Eh. Già.

Harry_Sally

Io, ad approcciar le donne, son sempre stato un cane.
Un cane abbandonato, zoppo e cieco da un occhio.
Se da una parte il mio sfrenato senso del romanticismo nutrito a Dawson’s Creek, Harry Ti Presento Sally e pianti per le pubblicità ha contribuito a fare l’effetto orsacchiotto cuccioloso con le ragazze, dall’altro la mia totale incapacità di gestire l’approccio fisico vero e proprio mi ha sempre inculato.
Se da una parte la simpatia e la socialità hanno sempre giocato un ruolo importante e positivo, dall’altra il mio congelarmi davanti al “adesso parto e la bacio” mi ha fatto perdere più occasione che Alfredo a Vasco Rossi.
L’esempio degli esempi l’ho tirato fuori dopo anni proprio poco tempo fa.

2005, campeggio, Sardegna.
Agli sgoccioli della vacanza, conosco quella che sarà la mia splendida ragazza per i successivi due anni. Colpo di fulmine, tuoni, pioggia di cuori. Riesco a rimanere come animatore per stare con lei, che però deve partire per un giro sull’isola con i suoi e tornare poi gli ultimissimi giorni. E quindi lei parte ed io lì che la penso, la sento e mi manca, ma stiamo bene e consideriamo il tutto come un test, visto che vive a Milano e dovremo poi affrontare la famigerata storia a distanza.
Una delle prime sere in cui sono solo, dopo la solita giornata a lottare con bambini posseduti dallo spirito di Charles Manson ed a prendermi piogge di vaffanculo dagli ospiti quando a cena andavi a scassargli il cazzo per la serata, finita anche la pietosa messinscena di balli e karaoke, mi trovo a parlare con una ragazza che stava lì con la famiglia.
Più grande di me, molto attraente, classica biondocchiazzurri molto messa bene.
Molto.
E insomma si chiacchiera io e lei ad uno dei tavoli della piazzetta del campeggio, io maglia e costume, lei con un vestitino bianco non vedo-non vedo. Siamo soli, gli altri son tutti in spiaggia a contar stelle, shottini e scopate.
Si parla del più o del meno fino a quando lei mi fa una prima osservazione che chiunque avrebbe colto. Anzi, chiunque le sarebbe già saltato addosso, ma giustifichiamoci al momento con “sei impegnato”, ed andiamo avanti.
In pratica mi fa:

“Ma sai che son già due settimane che sto qui, e non sono MAI andata in spiaggia di notte?”

Allora, chiunque avrebbe emesso un solo suono, quello della zip del costume, che non ha zip ma che per l’occasione sì, ci sarebbe stata.
Io invece sto lì e mi limito a dire:

“Beh, avresti dovuto!”

Lei glissa, probabilmente facendo finta di non aver sentito bene.
Dopo qualche altra chiacchiera di convenienza, arriva la seconda ed inequivocabile proposta mascherata da constatazione:

“Mamma mia, ma stasera fa caldissimo!”

E, mentre finisce la frase, senza che io abbia nemmeno il tempo di dire:

“Graziarcazzo siamo a Ferragosto.”

lei si infila le mani sotto il vestito, all’altezza della schiena, e con un gesto sicuro sgancia il ferretto del reggiseno, che getta sul tavolo.

CHE.GETTA.SUL.TAVOLO.

Ora, chiunque si sarebbe già fiondato alla farmacia più vicina (97 chilometri circa), attraversando tappeti di cardi e picchiando cinghiali a mani nude, con sosta mirto al bar più vicino.
Chiunque lo avrebbe fatto.
Io, che non sono chiunque ma sono orgogliosamente qualcuno, me la guardo e faccio:

“Eh. Già.”

Allora, Eh. Già., detto proprio così, con una pausa dopo l’Eh, ed il Già detto quasi scazzato, insomma una lapide del genere va messa solo in alcune occasioni, tipo:

– la tua donna ti fa il pippone sul fatto che, per l’ennesima volta, ti sei ubriacato ammerda con gli amici, hai pisciato addosso all’altarino della Madonna a viale Trastevere ed hai camminato sui cofani delle macchine parcheggiate? Te la cavi con un Eh. Già.;
– ti chiedono se davvero sei riuscito a non sentire la sveglia, rischiando oltre al licenziamento, l’evirazione pubblica? E vai di Eh. Già.;
– CIOÈ ZIO, QUELLA TI SI SLACCIA IL REGGISENO DAVANTI, D’ESTATE, IN CAMPEGGIO, TU VENT’ANNI E LEI TIPO TRENTA, E TU RISPONDI CON EHGGIÀ?

Eh. Già.

Vien da sé che la sua faccia si è impallata in un’espressione tipo

WHAT
WHAT

scappando via con urla alla Flanders.
Mai più vista. O sentita. O pensata, in realtà.

Perché comunque io ero già cotto ed è una cosa che comunque ricordo col sorriso.
Sorriso tipo paresi eh, ma sorriso.
Perché una serata così non sarebbe valsa nemmeno un dieci minuti con lei.
Lei vera, lei che poi c’è stata per tanto.

Ecco, capite?
A vent’anni i miei amici lo ficcavano in ogni buco.
E se non c’era un buco ah beh, lo facevano con la prima cosa a portata.
Tipo il cazzo.

Io invece ho sempre camminato su quello strato di panna montata dove piovono fragole chiamato innamoramento che mi ha dato più fregature del governo Renzi.
E senza manco gli ottanta euro.

Oh, ovviamente ammè, me piace.
Mi piace anche scopare senza interesse eh, o comunque senza impegno alcuno. Cioè, mi piacerebbe, almeno. Ci sono anche riuscito, nei mesi passati, non senza difficoltà ma almeno ho la mia isola felice, ogni tanto.

Il problema ora è che io su quel tappeto di panna ci sto camminando. Ancora. Di nuovo. All’improvviso, oserei dire.
Però Cupido anche ‘sto giro ha fatto un macello infilzando me una quindicina di volte, e con lei manco ci ha provato a scoccare, chessò, una freccia con la ventosa. Una bacchetta da sushi.
Un cazzo di cotton fioc.

Ché io ora andrei lì, da lei, pure ora che ha iniziato a piovere e non smetterà più.
Andrei lì a tirarle i sassolini sulla finestra, con un paio di amici chitarra muniti, a cantarle la canzone che so io, per poi dirle tutte cose sdolcinate di vita insieme e risate ed abbracci e viaggi e che vorrei stringerla in mezzo al suo vento forte e rincorrerla sulle mie spiagge enormi e..

Capite che abbiamo un problema? LO CAPITE?

Sì, lo capite. Lo capisco. Lo capiamo.
E nonostante tutto, io, lo farei lo stesso?

Eh.

Già.

Tracce – Brano Uno – Green Day

"For what it's worth, it was worth all the while."
For what it’s worth, it was worth all the while.

Quand’ero giovane c’era questa. Lei aveva gli occhi verdi ma che con la luce cambiavano, diventavano quasi azzurri. Aveva lunghissimi capelli mossi e rossi, ed un sorriso bianchissimo sulla pelle olivastra. Avevamo diciott’anni ed io iniziai non capendoci un cazzo di relazioni, crociata che orgogliosamente porto avanti ancora adesso. Mi ricordo di uno stupido quanto serissimo contratto in cui ci s’impegnava a non dire-fare determinate cose, che non so in che contesto includeva anche Alessia Marcuzzi. Forse evitare di spezzarmici il polso sopra, ma la butto lì. Contratto firmato con le nostre impronte digitali, stampato in doppia copia che chissà che fine ha fatto.
Ci fu la mia lunghissima e sudatissima prima volta, imbarazzante come tradizione vuole, ma fu lì che m’innamorai del suo corpo e di tutte voi maledette, un qualcosa da ringraziare e bestemmiare iddio per ogni giorno che vi mette in terra.
C’erano cene fuori, compleanni in cui il mio modo di vestire viene ancora preso per il culo perché la camicia di jeans coi bottoni a clip, PERLINATI, effettivamente a pensarci ora è un misto tra il terrore ed l’hipster che ancora manco esisteva il termine.
Ci furono ovviamente scazzi, l’ancor più ovvio periodo di pausa -che dovrebbe esser paragonato alla minaccia personale, per l’ansia che hai nel mentre-, ci fu la rottura definitiva e poi i mille strascichi, le gelosie.. e poi gli anni passano e vedersi, quelle rarissime volte, è un piacere ancor più raro.

Da lì, però, cominciò anche il mio inutile, infantile disturbante lamentarsi nei mesi dopo, la rottura.
E questo, più che una crociata, è un marchio di fabbrica.

Tre Secondi, Il Tempo Di Dire “Anche No”

Tic Tac.
Dodici per l’esattezza.
E non intendo ventiquattro secondi.

Ma proprio dodici Tic Tac, di quelle miste, mela-arancia-banana-susina-fragola.
O almeno ti dico essere state dodici, quelle caramelline che mi facevano l’alito hawaiano e che mi hanno permesso di baciarti senza preoccuparmi del fantasma di quattro gillèmmon ed un tre once di idroponica fattincasa che si dibatteva dietro quella coltre fruttata.

Musica reggae che pompa anche fin troppo forte per il nonno seduto in veranda che dondola dentro di me. Il mio corpo che ondeggia senza cadere solo grazie ad un mix di forza di gravità e vibrazioni dei bassi.
Ti vedo con la coda dell’occhio: molto bassa, molto riccia e molto “sbattimi forte ma parliamo anche dell’ultimo di Wes Anderson”.
Scatti foto ad un tizio alla mia destra, che però all’ultimo si sposta ed il flash mi becca con un’espressione in volto tra il sorpreso, il “oh mio dove sono?!” ed uno che sogna fisso un letto autoriscaldato in una stanza di privazione sensoriale per le successive otto barra nove settimane.

Obama_What

Guardi la foto sul telefono, poi guardi me e scoppi a ridere.

In un secondo ti sono addosso, ti prendo per i fianchi e ti sollevo.
Tu non opponi resistenza, anzi. Ti aggrappi con braccia e gambe come un koala sotto emmedì e cominciamo a scambiarci più fluidi di quanti se ne vedano in un porno brutto. Mi guardi e ridi.
“Che c’è?”
“Hai l’alito che profuma di frutta!!”
“Ho appena mangiato dodici Tic Tac!! Ti da fastidio?”
“Macché!! Anzi!! Profuma di Hawaii!!”
“Ma dwai?”
Se rimane aggrappata dopo ‘sta stronzata me la sposo, se scappa fa bene.
Rimani.
Ok. Da domani soldi da parte per il gran giorno. Ma per il momento.. limonare duro.

Dopo tre ore siamo a casa tua, scampati per miracolo ad un posto di blocco, tre elicotteri dell’FBI ed agli attacchini di cacca pound.
Dopo dieci minuti nemmeno provo a dirti che non mi è mai successo, perché sarebbe una cazzata e già so che, anche se per una notte, di cazzate non voglio dirtene. Tu ridi, poi sorridi, mi guardi con quegli occhi che non so e fai per ricominciare.
E.. oh, se ricominciamo.
Dopo altre quattro volte te lo dico, che non mi è mai successo.

Ridiamo.
Fuori fa luce, e pure dentro di noi.

L'unica altra alba che mi piace vedere.
L’unica altra alba che mi piace vedere.

Dopo tre mesi entri in camera mia con addosso solo la mia maglietta con il faccione fatto di Super Mario, con annessa canna in bocca e la scritta “Wiid” a caratteri Nintendo. Tazza di caffè fumante in mano. Taglio di sole sulle cosce.
Dea.
Torni sotto le coperte, poggi la testa sul mio petto e la mano con la tazza sul piumone.
“Ti amo”, mi fai.
Cuore out of orecchie.
“Anch’io”, ti faccio.
Guardo la tua nuca e sento il tuo sorriso.
Benessere.

Hipsterismi.
Hipsterismi.

Dopo tre anni siamo a casa dei tuoi amici.
Nelle ultime settimane siamo tesi, tu sempre presa dal tuo correre di casa d’altri in casa d’altri per arredarle, io a sbattermi tra il secondo libro da far uscire ed il trasloco da te.
I progetti si sono ammucchiati da una parte, tutti e due troppo presi da noi stessi senza riuscire però a dirselo in faccia, ad ammetterlo ed andare avanti da soli.
Stasera però siamo tranquilli, senza forzature ci facciamo trasportare in chiacchiere sul perché non siamo scappati tutti quando potevamo farlo. Poi ci accorgiamo di suonare vecchi e per sorridere degli anni che scorrono cominciamo a parlare di quando, come coppie, ci siamo conosciuti.
Iniziano loro con il volo perso per Londra, il caffè di lei, presa in una telefonata col capo per giustificarsi, versato addosso a lui, nervoso nel mandare mail per posticipare la riunione col marketing. Da lì le scuse, le risate, le cene per finire con una splendida casa e due pesti che in quel momento erano nascosti sotto il tavolo a sentire gli adulti.
Risate, “uccheccarini”, silenzio.
Tocca a noi.

Dopo tre ore siamo da te.
Mi lanci addosso di tutto, dai vestiti ai libri di Pessoa alla lampada a forma di chitarra ad altri vestiti, però sporchi.
“Per tutti questi tre anni mi hai mentito? PER TRE ANNI?”
“Tesoro, non credo che possa essere chiamato mentir..”
“Zitto cazzo!! ZITTO!! Sparisci, prendi la tua merda e sparisci PERDIOCAZZOMMERDA!!”

Dopo tre minuti mi ritrovo fuori dalla tua porta, cercando di capire le tre seguenti cose:

– cosa starà pensando la signora Pulletti, la tua vicina, che crede io non la veda ma i suoi capelli bianchi quasi celesti che spuntano dalla sua porta socchiusa si vedono eccome;
perdiocazzommerda? che straminchia significa?
– davvero l’ha fatta finita perché ho mentito sul numero di Tic Tac che avevo mangiato la sera che ci siamo incontrati?

Cioè, le dissi dodici, ma saranno state, tiè, tre. Ma non puoi lasciarmi dopo tre anni per questo, non dopo che ho pronti i miei quattro stracci chiusi in scatoloni pronti per essere portati da te.
No, cristo.

Guarda qui.
Guarda qui.

Ti vedo con la coda dell’occhio: molto bassa, molto riccia e molto “sbattimi forte ma parliamo anche dell’ultimo di Wes Anderson.
Scatti foto ad un tizio alla mia destra, che però all’ultimo si sposta ed il flash mi becca con un’espressione in volto tra il sorpreso, il “oh mio dove sono?!” ed uno che sogna fisso un letto autoriscaldato in una stanza di privazione sensoriale per le successive otto barra nove settimane.

Guardi la foto sul telefono, poi guardi me e scoppi a ridere.

Cazzo ridi, stronza ingrata?

Mi giro verso gli altri e chiedo, nell’ordine

cartina
filtro
sigaretta

che il resto ce l’ho io.

Mi giro di nuovo verso di te e non ci sei più.
Meglio così.
Saremmo stati male ebbasta.
Saremmo arrivati a pensare di aver buttato tre anni.

E invece io ho buttato solo tre secondi per immaginarmi tutto, per poi tornare a farmi sturare le orecchie da questi bassi troppo bassi, e ‘sti alti che non durano mai più di tanto.

Ma Tu Non Pensare Male Adesso

La mi controfigura ti aveva scritto un canzone, tempo fa.
La mia controfigura ti aveva scritto un canzone, tempo fa.

Difficile spiegare perché sono così contento.
Ballo da più di due ore, ballo della serie “fallo come se nessuno ti stesse guardando” ma è una cazzata, perché ci saranno almeno altre 400 persone intorno a me ed è difficile immaginarsi soli. Però ballo, e poi guardandomi intorno vedo che anche tutti gli altri stanno seguendo il dogma del passare inosservati. Con risultati disastrosi, tra cui probabilmente anche il mio.
Ma ballo.

Che poi non sono due ore, ma due sere. Ieri Angelo, oggi Angelo.
Ieri sera siamo andati via col collo piegato dalle risate. Risate perché presi bene, presi bene perché quando una pischella rimbalza dai tuoi jeans a quelli del tuo migliore amico a così via già ti immagini da vecchio, con i tuoi nipotini seduti uno per gamba, davanti al camino acceso, mentre gli racconti di quella sera quando tu e il tuo amico vi siete montati una in due mentre vi davate il cinque alla Todd. I tuoi nipotini avranno traumi sessuali per sempre, ma ormai erano rimasti solo loro a non sapere la storia.
E la storia è importante.

Inutile dire siam tutti tornati a casa a pacco asciutto ma tant’è, ne sono valse le risate e gli sguardi e la anche remota possibilità di timbrare due biglietti in uno.

Stasera siam di nuovo qui, dopo un bellissimo concerto. C’è Bob che pompa i suoi dischi e noi a ballare. La situazione è simile alla sera prima, con la stessa pischella che aggiunge solo un altro paio di persone al suo carnet ma per il resto siam qui, a divertirci e pure parecchio.
La mia serata non è iniziata serena, questo sì. Non posso negare che mentre il gruppo suonava, più di una volta mi son girato per guardare se fossi lì in mezzo. Potresti esserci, forse non ci sei, ma io controllo. Non so se sperare di beccarti o meno. Forse no. Anzi molto probabilmente no.
No.
Però ti cerco, forse perché così potrei nascondermi e mandar giù questo Gin Tonic con tutto il bicchiere.

Solo che è proprio mentre do un’ultima occhiata in giro, a serata quasi finita, che incrocio un paio d’occhi che c’è da mettersi seduti per riprender fiato.
Lì per lì avevo notato la tua amica, ma più che altro i suoi occhiali enormi da clown e per la voglia che avevo di rubarglieli. Mentre mi guardo intorno per attaccare, mi giro e tu mi stai guardando. Uno di quegli sguardi che distogli subito perché “m’ha beccato”.

Ora, se lo struscio malizioso ed aperto al pluralismo di quella ragazza mi metteva in imbarazzo ma alla fine capisci il gioco delle parti e ci stai, il tuo sguardo di ieri m’ha paralizzato. I tuoi, sguardi.
Da baldanzoso maschio che non sa muoversi ma lo fa lo stesso, regredisco allo stato embrionale: comincio a giocare col bicchiere lanciandolo in aria e rischiando di rompere crani e coglioni altrui.
Mi giro, mi stai guardando.
Faccio giravolte, passetti, impreco a denti stretti perché non ho il coraggio di venir lì sugli spalti a blaterarti qualcosa, tipo la situazione del Nasdaq o se sei convinta anche tu che gli SMS di solidarietà siano una truffa.
Mi giro, mi stai guardando.
Continuo a ballare nonostante la musica stia finendo, le luci siano accese e quindi, in questo momento, sono un coglione di quasi un metro e novanta che balla seguendo le voci nella sua testa.

Mi giro, non ci sei più.

Cazzo.

Comincio a muovere la testa manco fossi un androide in corto circuito.

Dove sei?

Cerco quegli occhi, quei capelli corti biondi e quel viso sicuramente non terrestre. Ti assicuro che con quello sguardo mi hai quasi spaventato. Cerco quel vestito (viola?), quella borsetta nera. Cerco pure la tua amica degli occhiali, o quella riccia con cui ad un certo punto scrutavi la sala, con io che ero lì a zompettare come un lemure nel periodo dell’accoppiamento. Ti sei messa pure gli occhiali da vista. Montatura celeste, se non sbaglio.
Ma non ci sei.

Bevo un’ultima cosa, maledicendomi e mordendomi labbra e gomiti e orecchie.

Un abbraccio a tutti, usciamo. Fuori dall’Angelo ci salutiamo, e mentre il giro di “se beccamo ar kebbabbaro” continua vedo la tua amica riccia.

Ti cerco, di nuovo.

Niente.

Stupido me stupido me.

Sarà impossibile vederci di nuovo, quindi ti ringrazio per avermi fatto innamorare di nuovo dell’idea di essere innamorato. Il nemmeno troppo nascosto sedicenne che è in me ti è debitore, e ti vorrebbe offrire da bere Venerdì. All’Angelo.

Che la magia della casualità e della botta di culo facciano il loro corso.

Abruzzo: Un Weekend Che Ci Voleva

"Foto che non c'entra Gnente", Ponte Galeria, (poco fuori) Roma.
“Foto che non c’entra Gnente”, Ponte Galeria, (poco fuori) Roma.

Tre giorni di montagne e nuvole, foglie secche e grappa, tavole sempre piene e camini che a starci davanti avrebbe problemi anche Vulcano.

Un mix tra “Stand By Me” e “Il Grande Freddo”, ma senza cadaveri nei boschi o essere amici da una vita. Non tutti, almeno. Iniziare stringendosi la mano e cercando in tutti i modi di non dimenticarsi il nome dell’altro, per finire abbracciati tra un “è stato un piacere” ed i mille “ribecchiamoci a Roma”.
Ed allo stesso tempi condividere risate che non ti facevi e non facevi fare ai tuoi amici di sempre, con un buonumore che da qualche settimana avevi detto “lo metto qui che così me lo ricordo” e che ovviamente non trovavi più ma che all’improvviso BAM! eccolo e senti che bello, tiene quasi caldo qui in montagna.

Una camminata in un bosco che aspettavi da tempo senza cercarla, quei silenzi di sottofondo e quei rumori improvvisi, secchi. Ricci che ti cadono sulle spalle sfiorandoti la testa mentre ti fai una foto, quasi a volerti sgridare per le tue distrazioni da uomo di città.
La legna da raccogliere, tronchi caduti a fare da leva e ancora tante risate, tagli sui pollici, la pioggia che ti sorprende nell’unico momento di relax, quello fatto di panini e vino e racconti. E poi quelle stronzate che ti illuminano il cervello e che ti fanno capire come l’uomo, pur di faticare di meno, se ne inventerebbe di ogni.

Lo zaino porta legno porta legna. Brevetto, please.
Lo zaino porta legno porta legna. Brevetto, please.

E dopo due giorni di tutto questo e molto altro, due tappe così pesanti che al giro d’Italia sarebbero quelle da centoventi chilometri di salita con pendenza al novantaquattro percento.
La seconda è L’Aquila.

Non c’ero mai stato, all’Aquila, né prima né dopo quella notte. E soprattutto dopo mi ero ripromesso di andarci ed invece eccomi lì, ieri, per la prima volta.
Era sera, buio, con pioggia leggera ma così fitta che è facile immaginare l’acqua infiltrarsi nelle crepe. Crepe che sono ovunque, e sono tutte enormi. Ed anche loro si possono tranquillamente paragonare a delle enormi cicatrici.
Ed i punti per provare a richiuderle sono tanti, diversi, ma che a poco sembrano servire. Sembrano sacchi stracolmi di macerie che qualcuno ha provato a chiudere con il filo da cucire.

Camminando per le strade, i vicoli, mi ha colpito l’odore di legna, quello classico della segatura e delle falegnamerie. All’inizio non capivo da dove arrivasse: intorno a noi c’erano solo piccoli cumuli di calcinacci, impalcature in ferro che amplificavano il rumore delle gocce di pioggia tanto da farle sembrare i passi di un qualche mostro nascosto nel buio, e tanto silenzio. Poi ho collegato: praticamente tutte le porte, soprattutto quelle ad arco, avevano delle strutture in travi di legno che ne sostenevano la struttura. Tonnellate di pietra e cemento sostenute da quattro travi messe in croce.

E poi le tante finestre aperte. Una delle cose più inquietanti che abbia mai visto con i miei occhi.
Decine di finestre aperte su stanze in cui ormai non c’è più nessuno che si possa affacciare, fumare una sigaretta guardando stancamente le vecchiette che camminano con le buste della spesa, o lo studente di corsa con i libri sottobraccio.
Finestre che sembrano occhi spalancati di edifici sofferenti, in punto di morte, increduli nel momento di andarsene.

Due cose, però, mi hanno colpito in modo molto positivo.

La prima, anche se molto strana, è stata della musica in filodiffusione che abbiamo sentito due volte in due vicoli diversi. Premetto, entrambe canzoni di merda da hit radio, ma mi hanno fatto pensare tantissimo alla Overture 1812 di Tchaikovsky che parte nelle strade di Londra in “V per Vendetta” per arrivare a esplodere insieme al palazzo di Giustizia. E spero di poter vedere altrettanta gente per le strade di quella splendida città.

La seconda [JINGLE PUBBLICITARIO] è il ristorante-pizzeria-facciamo un filetto al Montepulciano da sentirsi male “Oro Rosso” di cui ho trovato solo questa versione brutta di una pagina FB. Proprio al centro storico, vicino ad una rotonda e a due passi dallo strano e molto Berlinese auditorium in legno colorato, costruito all’ingresso del Parco del Castello. Si mangia benissimo, c’è un cameriere simpatico quanto sudato e ripeto, quel filetto con crema al Montepulciano era una cosa che vale il viaggio.

Insomma, un weekend che ci voleva, soprattutto per questo weekend.