“Ma che t’ha mozzicato, un ragno? Un pipistrello? Sei cascato da ‘n’artro pieneta?”
Questo è quello che dice Lo Zingaro, interpretato da Luca Marinelli, a Enzo Ceccotti, un enorme (in tutti i sensi) Claudio Santamaria.
Glielo dice con gli occhi da pazzo, un po’ Joker un po’ personaggio di Guy Ritchie, affamato di notorietà e potere come non mai.
È una delle scene di “Lo Chiamavano Jeeg Robot”.
Una perla quasi appoggiata nel panorama del cinema italiano, silenziosamente calata dall’alto come farebbe il più classico dei supereroi.
Non vi dico la trama, che quella è facile facile: prendete tutti i più classici stereotipi dei fumetti e film sui superereoi, ed avrete la struttura del film.
Ma è quello che ci viene costruito sopra, e come, a fare la differenza.
“Lo Chiamavano Jeeg Robot” (da qui “LCJR”, che sennò sbrocco) è un film che va visto se vi piacciono varie cose, e non per forza tutte insieme, tipo: fumetti e robocartoon di enormi pupazzi di latta che se le menano fortecchiaro (no, non ero un fan, io vedevo “La Signora Minù”), un film con una bellissima fotografia, Roma per quello che è (ovvero una città sporca e cattiva che senza aggiunte è una perfetta Gotham), un cattivo superbo che di solito dici di vederlo solo nei film americani, un buono con un sacco di problemi che di solito dici di vederlo solo nei film americani, una protagonista femminile eccezionale che mi ha fatto andare simpatica quella parlata coatto-ripulita-strascicata che anzi fa metà del personaggio, le tette, Santamaria con la panza che comunque fa sempre un sacco manzo, la maschera da supereroe più bella di sempre, alcune delle imprecazioni romane più belle di sempre (“Saremmo due fiji de ‘na supermignotta” mi ha devastato), il Danone, la Curva Sud e di conseguenza la Riomma, il dramma, il dramma interiore di un uomo chiuso in se stesso, il dramma di una ragazza problematica, il dramma di una persona che distrutta dalla voglia di fama-soldi-luce della ribalta criminale è disposto davvero a tutto, il dramma di una città sconvolta da attentati, le tette.
“LCJR” è un film attuale e nuovo nonostante sappiate fin dall’inizio come andrà a finire.
O forse no.
Certo è che io non son bravo a fare le recensioni ma posso metterci la passione per una cosa che mi ha entusiasmato. Posso dirvi che dovreste andare al cinema a vederlo, perché diamine son soldi spesi benissimo. Posso dirvi che vi emozionerete. Posso dirvi che questo film è riuscito sicuramente in un’impresa: quella di ammutolire, in una delle scene più alte, una sala di spettatori quasi tutti casuali, di quelli da multisala e “boh annamese a vedè Gigghe Robbò che l’artri posti sò tutti finiti”. Tutti muti, dopo una visione comunque -lo ammetto- interessata e disturbata solo da quella cretina che dietro di me non riusciva a non scalciare il mio schienale ad ogni cambio di posizione.
Posso assicurarvi comunque che è un film coraggioso, tecnicamente al limite della perfezione, con interpreti in stato di grazia ed un regista (Gabriele Mainetti) che qualcosa ci ha già detto e che ora ce lo dice un po’ più forte ancora, tirandoci per la manica della giacca ed indicandoci uno dei tetti dell’EUR, di Garbatella, di Trastevere, facendoci notare un’ombra che, spero sinceramente, torni presto a darci almeno il senso, della protezione.
(a margine, vi segnalo l’iniziativa della Gazzetta con la quale, dal 20 Febbraio, si può prendere il fumetto ispirato al film scritto da Roberto Recchioni -che ha anche disegnato una delle quattro copertine variant-, disegnato da Giorgio Pontrelli e Stefano Simeone, e con le restanti tre copertine realizzate da quegli altri tre supereroi di Giacomo Bevilacqua, Zerocalcare e Leo Ortolani)
Esattamente quattro mesi ed un giorno fa, scrivevo solo che belle parole per i ragazzi di BigRock. Li avevo conosciuti solo il giorno prima, stanchi dell’ultima notte a tirar su la sceneggiatura che avevo scritto per il loro concorso. Ho vinto, e ‘sti matti in tre settimane hanno reso viva “La Telecamera“.
La bellezza.
E visto che son matti anche peggio di me, in questi mesi ci siamo continuati a sentire ed abbiamo deciso di far girare il corto, in modo molto mirato, in alcuni festival di cinema. Fino ad oggi lo abbiamo proposto a tre festival, e tutti sono sembrati subito molto interessati.
Il primo è stato il SIFF – Salento International Film Festival.
Il SIFF è una bellissima manifestazione che ha concluso ieri la sua undicesima edizione. Undici anni in cui si è evoluto fino ad essere esportato dal suo ideatore Gigi Campanile in Asia, dove ormai è una sicurezza per qualità delle pellicole scelte personalmente da Gigi.
Ho avuto il piacere lo scorso anno di partecipare come giurato, ed ho avuto la possibilità di testare la qualità di tutti i film in concorso, corti compresi.
Per questo, parlando con Marco di BigRock, abbiamo pensato potesse essere un buon inizio per vedere cosa poteva succedere.
Ed è successo.
È infatti col cuore pieno di gioia che posso annunciare ufficialmente la vittoria de “La Telecamera” al SIFF, nella categoria “Corto di Animazione”.
È difficilissimo spiegare a parole il frullato di pensieri che si rincorrono in testa ora.
Ho già spiegato come il corto è nato dalle mie dita e come quelle splendide creature di BigRock lo hanno reso vero, reale con un lavoro immenso in pochissimo tempo.
Che voi penserete che per quei due minuti finali saran serviti tre giorni.
Selallero.
Tre settimane che son bastate pelo pelo, e la loro stanchezza di cui parlavo all’inizio, il giorno della prima, ne era una prova più che chiara.
Ma erano felici, felici di aver fatto bene quello che piace a tutti loro. Soddisfatti di aver visto un mucchietto di parole diventare quello splendore che è “La Telecamera”.
Io mica smetto di ringraziarli eh. Non ci penso proprio.
Perché per me questa cosa ha significato, e continua a farlo, tantissimo. Una distrazione che è diventata un’amicizia, uno stimolo, magari anche il metter lì altri progetti.
Di certo con i festival non ci fermiamo. Anche perché ora, le pellicole vincitrici in ogni categoria del SIFF si faranno un bel viaggetto fuori di nostri confini. Ora si va ad Hong Kong, e Los-fuckin’-Angeles (o forse Lon-fuckin’-don, ancora non si è ben capito!!).
OH YEAH!!
Quindi non è proprio il momento di lasciarci stare, anzi.
Ora i BigRockers se ne stanno in giro per gli States, come ogni anno, a girare nei Canyon o a correr come i matti su sterminati laghi salati.
Poi tornano, faran mille feste e nel frattempo, forse, MAGARI STUDIANO PURE.
Bastardi ❤
Stay tuned, “La Telecamera” ancora non si è spenta.
Sono seduto ad una scrivania che conosco da poco più di ventiquattr’ore.
Nell’altra stanza c’è qualcuno che si asciuga i capelli ma pur essendo sveglio dalle nove ancora non ho capito chi sia.
Un sole che ancora non mi aveva mai scaldato filtra da queste tende bianche.
Ascolto l’ultimo di Brad Mehldau e penso sia follemente fico. (così, tanto per)
Sono a Meolo, in provincia di Venezia.
Sono qui perché ho partecipato ad un concorso con una sceneggiatura per un corto, e su più di trecento storie hanno scelto la mia.
OH. Piano con le domande, eh.
In pratica sono una scuola di computer grafica. E fin qui, tutto ok.
Solo che loro filosofia non è: venite in classe, imparate, fate, ciao.
Qui tu entri in un modo, ed esci in un altro. E a me è bastato qualche contatto iniziale ed un giorno per capirlo.
Quando i ragazzi entrano per la prima volta a BigRock, ex fienile immerso nella campagna veneta, sono spinti da una passione enorme per tutto quello che riguarda CG, poligoni, pesature, zone bianche e nere, maquettes (così se mi leggono faccio quello che si è imparato i termini). Arrivano con questa passione selvaggia, incontrollata. C’è chi ha mollato tutto per venire qui e partecipare al master, chi si è sbattuto per pagarselo, chi fa avanti e indietro i weekend per tornare a casa.
Questa passione, però, non viene smorzata, né messa in riga al servizio della produzione.
Il loro impeto viene alimentato, nutrito con viaggi, feste, e con una sola, grande regola: vivere in gruppo.
Quello che Marco, il direttore, ha ribadito più volte è che i ragazzi devono divertirsi, devono studiare, ma prima di tutto devono imparare a stare e principalmente essere, un gruppo.
L’esempio più bello è il viaggio negli Stati Uniti che ogni anno la scuola organizza.
Ci sono quattro tappe: San Francisco, Los Angeles, il deserto del Nevada e Las Vegas.
E ok, ovvio, vanno alla Pixar ed in tutti i posti che fino al giorno prima la maggior parte aveva visto solo come logo all’inizio dei film d’animazione.
Il vero viaggio di scoperta però, come diceva Proust (Google saves), non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.
E sono proprio gli occhi di questi ragazzi che s’illuminano, quando ti parlano del viaggio, a farti capire quanto sia stato importante. Perché ci sono sì quattro tappe, ma nel mezzo loro si perdono. Per scelta, per modalità di viaggio, per viverselo davvero.
Sei jeep, nella numero uno in testa alla fila a volte si fa dire un numero e destra o sinistra.
“Quattro sinistra!!”
E via che alla quarta a sinistra si gira e poi così alla prossima ed alla prossima ancora.
È così che hanno bucato due volte nel deserto, lasciando la macchina lì. Così sono arrivati all’albero dei desideri di San Francisco dove chi vuole può attaccare ad un ramo il suo biglietto con su scritta la cosa che desidera. Così hanno trovato una città abbandonata in mezzo al nulla.
Così tornano da un viaggio con gli occhi nuovi.
Che poi sono gli stessi occhi di ragazzi giovani che fanno feste pazzesche, ma sul serio. Occhi curiosi, affamati del presente e con già apparecchiato per domani.
I fondatori, Marco e Guido, non sono persone normali.
Assolutamente no.
Sono rivoluzionari.
Hanno avuto un’idea, l’hanno portata avanti e dopo pochi anni hanno creato una vera e propria rivoluzione nel mondo della CG e non solo.
La filosofia di BigRock è un qualcosa che se applicato al mondo del lavoro nel settore dell’arte, della cultura, dell’informazione riuscirebbe a creare sinergie uniche in questo campo, ed allo stesso tempo così grandi da aiutare, anzi spingere migliaia di giovani a inseguire i loro sogni.
Nella vicina H-Farm questo concetto si allarga alle start up. Visitate il sito, dico sul serio, vale più di mille miei inutili aggettivi. Un luogo strepitoso.
Insomma, questa Grande Roccia è un luogo dove la magia si crea principalmente perché ne sei circondato.
Poi certo, sono persone anche loro: non è che non litighino, non abbiano i loro pensieri o non facciano la cacca come le donne.
Ma è un gruppo così bello ed unito che rende tutto il resto intorno meno merda, ecco.
Oggi è il loro ultimo giorno dopo sei mesi folli.
Non sono andato perché sarebbe come imbucarsi ad una festa in casa di qualcuno, da solo e senza nemmeno aver portato da bere.
(che poi la festa stasera ci sarà ed io andrò, è un’altra storia che probabilmente non vi racconterò perché non ricorderò)
Io a ‘sti ragazzi gli auguri ogni fottuto bene, dal primo all’ultimo, da chi mi ha cercato la prima volta a chi mi ha dato un tetto, da chi mi ha offerto quattro Spritz a chi mi ha fatto vedere dei video così stupidi che ho riso tantissimo per ore.
Mi auguro, anzi sono sicuro, che quando vedremo la prossima bomba a mano della Pixar, Dreamworks o chi per loro, lì in mezzo ci sarà un diavolo di BigRocker che avrà reso la nostra visione un’esperienza unica.
Mi sei stata accanto, questo so.
Intere nottate passate insieme a ridere, gridare, imprecare e gioire.
Poi magari per giorni, a volte mesi, ci si perdeva di vista: io ero troppo impegnato con la mia vita, tu sempre chiusa in casa davanti alla tv.
Ma quando ci si rivedeva, mi bastava un dito per accenderti e scaldarti. E tu non dicevi mai nulla, stavi lì e ti facevi dire e fare di tutto.
Insieme abbiamo visto film (pure quelli zozzi), serie tv, foto, abbiamo ascoltato musica ma soprattutto giocato, grazie al tuo dono innato di farmi tornare bambino tutte le volte.
E le tue forme. Cazzo, le tue forme: morbide, piene, con quel tuo vestito sempre nero ma portato con eleganza e disinvoltura, che quasi sembravi una sposa in negativo.
Mentre poi, in tutti questi anni, mi divertivo con altre donne, tu mi hai sempre aspettato, senza mai farmi pesare i miei difetti e le mie mancanze.
Sei stata un’amica, una compagna, un’amante, tutto quello che ho sempre cercato in qualcuno.
Ora, dopo quattro anni, te ne sei andata.
È stato un attimo: mi son girato, e sei finita nelle braccia di un altro.
Molto più giovane di me, tra l’altro.
Ma ti capisco, ti capisco davvero.
E penso, con tutto il cuore, che te lo meriti.
Addio amica mia, ti vorrò per sempre bene.
Nemmeno quel bambino ti tratterà bene come ti ho fatto io.
Abitare a Roma, per tutta una serie di motivi, non è proprio il massimo.
Si ok, i monumenti e l’atmosfera, il cazzo che vi pare. Ma ormai il quotidiano romano equivale ad essere messo in una stanza con le migliori pornostar del momento, ma legato ad una sedia. Ci sarebbe tanto da leccare, ma non puoi.
Qualche minuto fa, mentre rientravo a casa, mi sono immaginato Roma, ma soprattutto la mia zona, come un videogioco. E nonostante abbia alle spalle praticamente venti, onoratissimi anni da videogamer, non sono sicuro di poter riuscire a finirlo, ‘sto gioco qui.
Inizia la mattina, con la sveglia. Ecco, questo è il tutorial, il livello che fai senza rischiare di morire e dove una voce metallica di donna ti guida passo passo.
“Apri gli occhi. Bravo! Ora, se vedi un poco appannato, non preoccuparti: ti sei appena svegliato, è normale! E poi se continui ad andare a dormire come se fossi John Belushi mezz’ora prima di morire, ringrazia dio che ti svegli!!
Grazie, tutorial. È sempre un piacere.
“Figurati. Ora fai un breve riepilogo mentale di quanto fa schifo la tua vita, e poi piedi in terra! Forza! Perfetto, così. Ora, muovendoti a destra e sinistra, evita nell’ordine: il termosifone elettrico, quattro paia di mutande, cinque di calzini più quei tredici spaiati.. così, bravissimo!! Ora allunga la mano ed apri la porta, ma prima preparati all’impatto con la luceeeeeeeee appunto. Aspetto che finisca la cecità. Rielaboro. Ok, possiamo andare.”
E così via, fino a quando quell’insieme di pipì/macchinette del caffè/cacca/dentifricio/tuffo nell’armadio cosparso di colla diventi un tu, magari un poco diverso dal giorno prima ma comunque incastrato nello stesso, identico livello.
Nei videogiochi, ci sono punti di un quadro che devi ripetere per ore: un salto in Prince of Persia, una curva a Gran Turismo, una Sniper Wolf a Metal Gear Solid o una combinazione di tasti a Fahrenheit. Il tutto corredato da lanci di joypad e fitte precipitazioni di madonne con improvvisi rovesci di cristi. Piano piano, però, riesci a capire angolazioni, tasti, momenti giusti fino a quando non superi quel punto e via, più felice e più saggio, verso il nuovo ostacolo.
Nella vita, idem.
Uscito di casa, devi prendere l’autobus. Chi prende la macchina è a livello extreme, ed io non ci gioco mai al livello extreme perché rosico troppo.
L’autobus è come una di quelle pedane mobili dei platform, come in Crash Bandicoot.Arrivi alla fermata e come con le pedane devi beccare il momento giusto per saltarci su, sperando che non sia appena passato perché altrimenti devi aspettare troppo e rischi che scada il tempo. Quando c’è sciopero, è una parte del livello a difficoltà hard e solo dopo anni d’esperienza puoi risolvere grazie a trucchi come il passaggio a scrocco o la carta lavoro da casa.
Inoltre, sulla pedana-autobus corri il rischio di trovare un boss, il controllore. Ma io ho il mio scudo protettivo annuale, la carta Metrebus. È uno di quegli accessori che non acquisisci con il tempo, ma con i soldi sullo store dell’Atac.
Viaggiare su un autobus di periferia significa reggere l’impatto con una media tripla di buche rispetto a quelle del centro. Ce ne sono così tante che a volte mi salta l’iPod come se fosse un lettore cd.
Questo punto, come i ritardi e la maleducazione degli autisti, si supera con l’abilità Santa Pazienza, una delle più difficili da acquisire al 100% ma anche una delle più utili in quanto, per esempio, impedisce di dare in escandescenze come i matti a Termini ed evita il conseguente arresto per atti osceni in luogo pubblico.
Diciamo che mettiamo il gioco in pausa da quando entrate a lavoro o dove cazzo passate le giornate fino a quando ne uscite.
“Allora? Che facciamo? Qui si deve ricominciare!!”
Checcazzo tutorial, avvisa. Mi hai svegliato.
“Appunto. Forza, prepara lo zaino e via dall’ufficio. Sai cosa dobbiamo fare.”
No dai, oggi no. Guarda, dormo qui. Mi metto sotto la scrivania.. oppure metto un po’ di scatole vuote schiacciate a terra, eh? Che dici?
“No. Forza, in marcia.”
Ennò su. Facciamo così: vado a prendere del vino, un paio di pizze e stiamo qui a parlare.. nemmeno ci conosciamo!!
“Certo, che non ci conosciamo. Non ci conosciamo perché io sono una voce nella tua testa, e non puoi conoscere le voci nella tua testa. Né tantomeno offrir loro del vino sperando poi in chissà cosa.”
Ah no?
“No. Possiamo andare, ora?”
Andiamo.
Uscito dall’ufficio, entri in modalità Hard: sei stanco, hai perso punti energia ed hai bisogni di salvare i progressi fatti.
Prima di tutto, devi attivare subito l’abilità Visione Notturno–Periferica, per avere una vista ottimale dato che ora fa buio alle due di pomeriggio, ed anche la più ampia possibile per evitare le mine disseminate lungo il percorso.
E per mine intendo merde di cane. Decine, di merde. Che poi, cane. Magari fossero solo di cane.
Fatto sta che queste enormi montagne di merda che manco il dottor Grant di Jurassic Park ha visto mai sono ovunque, alcune negli stessi punti di qualche ora prima alle quali se ne sono aggiunte altre ancora.
Pensi al gioco dei giochi, Campo Minato si Windows, e vorresti mettere bandierine su bandierine.
Non sulle merde eh, ma nel culo dei proprietari dei cani.
Poi devi aspettare di nuovo la pedanautobus, e non capisci il perché ma sempre, da sempre, la sera in quella zona passa una tua pedana ogni tre, quattro pedane degli altri. Che mica puoi prenderne una a caso, altrimenti rischi di andartene dritto in un livello che non conosci. E poi come torni?
Insomma aspetti, e intanto completi qualche piccola missione complementare: fumare una sigaretta, appuntare un’idea sul taccuino, guardare più culi possibili senza farsi beccare, tipo il fantasmino di Super Mario Bros. 3.
Ecco la pedana, che a quest’ora è piena di altri giocatori, e dalle facce di vincenti ce ne son pochi.
Mentre sopporti l’ennesimo tour di buche che sembra un massaggio shiatsu fatto da una pressa idraulica alimentata ad anfetamine, cambia la musica.
Quello che prima era un motivetto ripetitivo in midi, diventa un insieme di violini che scandiscono il tempo in crescendo, facendo salire la tensione: è il momento del boss.
A differenza dei boss classici dei videogiochi, che solitamente sono o mostri giganteschi sputa morte o personaggio super intelligenti che sarebbe più facile battere a scacchi il Deep Blue della IBM, il mio mostro finale è una serie di ostacoli uno dopo l’altro, accomunati da un’unica cosa: il buio. Perché i lampioni che funzionano, a Ponte Galeria, li danno solo nella versione deluxe.
Tali ostacoli, nell’ordine, sono:
– l’autista che potrebbe non sapere dov’è la fermata e quindi tirare dritto, visto che fino al turno prima ha fatto la navetta circolare del Gianicolo, e perché sul rettilineo tutto dritto con un mezzo che pesa mille milioni di chili che fai, non vai a 180? Evidentemente lui sta giocando a GTA.
Ma diciamo che si ferma in tempo.
– devo attraversare la strada. Ripeto, è buio pesto, c’è un rettilineo che nemmeno quello nel circuito di Catalogna quindi se l’autobus correva, immaginate le macchine. Fari che da punte di spilli si trasformano nelle luci dell’astronave di E.T. in due secondi netti, DeLorean che sfrecciano a mezz’aria gareggiando con i veicoli di Wipeout. Attraversare la strada è come farlo in Frogger, solo che non vedi in tempo quando arrivano.
Ma oggi è il mio giorno fortunato, ed attraverso la strada.
– il cane della cava e il cane dei vicini. Ammetto che non mi è mai successo di trovarmeli davanti entrambi nello stesso momento. Ma singolarmente sì, e visto che il primo è un pastore tedesco addestrato da polacchi ignoranti come italiani ed il secondo un Rottweiler che hanno chiamato Kabul, preferirei trovarmi davanti dieci cani zombie di Resident Evil da uccidere a mani nude piuttosto che doverli affrontare, da soli o meno.
Quindi qui va tutto ok come sempre, e riesco a salire fino a casa. Devo solo superare la pozza (e puzza) di fogna che spurga dal muro di alcuni vicini, i quali hanno deciso che loro non lo riparano e che tutti dobbiamo indossare maschere tattiche come in Call of Duty.
Insomma, non è una passeggiata, ma devo dire che ogni giorno perfeziono il metodo e curo lo stile, così da superare al primo colpo ogni ostacolo e metterci meno a studiarne di nuovi.
Che nonostante tutto, alla fine, ‘sto pallosissimo, enorme gioco è pieno di stanze segrete che compaiono a sorpresa, ti fanno felice anche solo per un po’ regalandoti cuoricini e dolci e funghi e gemme, e ti ricaricano prima di ricominciare a saltare di pedana in pedana, di livello in livello, di boss in boss.
L’unico vero obiettivo missione, in fin dei conti, è quello di arrivare il più tardi possibile al game over, possibilmente pieno di monete e cuoricini.
Momento cLou
Tutto il bene per tutto il resto, ma a me rimarrai per sempre nel cuore per questa, e per quei momenti:
La cosa importante è di non smettere mai di interrogarsi. La curiosità esiste per ragioni proprie. Non si può fare a meno di provare riverenza quando si osservano i misteri dell'eternità, della vita, la meravigliosa struttura della realtà. Basta cercare ogni giorno di capire un po' il mistero. Non perdere mai una sacra curiosità. ( Albert Einstein )