Galattico

Quasi Interstellare
Quasi Interstellare

Mi infilo tra le due colonne di gente pronta a scendere sulla scale mobili, scarto un trolley senza padrone ed un padrone senza cane, scendo le scale immobili a due a due fino a che non ne avanzano tre, che salto a piè dispari.
Il cicalino delle porte che si chiudono fa scattare le mie gambe, che ora corrono così veloci al punto che il busto rimane per un attimo sulla banchina, a leggere le notizie che i diffusori in stazione mandano a ripetizione. Un braccio si aggrappa alla porta che scorre, tira in avanti il busto che si riunisce alle gambe, ma l’impatto mi fa crollare addosso ad una ragazza dai capelli di mandarino, che trascino già sul pavimento di crema al caffè. La guardo nei suoi tre occhi, piango ed asciugandomi le lacrime di lago l’aiuto a rialzarsi. Non sorride, ma nemmeno piange, semplicemente mi guarda e batte un solo colpo con le mani. In quel momento tutti nel vagone s’immobilizzano: madri con mani a mezz’aria ch’eran pronte a precipitare su quelle dei figli che raccolgono le cose per terra e non si fa, pagine di libro che stavano per ripiegarsi dopo esser state girate che rimanendo sospese sembrano petali di marmo, labbra ferme a pochi centimetri da altre labbra o guance o fronti.
Tutto immobile. Tutto fermo.
Lei mi guarda con occhi prima di falco, poi di mantide religiosa, infine di cucciolo di Caribù.

Tengo le braccia lungo i fianchi e le mani strette a pugno, ho paura mista a terrore.
Sbatte impercettibilmente la palpebra del terzo occhio e la metro riparte con uno scatto morbido, che basta però a far cadere una decina di passeggeri ancora pietrificati, che a contatto col pavimento di mousse alla fragola inizialmente rimbalzano, ma mentre ricadono per il secondo tocco il pavimento si trasforma in granito al melone, facendoli sbriciolare in mille piccoli pezzettini di cantautore genovese. Ma lo fanno senza suono alcuno, nel silenzio interrotto solo dalla palpebra del di lei terzo occhio che si apre e chiude più veloce delle ali di un colibrì.
Senza preavviso mi abbraccia, poi mi avvisa col pensiero che sta per baciarmi ma io non mi tiro indietro, nonostante stia tremando come una sfoglia di pasta senza glutine. Poggia le sue labbra alle mie e la metro s’immobilizza di scatto. Questo fa si che tutte le statue che pochi minuti prima erano persone ci passano accanto rotolando, alcune a terra alcune a mezz’aria, altre rimbalzano sul pavimento di gomma arabica che inneggia a Maometto ogni volta che un ex umano ci cade sopra, ma tutte lente manco si fosse in uno shuttle a millemila chilometri dalla Terra. Mi stacco non senza fatica dalle sue labbra e mi giro a guardare anziani che ci scorrono vicino, poi dei giovani hipster seguiti dai loro baffi e dai loro risvolti nei jeans, donne di mezz’età e uomini con un tre quarti, d’età. Un cane, un pacchetto di gomme al cetriolo, una bambola di pezza, pezzi di bambola, un trolley senza padrone ed un padrone senza cane, che forse è quello che è passato prima o forse no. Non lo so, perché ora mi sono di nuovo girato a guardare lei che ha gli occhi azzurri ed il terzo nero come un universo parallelo.
Mi vortica affianco un omino delle rose: ne prendo una, pietrificata, la schiaccio tra le mani ed il risultato in polvere lo soffio via dal palmo su per l’aria, e ricadendo brilla alla luce al tungsteno dei suoi occhi ed alla luce delle lampade attaccate sul muro del tunnel dove siamo rimasti fermi noi, il vagone e tutte queste statue che statue non sono, e la polvere cade e brilla che sembra stiano piovendo stelle supernova appena esplose ma senza le irradiazioni galattiche che ci scomporrebbero gli atomi tutti.
Mi guarda gli occhi e col terzo la fronte, mi prende le mani e le porta al viso. Mi accorgo solo ora che le mani lei se l’è proprio prese, che alla fine delle mie braccia non ci sono più ma la cosa strana è che sento il suo visto, sento la sua pelle e sento il terzo occhio, ma con le mie mani nelle sue, staccate dal corpo mio. Sussurra qualcosa con i capelli, dice che sono cose che le girano in testa da un po’ ma io questo “un po’” non lo quantifico, che la conosco da scarsi minuti e già mi sembra un’eternità alla seconda. All’improvviso comincia a gridare ma non esce nessun suono, o almeno io non lo sento.
Sembrano sentirlo però le statue, che ormai ammassate in fondo cominciano a vibrare e ad emettere un rumore proprio come una vibrazione. Prima a piccole dosi

Vrrr

Vrrr

Poi sempre più lunghe ed intense

Vrrrrrrrrrr
Vrrrrrrrrrr

Mi guarda di nuovo, il terzo occhio chiuso così bene che sembra ne abbia solo due. Comincio anche a sentire cosa dice:

“..ivo.. arrivo..”

ma è una voce di uomo che continua a fare

“..in arrivo.. ntina in arrivo..”

Della polvere comincia a cadere dalle persone che piano piano sgranchiscono le dita delle mani ed arricciano i nasi, e ad ogni vibrazione cade sempre più polvere e si muovono sempre più arti

Vrrrrrrrrrrrrrrrrrr
Vrrrrrrrrrrrrrrrrrr
VRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

Tutto vibra tutto trema e la di lei voce da uomo che continua

“..no per Laurentina in arrivo..”

Oh no. No no no. Stiamo arrivando in qualche stazione. Non può finire così. Deve dirmi, deve dirmi chi sei e su chi pianeta ritornerà dopo che il cicalino segnerà definitivamente l’arrivo del treno alla stazione ed io so, SO che sparirà in un att..

VRRRRRRRRRRRRRR
“TRENO PER LAURENTINA, IN ARRIVO!!”

Scatto indietro con la testa e sbatto la nuca sul muro. Il dolore mi fa sgranare gli occhi nello stesso momento in cui la metro rallenta per fermarsi con una porta proprio davanti alla panchina dove sono seduto, a quanto pare da qualche minuto abbondante visto che mi hanno lasciato delle monete ai piedi. Mi spalmo le mani sulla faccia e sento di essermi un poco sbavato sul mento. Scuoto la testa rassegnato mentre mi guardo le mani luccicanti di saliva, e sento ridere di sottecchi. E mentre mi dico che forse, per la prima volta in vita mia, ho pensato la parola “sottecchi” mi giro e vedo lei. Senza terzo occhio, senza le mia mani nelle sue, senza statue e rose in polvere accanto.
Mi fissa però con la stessa intensità, e soprattutto lo stesso colore della galassia tutta.
Mi dice che si chiama _____, ma per me non è importante. Potrebbe anche chiamarsi Ofninf Junior.

Io so solo che da ora, pochi viaggi mi farò da solo.

Tracce – Brano Uno – Green Day

"For what it's worth, it was worth all the while."
For what it’s worth, it was worth all the while.

Quand’ero giovane c’era questa. Lei aveva gli occhi verdi ma che con la luce cambiavano, diventavano quasi azzurri. Aveva lunghissimi capelli mossi e rossi, ed un sorriso bianchissimo sulla pelle olivastra. Avevamo diciott’anni ed io iniziai non capendoci un cazzo di relazioni, crociata che orgogliosamente porto avanti ancora adesso. Mi ricordo di uno stupido quanto serissimo contratto in cui ci s’impegnava a non dire-fare determinate cose, che non so in che contesto includeva anche Alessia Marcuzzi. Forse evitare di spezzarmici il polso sopra, ma la butto lì. Contratto firmato con le nostre impronte digitali, stampato in doppia copia che chissà che fine ha fatto.
Ci fu la mia lunghissima e sudatissima prima volta, imbarazzante come tradizione vuole, ma fu lì che m’innamorai del suo corpo e di tutte voi maledette, un qualcosa da ringraziare e bestemmiare iddio per ogni giorno che vi mette in terra.
C’erano cene fuori, compleanni in cui il mio modo di vestire viene ancora preso per il culo perché la camicia di jeans coi bottoni a clip, PERLINATI, effettivamente a pensarci ora è un misto tra il terrore ed l’hipster che ancora manco esisteva il termine.
Ci furono ovviamente scazzi, l’ancor più ovvio periodo di pausa -che dovrebbe esser paragonato alla minaccia personale, per l’ansia che hai nel mentre-, ci fu la rottura definitiva e poi i mille strascichi, le gelosie.. e poi gli anni passano e vedersi, quelle rarissime volte, è un piacere ancor più raro.

Da lì, però, cominciò anche il mio inutile, infantile disturbante lamentarsi nei mesi dopo, la rottura.
E questo, più che una crociata, è un marchio di fabbrica.

Improvvisate#7: Una Favola Di Corsa [Morale Included]

loverunmain

18:25

Paolo si siede sul letto e si allaccia le scarpe nuove. Strette, che quasi gli si ferma il sangue nelle caviglie.
Maglietta e pantaloncini sono sempre gli stessi. Ogni sera, tornato dai soliti cinque chilometri di corsa, lascia asciugare un’ora i vestiti e poi li mette in lavatrice. La mattina dopo li ritira dal balcone e li lascia piegati accanto all’asciugamano.
Lo stesso asciugamano che ora prende e si mette intorno al collo.

18:27

Si ferma un secondo allo specchio, e come tutte le sere rinuncia subito ché tanto dopo sarà zuppo di sudore e sistemarsi i capelli ora sarebbe come lavare la macchina con il cielo carico di nuvole nere.
Si leva il braccialetto in cuoio comprato anni fa in Salento, lo poggia sulla mensola accanto allo specchio. Comincia a correre sul posto a passi lenti e regolari, si gira e mette la mano sulla maniglia.
Il cuore gli batte già forte.
Ma non per la corsa.

18:30

È all’angolo della strada, il piccolo incrocio che si forma con la fine della sua via e la strada principale. A quell’ora non passa un macchina, e l’unico pericolo arriva dallo stanco 906 che ogni tanto arranca tra le viuzze dei complessi residenziali.
Paolo continua a correre sul posto, guarda l’orologio ed i secondi fanno per arrivare a fine giro, quando sente i passi.
Li riconoscerebbe in mezzo alla maratona di New York.
Alice gira l’angolo della strada principale, guardando l’orologio. Alza lo sguardo che si schianta con quello di lui.
Si sorridono mentre lei si avvicina, e quando è ormai accanto a Paolo, lui da fermo fa qualche passo in corsa goffo, per prendere il ritmo con lei, e partono insieme.

18:54

Parlano, e tanto. La corsa ormai non li scalfisce più.
Quando s’incontrarono la prima volta, sempre correndo, non si scambiarono un parola. Ancora non si spiegano perché cominciarono a correre insieme, tra l’altro non erano e non sono nemmeno gli unici a farlo. Ma tant’è. Cominciarono e senza darsi appuntamento regolarono i loro tempi naturalmente, fino ad arrivare ad incontrarsi ogni sera alle sei e mezza. E negli ultimi tre mesi non c’è stato giorno in cui non hanno corso insieme.

19:12

Sono seduti a terra, all’angolo dove si incontrano.
Col fiatone, sudati, e col sorriso.
Si passano una bottiglia di integratori al gusto mirtillo, e continuano a parlare.
Si guardano e si raccontano la loro giornata, spettegolano sui rispettivi colleghi.
Alice sa che Paolo non è uno che di solito parla molto, lo ha capito.
All’inizio aveva enormi difficoltà, e lei ha sempre assecondato i suoi silenzi non parlando a sua volta, o raccontandogli cose stupide per farlo sciogliere.
Ci era riuscita. Ed era molto bello vedere il mondo con i suoi occhi, fatti di quell’ironia mista a cinismo che le piaceva tanto.

20:44

Sono abbracciati a letto.
Finalmente.
Era stata lei a saltargli addosso, interrompendolo e facendo quasi cadere entrambi sull’asfalto.
Si erano tolti i vestiti appena entrati dentro casa di lui, dopo un’adolescenziale corsa mano nella mano attraverso il giardino.
La scia di intimo, pantaloncini e scarpe da corsa portava al materasso in terra, con una piccola abat-jour che aveva appena illuminato il loro corpi in movimento, proiettando le ombre delle loro schiene curve e delle gambe di lei proiettate verso il cielo.
Ora l’ombra era del fumo di una canna, che bello correre e la salute ma il vizio perché levarselo, e dei loro corpi distesi ed abbracciati.
Non parlano, non ce n’è bisogno.
Non ora.

18:30 (del giorno dopo)

Paolo corre sul posto all’angolo, un sorriso ebete che cerca di scrollarsi via stampato in faccia.
La aspetta, questa volta con il cuore che batte quell’attimo in più ancora.

18:32

Da lontano una macchina fa strillare le gomme.
Paolo, che già non sorrideva da due minuti buoni, sorride ancora meno.
La macchina imbocca la strada principale, e lo punta.
A pochi metri da lui inchioda, fari smarmellati al massimo.
Lui si copre la faccia con le mani, mettendole tra lui e la macchina.
La portiera del guidatore si apre, un piede sinistro si poggia a terra, la mani si aggrappano a sportello e tetto e la testa di Alice spunta.
Imbronciata.
Anzi.
Avvelenata a bestia.
Lui non fa in tempo a dire nulla che lei gli punta il dito contro e grida:
“Tu sei unammerda!!”
Risale in macchina, sgomma e riparte.
Paolo rimane a guardare lì, dove prima c’era la macchina. Non la segue nemmeno con lo sguardo.
E in tutto ciò, si accorge solo ora di una cosa: sta continuando a correre sul posto, e non ha mai smesso di farlo per tutto il tempo.

Morale:
tieniti sempre pronto a scappare perché LE DONNE SONO TUTTE MATTE.

Improvvisate #6 – Era Maggio, Ora È Peggio

Quella sera stavo in gran forma. Ma forte eh, della serie “look at me, I’m an attention whore”.
Camicia bordeaux, cravatta nera e umorismo da vendere.
Il locale non lo conoscevo, zone tipo Via Candia e robe così per me sono tutt’ora out.
Devo abbassare la testa, fare qualche gradino per ritrovarmi in un posto carino fatto di legno e pietra. Il nome c’entra qualcosa con le fate, ed in effetti il posto di presta.

Siamo una decina, la maggior parte non li conosco ma mi trovo bene. Ci prendiamo ‘sto tavolone in legno grande, e mi siedo schiena all’arco che devi attraversa per entrare.
Si chiacchiera molto, si ride di più.

Ad un certo punto C. alza lo sguardo oltre le mie spalle ed inizia a sorridere, e grida felice il tuo nome. Quel nome che ancora non so ma pronuncerò, strillerò, urlerò millemila volte dopo quella sera.

Ci presentiamo, e sento qualcosa di forte. Strano.
Qualcosa di sopito, nascosto nella polvere di quei mesi brutti.
Probabilmente sono solo ormoni, ma in mezzo a quel mucchio di cosetti arrapati c’è qualcos’altro.

La serata s’impenna, ci si diverte tantissimo.

Scoprirò solo dopo qualche tempo che ne avevi un gran bisogno, di ridere. Che pure a te quei mesi stavan lasciando segni brutti, e proprio quella sera tornavi da una situazione del cazzo.

L’ultimo ricordo che ho di te, legato a quella sera, è del momento in cui rientro in macchina di C. Ricordo perfettamente che mentre mi mettevo seduto pensavo a te. Mentre allungavo la mano per prender lo sportello, e mentre lo chiudevo, io pensavo a te. Le prime parole uscite in macchine, mentre mi giravo la sigaretta un po’ brillo, sono state per dire “un sacco simpatica l’amica tua, proprio tanto”.

Sono passati cinque anni, e se ci penso mi sento male. Per un sacco di motivi.
Di tante cose che ricordo, il giorno esatto in cui finalmente uscimmo da soli non lo ricordo. Ricordo il ponte, l’Africa, i passi in sincrono e la tensione per i tuoi esami.

Dovrebbe essere domani, o forse era due giorni fa. Ricordo ma non ricordo.

Il resto è storia.

E che storia.

E Poe Sia – L’Ultima Volta

l’ultima volta
non erano scritti da te
i foglietti
che scandivano ore
e coppie
per controllare un’entrata
che a dispetto del nome
all’epoca usavamo poco
come entrata per noi
che venivamo da dietro quando ancora il posto dormiva

l’ultima volta
sul coperchio del frigo grosso
non c’erano quei segni dei fondi delle bottiglie di Martini
quasi marchiati sopra
a forza di poggiarcele sopra a fine serata
cicatrici che rimangono
come se non bastassero le altre

l’ultima volta
le sigarette speciali non erano così proibite
non ho capito che è successo
ma almeno pare non sia colpa mia
che pure per altro ancora non ho capito cos’è successo
ma lì pare davvero sia colpa mia

l’ultima volta
saremmo andati via insieme
magari ubriachi marci
sfatti dalla vita
ma ancora con la forza per fare l’ultima
e per “scarico qualcosa al volo, che ci vediamo?”
e poi crollavi che nemmeno stava al cinquanta percento
ed io ti levavo il pc di dosso
ti baciavo
e ti guardavo fino a che non svenivo

l’ultima volta
non avrei rosicato a vederti parlare con uno che chiccazzè
almeno non così tanto
non fino al punto di andarci in loop
con quel nanetto in maglia celeste
e sentir stapparsi lo stomaco dieci minuti dopo
dall’angoscia pura
e correre a vomitare
che manco ero sbronzo
femminuccia

l’ultima volta
quella moretta non l’avrei manco notata
o almeno non ci sarei rimasto così
ché una arriva
ti chiede da bere
e lo fa con quegli occhi enormi
proprio mentre tu ammazzeresti a mani nude
tutto l’esercito russo
e lei ti chiede un cocktail
ti guarda fisso mentre lo chiede
ti guarda fisso mentre lo prepari
ti guarda fisso mentre ti da i soldi
e ti guarda fisso pure mentre le dai le spalle per darle il resto
te li senti nella schiena
quegli occhi neri come l’abbandono
e ti rigiri e lei ti fissa mentre si gira e dici “che le dico?”
ed ovviamente la vedi ballare sotto quel faro rosso
e non puoi muoverti
non vuoi
fatto sta che non lo fai
e lei poi sparisce
per tornare sotto forma
di ennesima sequenza di lettere su di uno schermo
non l’avrei nemmeno sentiti
quegli occhi
e invece sto qui
a sbatter la capoccia
sul nulla

di nuovo

l’ultima volta
nessun angelo mi aveva detto di esser stato un cazzone
con te
e la cosa mi ha sorpreso
perché sì che il discorso l’ho tirato fuori io
ma è pur vero che te lo aspetti da chi conosci meglio
da chi vedi anche fuori da lì
se pur son pochi
e la cosa non mi ha infastidito
anzi
lo sapevo
però m’ha fatto strano
ecco
cazzone
suona bene
da l’idea

l’ultima volta
minimo saresti rimasta a cantare Elvis
o Lucio
ed io a brontolare fuori
sbronzo
sfatto
ma innamorato perso
e ti avrei aspettato
solo per vederti barcollare un po’ in salita
con la luce celeste dell’alba
l’odore dei cornetti caldi
e quella voglia di letto mista ad una di
per sempre
mai detto
ma pensato
tanto
che a dirlo a certe persone
si fanno i danni
e invece a tenerselo dentro
guarda qui
che campione
che ne esce fuori

l’ultima volta
non avrei mai pensato
di pensare
a quando sarebbe stata l’ultima volta
pensa ora
che ho capito proprio
che l’ultima volta
è stata l’ultima volta
ed è anche ora
cioè non proprio ora
giusto il tempo di dirti

“mi dispiace”

ma solo fino ad ora
perché da ora in poi
no more dispiacersi
basta non arrivare al punto
di doverlo fare

quindi ciao
statemi bene
soprattutto tu
ma ora basta
che sarai stanca forte pure tu

o almeno così sembravi

l’ultima volta