le noti ancor meno quando stai incazzato col mondo.

Ma oggi no. Dentro mi splende il sole, ho il cuore pieno e la testa leggera, nonostante i pensieri che si accalcano e spingono e fanno a gara a chi ce l’ha più grosso.

E scene del genere dovrebbero essere all’ordine del giorno e della notte, tra bambini, grandi e vecchi.

Anche dopotutto.

Pillole Salentine – #7 – Non È Un Addio

Un nuovo inizio.

Due mesi esatti.
Manco a farlo apposta, ma esattamente due mesi.
Arrivavo di Domenica, me ne vado di Sabato.
In mezzo tante facce nuove, belle e meno belle, ma di sicuro facce sopra a corpi con dentro cuori e cervello che qualcosa mi hanno lasciato.
C’è chi mi ha fatto ridere tanto, tantissimo. C’è chi mi ha fatto piangere, da una gatta che non c’è più a cani -umani- che ci sono ancora e che continueranno a fare del male. C’è chi mi ha insegnato qualcosa, dalla storia dei posti dove mi trovavo ad un particolare su un film che stavo vedendo. Ho mangiato cose nuove e gustato cose vecchie. Ho preso e perso chili, ma soprattutto preso. Tornato a Roma per una sera mi son sentito dire da tutti “ti trovo benissimo”, ed è stato bello perché mi ci sentivo, benissimo. Soprattutto perché se sono andato via dal Salento, ci dovevo -volevo- tornare ed era come tornare a casa.
Ho anche sfiorato la scopata, in Salento.

Ma soprattutto ho vissuto di nuovo con mia madre e mio fratello, e per quanto scontato sia dirlo -ma lo è?-, io gli voglio bene.
Mi ero quasi dimenticato cosa volesse dire avere la mamma accanto, che si preoccupa, si congratula, con cui spettegolare e vedere un film, che ancora ti dice “metti a posto” e che si sorprende quando lo fai senza che te l’abbia detto. Che capisce se c’è qualcosa che non va quando non parli per più di dieci minuti, e che gira gli occhi al cielo -per finta- quando non t’azzitti mai. Che ti prepara da mangiare sempre, e che si gode una cena che per una volta prepari tu. E le piace pure. Ci voglio bene a mamma mia, ma tanto.
E poi tuo fratello, che quando non c’eri è cresciuto e pure parecchio, che adesso è alto quanto te e ti senti di trattarlo com un coetaneo. Ma non lo è, e quindi certe volte ti ritrovi a parlargli da “adulto” e ti aspetti risposte da “ragazzo” e ti sorprendi da morire quando ti risponde, perché finisci per fare discorsi alti e ti piace. Tuo fratello con cui finalmente vai a vedere i concerti, con cui ti ammazzi dalle risate per le cazzate che dice -un genio, davvero-, tuo fratello con cui piangi e che ancora consoli perché in fondo è un po’ un bambino. Tuo fratello che convive con il diabete senza mai un lamento, che quando quella volta si è svegliato con l’ipoglicemia in cerca di zucchero ti è saltato il cuore in gola ed è finita con lui che tranquillizzava te. Tuo fratello di cui sei così orgoglioso quando va in viaggio studio in Germania, senza nemmeno pensarci due volte, che viene con te in campeggio e ti sopporta mentre stai sfranto e anzi, si ammazza dalle risate. Quel fratello che cresce lontano da te ma di cui sai poterti fidare, e che speri -sai- farà meglio di quanto tu possa aver fatto fin’ora. Bello lui. Continua così.

Domani torno a Roma, il vil denaro chiama.
Ma sappi mio caro Salento che voglio tornare, sappiatelo tutti.
Torno a Roma per continuare quello che ho cominciato qui, cercando di portarmi dentro il sole che mi hai regalato, i sorrisi che mi hai lasciato, il profumo di nuovo che mi è rimasto addosso.
Mi hai riempito gli occhi ed il cuore.

Questo non è un addio.

Diciassette Anni Fa

Happy Birthday

Diciassette anni fa mi ero appena trasferito nella nuova casa, dopo un periodo di stallo a casa di mia nonna. Ci avevano mandato via dalla vecchia, e per mesi abbiamo vissuto a San Saba tutti quanti. Ricordo che mio padre non dormiva per i rumori di quelli che abitavano sopra, abituato com’era al silenzio di quella che “una volta era tutta campagna”.
Io ero contento da morire: ero sempre con i miei ma allo stesso tempo con mia nonna, che come tutte le nonne non poteva crederci al fatto di potermi viziare tutti i giorni, tutto il giorno, e non solo nei mesi estivi o i weekend. Anche se stavamo stretti, dovevo svegliarmi ancora prima del solito per arrivare a scuola, anche se le abitudini per un po’ erano cambiate, io ero contento da morire. Ci festeggiai anche il mio compleanno, il mio decimo per l’esattezza, ed i miei zii mi regalarono l’orologio di Topolino, quello col sorcio al centro con le braccia a le lancette. Quanto mi faceva ridere quando erano tutte storte, perché lui comunque manteneva il classico sorrisone a bocca aperta tipico del topo più antisemita del mondo.

Diciassette anni fa ho visto la mia nuova casa costruirsi “da sola”. È un prefabbricato in legno, e gli operai insieme a papà dopo aver gettato la colata per le fondamenta, avevano piazzato le basi di legno che delimitavano le pareti esterne e quelle della camera. Era bello: sembrava una mappa, una planimetria, però vera, fisica. Ricordo che passavo da una stanza all’altra semplicemente scavalcando una trave. C’è una foto, che conservo ancora adesso, dove sono lì con quei capelli a caschetto (lisci), la felpa de Il Manifesto col bimbo che dorme, pugno chiuso e la scritta “La Rivoluzione Non Russa”, gli occhiali da sole rossi tondi alla John Lennon che adoravo appesi intorno al collo col cordino. Ma la cosa divertente era lo sfondo: una parete in legno a metà, più bassa di me, ed una finestra incastrata nel mezzo. Perché casa l’hanno costruita così: due travi in verticale, due travi in orizzontale, due travi in verticale.. e così via. Poi arrivava il momento di piazzare le finestre, e quindi rimaneva questa casa, un’immagine a metà tra la costruzione e la distruzione. Ricordo che con mamma abbiamo buttato 200 lire tra due delle travi che formavano la parete divisoria tra la mia (ormai ex) camera e la loro. Dicevano portasse fortuna. Ma l’immagine più forte è quella del tetto, poggiato sopra come un tappo su una scatola, fissato alle pareti ed alle due colonne.. e fine. Sembrava un’enorme costruzione in Lego, ma di legno. La Leg(n)o.

Diciassette anni fa usciva “One Hot Minute”, dei Red Hot. Io non sapevo nemmeno chi fossero, all’epoca ascoltavo.. boh, manco gli 883. Forse ero fermo a “Don Raffaè” ed a tutta la discografia di Battisti. Meglio di niente, per carità.
Ovviamente l’ho scoperto tardi, quell’album, e come molti non l’ho apprezzato subito. Il mio primo album dei Red Hot che comprai fu “Californication”, quasi cinque anni dopo. Poi seguì “Blood Sugar Sex Magik”, uscito che avevo cinque anni, che tutt’ora reputo il loro disco migliore, ed uno dei miei preferiti in assoluto.
Quando ascoltai OHM per la prima volta, non lo capivo proprio. Cronologicamente si piazza esattamente a metà tra i due prima citati, ma musicalmente è totalmente fuori da ogni schema musicale seguito dai quattro di L.A. (se mai ce n’è stato uno). Considerando che Frusciante aveva dato di matto durante l’estenuante tour per promuover il precedente album, e qui veniva sostituito da Navarro che veniva dai Jane’s Addction, l’aria in casa RHCP cambia totalmente. Per la prima volta il funk viene mischiato al metal. Il disco a volte si fa pesante come un tir di macigni che ti viene scaricato in faccia (vedi l’apertura con “Warped”), a volte dolce come il miele mischiato nello zucchero (“Tearjerker”). Flea è impazzito come non mai, tarantolato e “slappato” come non lo si sentiva da tempo, talmente galvanizzato da concedersi un solo con “Pea”. Chad Smith.. vabbè ho sempre considerato Smith il migliore del gruppo, e qui si capisce davvero perché: una ritmica pazzesca, una perfezione ed una carica tale da reggere tutto e tutti, per l’intera durata del disco. Kiedis, infine, è in totale stato di grazia. Oltre a strillare come sempre, in quasi tutte le canzoni, tira fuori una parte melodica a tratti lisergica, anche se coca ed eroina avevano fatto, di nuovo, la comparsa nella sua vita, oltre al Valium che aveva cominciato ad assumere dopo una imponente operazione ai denti. Questo però non lo trattiene dall’esprimersi al meglio, influenzando oltre il suo modo di cantare, anche quello di scrivere. (anche se meno rispetto agli album precedenti). Escono perle rare, tra cui le ballate come la già citata “Tearjerker”, “Falling Into Grace” e la splendida “Walkabout”.
Ne esce fuori un capolavoro per pochi, ed un album strano per molti. Di certo qualcosa che esula dal fantomatico percorso dei Red Hot Chili Peppers, qualcosa che solo la rabbia per la lontananza di Frusciante e l’irruente comparsata di Navarro hanno contribuito a farlo diventare il mio secondo album preferito della band, dopo “Blood Sugar Sex Magik” e “Californication”.

Tanto per la cronaca, se non erro la mia copia originale la regalai alla mia ex. O forse me l’ha ridata con un sacco di roba l’anno scorso. In caso contrario, spero esploda.

Diciassette anni fa un album mi ha cambiato la vita, anche se anni dopo.
E non smetterò mai di ringraziarli.

[ma grazie anche a Wil di Non Leggerlo per avermi ricordato, senza volerlo, del compleanno del disco e perché gli ho rubato l’immagine]