Improvvisate #5 – I Giochi Son Finiti

Mi sei stata accanto, questo so.
Intere nottate passate insieme a ridere, gridare, imprecare e gioire.
Poi magari per giorni, a volte mesi, ci si perdeva di vista: io ero troppo impegnato con la mia vita, tu sempre chiusa in casa davanti alla tv.
Ma quando ci si rivedeva, mi bastava un dito per accenderti e scaldarti. E tu non dicevi mai nulla, stavi lì e ti facevi dire e fare di tutto.
Insieme abbiamo visto film (pure quelli zozzi), serie tv, foto, abbiamo ascoltato musica ma soprattutto giocato, grazie al tuo dono innato di farmi tornare bambino tutte le volte.
E le tue forme. Cazzo, le tue forme: morbide, piene, con quel tuo vestito sempre nero ma portato con eleganza e disinvoltura, che quasi sembravi una sposa in negativo.
Mentre poi, in tutti questi anni, mi divertivo con altre donne, tu mi hai sempre aspettato, senza mai farmi pesare i miei difetti e le mie mancanze.
Sei stata un’amica, una compagna, un’amante, tutto quello che ho sempre cercato in qualcuno.

Ora, dopo quattro anni, te ne sei andata.
È stato un attimo: mi son girato, e sei finita nelle braccia di un altro.
Molto più giovane di me, tra l’altro.
Ma ti capisco, ti capisco davvero.
E penso, con tutto il cuore, che te lo meriti.

Addio amica mia, ti vorrò per sempre bene.

Nemmeno quel bambino ti tratterà bene come ti ho fatto io.
Nemmeno quel bambino ti tratterà bene come ti ho fatto io.

Sette Gradi Di Una Relazione

La conoscete la teoria dei sei gradi di separazione? Ok, per chi ha vissuto fin ad oggi nel ripostiglio di Brunetta, è la teoria secondo la quale io posso conoscere un’altra qualunque persona nel mondo semplicemente tramite altre quattro persone. Chessò, posso arrivare a Roberto Saviano in cinque mosse, o forse anche meno visto che abito in una zona in cui il più pulito ha la scabbia, ma tant’è.
Ecco, nonostante siamo sette miliardi e tutti diversi, tu che leggi potresti conoscere qualcuno che abita a Civitavecchia. Forte eh?

Insomma, l’altro giorno mentre decidevo se mettermi la cravatta o il cappio, ho pensato che uno schema simile esiste per le relazioni, con un passaggio finale in più. Nonostante si sia innamorati e convinti che sarà per sempre, la maggior parte delle volte una storia finirà in sei punti.
Sempre.

Vi spiego quali.

Incontro

Sono passati mesi dalla tua ultima scopata. Ma che dico scopata, sono passati mesi dall’ultima volta che hai parlato con una donna che non fosse la commessa del Tuodì. Dopo la tua ultima storia, ti sei ripromesso di tutto: basta relazioni serie per un po’, basta donne al di sotto dei 26 anni, basta con quelle viziate, basta basta basta. Hai finalmente raggiunto quell’equilibrio comunque instabile, uscendo però da quella situazione che ti portava un giorno a piangere, ed il giorno dopo a iniettare veleno con lo sguardo. Sei quasi felice.
Poi la incontri.
Magari proprio la sera che ti sei ripromesso di farti una serata facile.
Perché appena la vedi, capisci già che non t’interessa più nulla.

Non ti avevo proprio notato la prima sera.
“Non ti avevo proprio notato la prima sera.”

Approccio

Vi siete guardati. A volte sfiorati. Vi è capitato ancora di vedervi al locale. Lei saluta tutti al bancone, tu poca gente, però è l’occasione per presentarsi. Tu biascichi il tuo nome manco fossi in overdose, lei scandisce ogni lettera del suo manco lavorasse alla Crusca. All’inizio vi ignorate, poi inizia un corteggiamento che il National Geographic ritirerebbe una troupe intenta a riprendere il rarissimo Vermis Giovanardis che dice una cosa giusta, pur di fare un servizio su di voi che schizzate ormoni come in una pubblicità di Hugo Boss.
Tu cominci a girarti sigarette con una mano mentre con l’altra sotto l’ascella intoni “I Can’t Help Falling In Love With You”, nella versione degli UB40.
Lei invece farà capolino con lo sguardo dalla selva delle sue amiche civette, intente a mangiare le budella di un topo, e ti guarderà con gli occhi così illuminati da sembrare uno dei bambini de “Il Villaggio dei Dannati”.

"Dio, già gli succhierei via l'anima."
“Dio, già gli succhierei via l’anima.”

Contatto

Ci siamo.
Dopo le richieste su Facebook, le scambio di mail ed account Twitter, gli hashtag su Instagram e.. ah già, i numeri di telefono, c’è l’appuntamento.
E non parlo di quelli in cui siete entrambi imbarazzati, da “oddio che dico” e sguardi sulle merde per strada pur di non guardare lei.
Parlo di un primo appuntamento a ruota libera, fatto di risate e sguardi che sai già si trasformeranno in scambi di fluidi attraverso modalità più o meno legali.
Un’uscita che sai già diventerà un’entrata.
Vi raccontate tutto quello che il discorso appena chiuso vi fa venire in mente, uno scambio di battute così veloce da far girare la testa agli sceneggiatori di “The Newsroom”.
È lei. È presto, ancora non sei nemmeno sicuro del fatto che abbia davvero una vagina. Ma si sa, nessuno è perfetto.

"Va bene anche se mi dai fuoco nel sonno."
“Va bene anche se mi dai fuoco nel sonno.”

Salita

E non salita faticosa. Ma la salita che fai per arrivare in vetta. Vetta di cui parleremo dopo.
Sono i momenti in cui avete già fatto sesso, amore, bondage e fisting, in cui vi siete raccontati i vostri segreti più nascosti (“e ti giuro, non immaginavo che una testa umana potesse davvero parlare, una volta staccata dal corpo”), in cui ognuno dei due esce anche in compagnia degli amici dell’altro.
Vi sorprendete di quante cose avete in comune: ma va, anche tu trovi INDISPENSABILE respirare?
Quando tu sei in giro e lei ti chiama, cominci a fare le classiche cose da innamorato che sta al telefono: ti allontani dagli amici, ti metti davanti a un muro, poggi il dito su una macchia nella vernice e cominci a far girare il fottuto mondo intorno a quell’indice. Ti bruciasse casa, tu quel dito dal muro non lo leverai fino a quando lei non chiuderà la chiamata.
I tuoi amici intanto si sono già ubriacati, ripresi e sbronzati di nuovo.
Ma anche tu non sei del tutto lucido.


non mi veniva nessuna foto azzeccata, quindi ecco un evergreen

Apice

Eccola, la vetta.

È quando tutto va bene, molto bene. Siete una cosa sola, anche quando non state insieme. La gente vi guarda e muore di dolcezza, i diabetici vengono dimezzati, i cali di zuccheri vengono guariti e vincete il premio Nobel per l’Amore come dei moderni coniugi Curie, ma senza che lei muoia per esposizione alle radiazioni, e lui per una carrozza che gli ha spremuto il cranio.
Siete belli. Vi vedete più belli, in forma, nonostante siate immersi in quell’oceano di cazzi chiamato vita. Lavoro, studio, impegni, responsabilità?

!!SHUT DA FUCK UP!!

Noi siamo innamorati.
Nulla potrà mai scalfirci.
Nulla.

"Ma cosa sarà mai, questo nulla che sento giungere sulla mia nuca?"
“Ma cosa sarà mai, questo nulla che sento giungere sulla mia nuca?”

Discesa

Come la salita non era intesa come negativa, di contro la discesa non è una di quelle da fare coi fiori tra i capelli cantando “Aquarius” e masticando acidi.
Decisamente no.
Diciamo che più come essere infilati in un barile pieno di acciughe morte di varie malattie veneree, sigillato e buttato giù da uno di quei canyon alla Beep Beep.
È che escono fuori i “difetti incrociati”, e cioè tu le fai notare il suo che lei ti fa notare il tuo. Poi entrano in gioco i caratteri, il passato, le situazioni di tutti i giorni.
Insomma, quella che prima era la fabbrica di Willy Wonka ora è la casa di una confraternita dopo la festa di fine anno, ragazza stuprata e piena di Roipnol inclusa.
Non capisci nemmeno come ci siete arrivati, a rinfacciarvi di quando tu hai lasciato il cotton fioc usato nelle lasagne, o di quando lei è uscita una sera tornando due giorni dopo giustificandosi dicendo che c’era una svendita di scarpe a Siena.
È fatta, senti il suolo che si avvicina sempre più veloce.
E vaffanculo lo sapevo che non facevano paracaduti di Hello Kitty.

Però fanno il gioco di Hello Kitty che usa un paracadute. Mind blowing.
Però fanno il gioco di Hello Kitty che usa un paracadute. Mind blowing.

Schianto

BAM!!
Suolo.
Durissimo, granitico suolo.
Ti rialzi, scacci la polvere dai vestiti mentre aspetti che si posi quella alzata dalla caduta.
Per dio non si vede una mazza.

Ma capisci anche senza vedere che lei non c’è più.

Anzi, ora che ci fai caso è passato anche un bel po’ di tempo.
La polvere sta ancora lì, ma sai che tanto prima o poi scenderà.
È questione di fisica, è natura, è la vita.
Da sempre.
E allora prendi delle scatole e ci metti dentro tutto quello che ti servirà in futuro.
Col tempo le aprirai sempre meno, ricordandoti a memoria quello che sai ti sarà utile, per un sorriso come per una riflessione seria.
Col tempo.

E poi oh, col tempo potrai dire che sono passati mesi, dalla tua ultima scopata.

Breaking Bad – E adesso?

È difficile dare un giudizio ad una serie come Breaking Bad. È difficile essere oggettivi, e lo è ancora di più etichettare un prodotto che, trasversalmente, ha toccato tutti i punti più alti di quella cosa chiamato Cinema.
Nessuno me lo ha chiesto, sia chiaro.
Ma mi accorgo solo ora, senza avere più il mio chimico preferito accanto, che in questi anni non ho mai scritto di Breaking Bad. E allora perché non farlo ora, per una sola volta?

Non sto nemmeno qui a dirvi che da adesso in poi ci saranno più spoiler che portafortuna a casa Letta.
Zio e nipote.

Sono tanti quei punti di cui parlavo prima e che Gilligan e compagnia hanno raggiunto, non senza fatica.
Innanzitutto quello (scontato?) della sceneggiatura.
Il livello di scrittura è stato così sublime che J.J. Abrams ha pisciato bile per cinque anni. Gilligan ha preso IL personaggio e lo ha fatto partire da A per farlo arrivare alla Z, passando per ogni altra singola lettera dell’alfabeto. Cambogiano.
Premetto che io sono un Lostiano d.o.c. e che per me fino a ieri sera il miglior finale mai visto era proprio quello dei dispersi più famosi al mondo. Detto questo, e senza fare ammenda, capisco solo ora quanto può essere molto più difficile portare avanti un qualcosa di pianificato rispetto ad un prodotto fatto, per mezza serie, improvvisando. Se devi creare in corso d’opera, forse l’effetto sarà più spettacolare ma privo di un colpo vero e proprio. Intendo un pugno in faccia come un conato, ma comunque qualcosa che ti rimane attaccato addosso come se fosse successo davvero.

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“We are a family”.

Breaking Bad ha fatto proprio questo. Ha lasciato dopo ogni puntata un dubbio morale, etico. Ogni volta ci siamo ritrovati a dover fare i conti con le scelte di Walt, sin dall’inizio, sin dal non volersi curare per non finire come un un morto vivente, ancora prima dal trovarci d’accordo o meno con l’uccidere Krazy8, e persino prima con il mettersi a cucinare metanfetamina. Per cinque anni, quel capolavoro di attore che è Bryan Cranston ci ha messo lì, vicino a lui, ed ha diviso con noi il peso di ogni singola scelta. Fino all’ultimo, fino a non farcela più, fino a distogliere lo sguardo dal suo volto. Ma anche fino ad accennare quel sorriso insieme a lui e Jesse, quel “grazie a dio è un addio” negli occhi di Aaron Paul e poi nelle sue lacrime mentre ride ed urla e guarda lo specchietto e poi urla ancora di più. Non ci lasciano il dubbio su cosa farà: magari andrà davvero davvero in Alaska a costruire scatole di legno, ma sarà comunque lontano e forse, finalmente, felice.
Sappiamo con certezza che Walt se ne va più leggero, dopo aver tolto definitivamente la maschera, ammettendo che gli piaceva eccome, fare l’imperatore della droga. Ma allo stesso tempo liberando, davvero e per sempre, lo stesso Jesse.
E non ci lasciano nessun dubbio sugli altri: Skyler, insieme a Flynn ed Holly, passerà una vita misera, che probabilmente neanche i soldi che arriveranno meno di un anno dopo riusciranno a toglierle il peso di tante, troppe macchie del suo passato.
Marie, probabilmente, si suiciderà. O comincerà a fumare meth.
Saul, se tutto va davvero bene, lo vedremo nel suo ormai confermato spin-off, antecedente a tutto quello che conosciamo. Speriamo bene.

Il pregio vero della serie, in pratica, è stata la costanza. La cura e la precisione di Vince Gilligan nel preparare, pezzo dopo pezzo, un gigantesco domino. L’insieme perfetto di un sogno americano che si spezza, la crisi di mezza età tipica degli uomini, il rapporto tra parenti, lo scontro generazionale. Ha trovato gli attori giusti, si è circondato di gente fidata ed affidabile, ed ha dato il colpo alla prima tessera.
Aveva preparato tutto con cura, nei minimi dettagli: si dice che in una passata stagione abbia impiegato ore nello scegliere la tonalità di grigio di una maglietta da far indossare a Dean Norris. Non il colore, attenzione. La tonalitàCi ha fatto capire sempre tutto, ma sempre due minuti dopo: è il cosiddetto foreshadowing, e cioè l’abilità di un autore (letterario, musicale, o come in questo caso televis.. pardon, cinematografico) di inserire alcuni indizi su cosa succederà nel corso della trama. E la maggior parte delle volte non sono così evidenti.

Zac.
Zac.

La puntata “Box Cutter“, ad esempio, si apre con l’inquadratura di un taglierino, che il povero Gale usa per aprire le scatole degli strumenti del laboratorio. Lo stesso taglierino, viene usata da Gus per sgozzare come un capretto Victor. Anche in “Face Off“, mentre Gus si trova nell’ascensore per porre fine alla scampanellante fine di Hector Salamanca, l’inquadratura si sofferma sulla sua mano mentre, come un tic, si tocca  le punte di pollice e medio mentre si sente l’insistente “ding ding” dell’ascensore. Proprio come, poco dopo, lo storpio kamikaze suonerà per far esplodere la bomba.

(da notare che anche già solo i titoli, sono indizi)

Persino il comparto costumi ha contribuito in modo enorme alla riuscita della serie: partendo da tutte le sfumature possibili di viola di Marie, ai primi arancioni di Hank che si trasformano in colori più cupi man mano che il suo personaggio diventa sempre più consapevole dello tsunami di merda che gli si sta per abbattere addosso.

Se pensate che io perda tempo, guardate qui.
Se pensate che io perda tempo, guardate qui.

Ovviamente, c’è Walt. Dai colori pastello, così neutri da farlo sparire nella sua iniziale inutilità, arrivando al nero di Heisenberg, un nero più integrale possibile, con cappello ed occhiali. Fino a tornare ai colori fermi una volta uscito dal giro, per lasciarsi poi morire con l’identico dress code della prima puntata, quello prima di trovarsi in mutande nel deserto.

La musica. Ah, la musica di Breking Bad. È da ieri sera che ascolto la playlist su Spotify, e credo che mai nessuna serie abbia mai avuto una migliore scelta di brani. La migliore, in assoluto.
Se pensando a Lost mi verrà in mente la sigla, e le due canzoni top che tutti conosciamo, pensando a BB penso a mille momenti, mille singole canzoni magari anche solo accennate che hanno accompagnato un momento, solitamente non parlato. Inutile dire che questo rimarrà probabilmente il miglior abbinamento canzone/scena finale della storia del mondo tutto.

Per il resto, non so che altro dire se non che sono anche queste stronzate a rendermi felice di essere nato in questi anni. Già le soddisfazioni son poche, almeno quelle virtuali.

Inutile dire che tutto questa manfrina non ha uno scopo, forse nemmeno un senso. Spero di non avervi annoiato.
Ma, anche solo per una volta, volevo dare il mio omaggio a quella che rimarrà per molto tempo, forse per sempre, la migliore serie tv che sia mai stata ideata, scritta ed interpretata.

"Guess I got what I deserved".
“Guess I got what I deserved”.

 

Un solo appunto: ma Huell?

Meanwhile..
Meanwhile..

Introduzione Retroattiva

Mi piacerebbe dare per scontato che tutti voi abbiate già sentito (parlare) delle miniature, ma di scontato ormai ci sono solamente le tariffe per i cellulari ed i prodotti di prima necessità alla Coop. Quindi se proprio non ci siete ancora arrivati, vi do un assaggio:

Senza dilungarmi troppo, ieri Gabriele e Silvia (le minature, se ancora non si è capito) si sono esibiti al Celacanto, piccolo grande centro di quella che tutti chiamano cittadinanza attiva, ma che lì si fa per davvero. Creato dall’associazione “Coppula Tisa” anni fa, il Celacanto ha cominciato a distinguersi dalla massa di associazioni più o meno attive sul territorio salentino. Territorio che sembra essere stato scoperto solo negli ultimi cinque anni, ma che ha più storia e tradizioni degli Stati Uniti d’America. Una terra amata ed allo stesso tempo presa di mira da speculazioni, palazzinari, gente che senza scrupoli devasta interi terreni con i purtroppo noti “ecomostri”, dalla casa costruita sulla scogliera al bar che per essere tirato su distrugge costa e spiaggia.
Antesignani nel campo, i soci di Coppula Tisa nel non troppo lontano 2005 acquistarono un orribile fabbricato abusivo mai terminato che deturpava da fin troppo tempo un tratto bellissimo di costa. Dopo averlo acquistato, beh.. lo hanno distrutto a colpi di ruspe e picconi. Un’azione, una di quelle vere in cui ci sporcano le mani, la fronte, in cui ci ferisce e si marchia il posto col sangue. Da lì, questo tipo di azione è stata ispirazione per tantissime altri “compra per distruggere” nell’ambito dell’abusivismo edilizio.
Gente col cuore, quella di Coppula Tisa.
Cuore e palle, lasciatemelo dire.

Azioni. Reazioni. Emozioni.
Azioni. Reazioni. Emozioni.

Oltre a questo e ad altre tantissime iniziative (laboratori di riuso e riciclo, falegnameria, detersivi e prodotti per la casa fai da te), una delle più belle è forse quella dell’ospitalità solidale. Esempio: se sei un musicista, cantante, artista di strada e vuoi esibirti o solo trovare un posto dove dormire, tu ci metti la tua arte, e loro l’ospitalità tutta salentina. Una camera, il cibo, ma soprattutto la compagnia ed i sorrisi, che di questi tempi sono più rari di un assessore che ci capisca qualcosa del suo lavoro.
Ma può capitare che tu non sappia suonare altro che un citofono, e che la tua arte di strada al massimo sia tenere la porta aperta alle signore. Ecco, anche in questo caso sei sempre loro ospite e tutto quello che devi fare è dare una mano a sistemare il posto. Dal mettere un paio di chiodi al dipingere, dal cucinare e scartavetrare un muro.

“Ma io sto in vacanza!!”

E allora vai a spendere un sacco di soldi per un posto affollato e che è tenuto come la stanza delle torture di Guantanamo.

(ok mi sono dilungato)

Insomma, ieri sera il mondo miniature e quello Coppula Tisa sono entrati in collisione, una splendida collisione.
Mi hanno chiesto di introdurli prima del concerto. Visto che non parlavo davanti a così tanta gente da quando mi sono dovuto giustificare per un arresto per atti osceni in luogo pubblico, mi sono un po’ emozionato.
Quello che è uscito fuori è stato:
“hghghghgh miniature ghghghhg orgoglioso ghhghghg grazie ghhghggh miniature!!”

Quello che avrei voluto dire, invece, è questo:
“Gabriele e Silvia, qui dietro a me, sono le miniature. Li ho conosciuti quasi due anni fa mentre passeggiavoa Piazza Navona con un’amica per Roma. Non so se, in un altro momento della mia vita, mi sarei fermato. E non per togliere qualcosa a loro, anzi. A fine serata vi sentirete più ricchi di ora, ne sono sicuro. Ma sapete quando “è il momento”? Ecco, quello lo era. Quel giorno di Ottobre col sole, il sorriso e la bellezza di quella mia amica che non vedevo da troppo tempo, la piazza piena al punto giusto. Insomma, era il momento.
E dopo un’intervista, dopo averli fatti conoscere in giro grazie alla rivista per cui collaboro, grazie alla loro disponibilità artistica ma soprattutto umana eccoli qui. Dopo avergli rotto le scatole per tutto questo tempo, avergli scroccato pranzi, passaggi e cd, è con un piacere che non so nemmeno descrivere in questo momento che vi presento due bravissimi artisti, due geniali musicisti ma, ecchecavolo lasciatemelo dire, due amici.

Le miniature.”

Ecco, vale sicuramente meno ora che il concerto è finito tra applausi, sorrisi e tanta ottima musica.
Ma credo valga e varrà per sempre come introduzione a due persone straordinarie, e che mi aiuterà a ricordare la serata di ieri come una delle più belle della mia vita.

Diciassette Anni Fa

Happy Birthday

Diciassette anni fa mi ero appena trasferito nella nuova casa, dopo un periodo di stallo a casa di mia nonna. Ci avevano mandato via dalla vecchia, e per mesi abbiamo vissuto a San Saba tutti quanti. Ricordo che mio padre non dormiva per i rumori di quelli che abitavano sopra, abituato com’era al silenzio di quella che “una volta era tutta campagna”.
Io ero contento da morire: ero sempre con i miei ma allo stesso tempo con mia nonna, che come tutte le nonne non poteva crederci al fatto di potermi viziare tutti i giorni, tutto il giorno, e non solo nei mesi estivi o i weekend. Anche se stavamo stretti, dovevo svegliarmi ancora prima del solito per arrivare a scuola, anche se le abitudini per un po’ erano cambiate, io ero contento da morire. Ci festeggiai anche il mio compleanno, il mio decimo per l’esattezza, ed i miei zii mi regalarono l’orologio di Topolino, quello col sorcio al centro con le braccia a le lancette. Quanto mi faceva ridere quando erano tutte storte, perché lui comunque manteneva il classico sorrisone a bocca aperta tipico del topo più antisemita del mondo.

Diciassette anni fa ho visto la mia nuova casa costruirsi “da sola”. È un prefabbricato in legno, e gli operai insieme a papà dopo aver gettato la colata per le fondamenta, avevano piazzato le basi di legno che delimitavano le pareti esterne e quelle della camera. Era bello: sembrava una mappa, una planimetria, però vera, fisica. Ricordo che passavo da una stanza all’altra semplicemente scavalcando una trave. C’è una foto, che conservo ancora adesso, dove sono lì con quei capelli a caschetto (lisci), la felpa de Il Manifesto col bimbo che dorme, pugno chiuso e la scritta “La Rivoluzione Non Russa”, gli occhiali da sole rossi tondi alla John Lennon che adoravo appesi intorno al collo col cordino. Ma la cosa divertente era lo sfondo: una parete in legno a metà, più bassa di me, ed una finestra incastrata nel mezzo. Perché casa l’hanno costruita così: due travi in verticale, due travi in orizzontale, due travi in verticale.. e così via. Poi arrivava il momento di piazzare le finestre, e quindi rimaneva questa casa, un’immagine a metà tra la costruzione e la distruzione. Ricordo che con mamma abbiamo buttato 200 lire tra due delle travi che formavano la parete divisoria tra la mia (ormai ex) camera e la loro. Dicevano portasse fortuna. Ma l’immagine più forte è quella del tetto, poggiato sopra come un tappo su una scatola, fissato alle pareti ed alle due colonne.. e fine. Sembrava un’enorme costruzione in Lego, ma di legno. La Leg(n)o.

Diciassette anni fa usciva “One Hot Minute”, dei Red Hot. Io non sapevo nemmeno chi fossero, all’epoca ascoltavo.. boh, manco gli 883. Forse ero fermo a “Don Raffaè” ed a tutta la discografia di Battisti. Meglio di niente, per carità.
Ovviamente l’ho scoperto tardi, quell’album, e come molti non l’ho apprezzato subito. Il mio primo album dei Red Hot che comprai fu “Californication”, quasi cinque anni dopo. Poi seguì “Blood Sugar Sex Magik”, uscito che avevo cinque anni, che tutt’ora reputo il loro disco migliore, ed uno dei miei preferiti in assoluto.
Quando ascoltai OHM per la prima volta, non lo capivo proprio. Cronologicamente si piazza esattamente a metà tra i due prima citati, ma musicalmente è totalmente fuori da ogni schema musicale seguito dai quattro di L.A. (se mai ce n’è stato uno). Considerando che Frusciante aveva dato di matto durante l’estenuante tour per promuover il precedente album, e qui veniva sostituito da Navarro che veniva dai Jane’s Addction, l’aria in casa RHCP cambia totalmente. Per la prima volta il funk viene mischiato al metal. Il disco a volte si fa pesante come un tir di macigni che ti viene scaricato in faccia (vedi l’apertura con “Warped”), a volte dolce come il miele mischiato nello zucchero (“Tearjerker”). Flea è impazzito come non mai, tarantolato e “slappato” come non lo si sentiva da tempo, talmente galvanizzato da concedersi un solo con “Pea”. Chad Smith.. vabbè ho sempre considerato Smith il migliore del gruppo, e qui si capisce davvero perché: una ritmica pazzesca, una perfezione ed una carica tale da reggere tutto e tutti, per l’intera durata del disco. Kiedis, infine, è in totale stato di grazia. Oltre a strillare come sempre, in quasi tutte le canzoni, tira fuori una parte melodica a tratti lisergica, anche se coca ed eroina avevano fatto, di nuovo, la comparsa nella sua vita, oltre al Valium che aveva cominciato ad assumere dopo una imponente operazione ai denti. Questo però non lo trattiene dall’esprimersi al meglio, influenzando oltre il suo modo di cantare, anche quello di scrivere. (anche se meno rispetto agli album precedenti). Escono perle rare, tra cui le ballate come la già citata “Tearjerker”, “Falling Into Grace” e la splendida “Walkabout”.
Ne esce fuori un capolavoro per pochi, ed un album strano per molti. Di certo qualcosa che esula dal fantomatico percorso dei Red Hot Chili Peppers, qualcosa che solo la rabbia per la lontananza di Frusciante e l’irruente comparsata di Navarro hanno contribuito a farlo diventare il mio secondo album preferito della band, dopo “Blood Sugar Sex Magik” e “Californication”.

Tanto per la cronaca, se non erro la mia copia originale la regalai alla mia ex. O forse me l’ha ridata con un sacco di roba l’anno scorso. In caso contrario, spero esploda.

Diciassette anni fa un album mi ha cambiato la vita, anche se anni dopo.
E non smetterò mai di ringraziarli.

[ma grazie anche a Wil di Non Leggerlo per avermi ricordato, senza volerlo, del compleanno del disco e perché gli ho rubato l’immagine]