Breaking Bad – E adesso?

È difficile dare un giudizio ad una serie come Breaking Bad. È difficile essere oggettivi, e lo è ancora di più etichettare un prodotto che, trasversalmente, ha toccato tutti i punti più alti di quella cosa chiamato Cinema.
Nessuno me lo ha chiesto, sia chiaro.
Ma mi accorgo solo ora, senza avere più il mio chimico preferito accanto, che in questi anni non ho mai scritto di Breaking Bad. E allora perché non farlo ora, per una sola volta?

Non sto nemmeno qui a dirvi che da adesso in poi ci saranno più spoiler che portafortuna a casa Letta.
Zio e nipote.

Sono tanti quei punti di cui parlavo prima e che Gilligan e compagnia hanno raggiunto, non senza fatica.
Innanzitutto quello (scontato?) della sceneggiatura.
Il livello di scrittura è stato così sublime che J.J. Abrams ha pisciato bile per cinque anni. Gilligan ha preso IL personaggio e lo ha fatto partire da A per farlo arrivare alla Z, passando per ogni altra singola lettera dell’alfabeto. Cambogiano.
Premetto che io sono un Lostiano d.o.c. e che per me fino a ieri sera il miglior finale mai visto era proprio quello dei dispersi più famosi al mondo. Detto questo, e senza fare ammenda, capisco solo ora quanto può essere molto più difficile portare avanti un qualcosa di pianificato rispetto ad un prodotto fatto, per mezza serie, improvvisando. Se devi creare in corso d’opera, forse l’effetto sarà più spettacolare ma privo di un colpo vero e proprio. Intendo un pugno in faccia come un conato, ma comunque qualcosa che ti rimane attaccato addosso come se fosse successo davvero.

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“We are a family”.

Breaking Bad ha fatto proprio questo. Ha lasciato dopo ogni puntata un dubbio morale, etico. Ogni volta ci siamo ritrovati a dover fare i conti con le scelte di Walt, sin dall’inizio, sin dal non volersi curare per non finire come un un morto vivente, ancora prima dal trovarci d’accordo o meno con l’uccidere Krazy8, e persino prima con il mettersi a cucinare metanfetamina. Per cinque anni, quel capolavoro di attore che è Bryan Cranston ci ha messo lì, vicino a lui, ed ha diviso con noi il peso di ogni singola scelta. Fino all’ultimo, fino a non farcela più, fino a distogliere lo sguardo dal suo volto. Ma anche fino ad accennare quel sorriso insieme a lui e Jesse, quel “grazie a dio è un addio” negli occhi di Aaron Paul e poi nelle sue lacrime mentre ride ed urla e guarda lo specchietto e poi urla ancora di più. Non ci lasciano il dubbio su cosa farà: magari andrà davvero davvero in Alaska a costruire scatole di legno, ma sarà comunque lontano e forse, finalmente, felice.
Sappiamo con certezza che Walt se ne va più leggero, dopo aver tolto definitivamente la maschera, ammettendo che gli piaceva eccome, fare l’imperatore della droga. Ma allo stesso tempo liberando, davvero e per sempre, lo stesso Jesse.
E non ci lasciano nessun dubbio sugli altri: Skyler, insieme a Flynn ed Holly, passerà una vita misera, che probabilmente neanche i soldi che arriveranno meno di un anno dopo riusciranno a toglierle il peso di tante, troppe macchie del suo passato.
Marie, probabilmente, si suiciderà. O comincerà a fumare meth.
Saul, se tutto va davvero bene, lo vedremo nel suo ormai confermato spin-off, antecedente a tutto quello che conosciamo. Speriamo bene.

Il pregio vero della serie, in pratica, è stata la costanza. La cura e la precisione di Vince Gilligan nel preparare, pezzo dopo pezzo, un gigantesco domino. L’insieme perfetto di un sogno americano che si spezza, la crisi di mezza età tipica degli uomini, il rapporto tra parenti, lo scontro generazionale. Ha trovato gli attori giusti, si è circondato di gente fidata ed affidabile, ed ha dato il colpo alla prima tessera.
Aveva preparato tutto con cura, nei minimi dettagli: si dice che in una passata stagione abbia impiegato ore nello scegliere la tonalità di grigio di una maglietta da far indossare a Dean Norris. Non il colore, attenzione. La tonalitàCi ha fatto capire sempre tutto, ma sempre due minuti dopo: è il cosiddetto foreshadowing, e cioè l’abilità di un autore (letterario, musicale, o come in questo caso televis.. pardon, cinematografico) di inserire alcuni indizi su cosa succederà nel corso della trama. E la maggior parte delle volte non sono così evidenti.

Zac.
Zac.

La puntata “Box Cutter“, ad esempio, si apre con l’inquadratura di un taglierino, che il povero Gale usa per aprire le scatole degli strumenti del laboratorio. Lo stesso taglierino, viene usata da Gus per sgozzare come un capretto Victor. Anche in “Face Off“, mentre Gus si trova nell’ascensore per porre fine alla scampanellante fine di Hector Salamanca, l’inquadratura si sofferma sulla sua mano mentre, come un tic, si tocca  le punte di pollice e medio mentre si sente l’insistente “ding ding” dell’ascensore. Proprio come, poco dopo, lo storpio kamikaze suonerà per far esplodere la bomba.

(da notare che anche già solo i titoli, sono indizi)

Persino il comparto costumi ha contribuito in modo enorme alla riuscita della serie: partendo da tutte le sfumature possibili di viola di Marie, ai primi arancioni di Hank che si trasformano in colori più cupi man mano che il suo personaggio diventa sempre più consapevole dello tsunami di merda che gli si sta per abbattere addosso.

Se pensate che io perda tempo, guardate qui.
Se pensate che io perda tempo, guardate qui.

Ovviamente, c’è Walt. Dai colori pastello, così neutri da farlo sparire nella sua iniziale inutilità, arrivando al nero di Heisenberg, un nero più integrale possibile, con cappello ed occhiali. Fino a tornare ai colori fermi una volta uscito dal giro, per lasciarsi poi morire con l’identico dress code della prima puntata, quello prima di trovarsi in mutande nel deserto.

La musica. Ah, la musica di Breking Bad. È da ieri sera che ascolto la playlist su Spotify, e credo che mai nessuna serie abbia mai avuto una migliore scelta di brani. La migliore, in assoluto.
Se pensando a Lost mi verrà in mente la sigla, e le due canzoni top che tutti conosciamo, pensando a BB penso a mille momenti, mille singole canzoni magari anche solo accennate che hanno accompagnato un momento, solitamente non parlato. Inutile dire che questo rimarrà probabilmente il miglior abbinamento canzone/scena finale della storia del mondo tutto.

Per il resto, non so che altro dire se non che sono anche queste stronzate a rendermi felice di essere nato in questi anni. Già le soddisfazioni son poche, almeno quelle virtuali.

Inutile dire che tutto questa manfrina non ha uno scopo, forse nemmeno un senso. Spero di non avervi annoiato.
Ma, anche solo per una volta, volevo dare il mio omaggio a quella che rimarrà per molto tempo, forse per sempre, la migliore serie tv che sia mai stata ideata, scritta ed interpretata.

"Guess I got what I deserved".
“Guess I got what I deserved”.

 

Un solo appunto: ma Huell?

Meanwhile..
Meanwhile..

Nel Bene E Nel Mare

“Che io in Germania non potrei mai andare a vivere. Parliamoci chiaro, in Italia abbiamo il clima mite, il buon cibo. E poi i posti da vedere, i monumenti, la cultura, la storia. Cazzo il mare!! Abbiamo il mare!!”.

Allora, tralasciamo per qualche riga la questione mare, che affronteremo brevemente ma di testa. Quello all’inizio è il mattone classico che l’italiano ti propina tornando dalla Germania (o come dalla Gran Bretagna, dalla Francia e così via), o rispondendoti dopo avergli detto che pensi di trasferirti. Solitamente chi dice questa sfilza di cliché che nemmeno tua nonna quando ti ammoniva di “copritte li reni” sta seduto al gate di Schoenefeld con la felpa della FIAT e sotto la maglietta “I ♥ Berlin”, occhiali da sole Prada falsi come Pannella e panino con prosciutto da 12€ all’etto preso al Kadewe. Parla come se la Germania fosse stata scoperta l’altro ieri da esploratori napoletani con le Hogan.
Il concetto che il venditore abusivo di birre alla sagre tenta di esprimere con frasi prese dal calendario di padre pio, tra un morso al panino ed una ravanata di pacco, non sarebbe nemmeno troppo esagerato, almeno per quanto riguarda il binomio clima-cibo. A Berlino, perché lì sono stato e di questo parlo, si passa dal “freddino oggi” al “ti prego pisciami addosso”. Anche il cibo non è che sia eccellente: preferisco una singola mozzarella ovolina ad una dieta basata esclusivamente su stinco di porco affogato in lardo umano con contorno di cipolle e crauti.
Ma ci si abitua a tutto no? Per i vego-vegetariani noi non dovremmo essere predisposti a mangiare carne e invece guarda quanto sangue mi cola sul mento.
La cultura vabbè, a un certo punto cheppalle le rovine: a Berlino potresti girare per musei e gallerie e studi d’arte per giorni senza dormire e ancora non avresti nemmeno iniziato.

Ma arriviamo al mare, perché è qui che voglio andare a parare. La rovina dell’Italia, oltre agli italiani stessi, è proprio il mare. Il nostro mare, insieme alle sue spiagge, sono il più grosso cesso a cielo aperto che si possa immaginare. Peggio di quella fiumana di gente che ogni anno si “purifica” nel Gange.
Parlo nello specifico del Salento, che conosco bene ormai ma ne parlo soprattutto perché altrimenti certa gente mi accusa di parlare di cose che non conosco solo perché non lo prendo al culo. Come loro. Ma vabbè, sto divagando.
Voi in Salento venite quelle due settimane al massimo dove correte da Otranto a Santa Maria di Leuca, con tappe nei vari locali più o meno chiccosi del cazzo. “Ma che mare, ma altro che [Sicilia, Sardegna, Caraibi], GUARDACHEMMARECAZZOOOOO!!”, o “ma costa pochissimo questo Mojito fatto col rum dell’Eurospin” sono le frasi tipiche da dire in circostanze salentine.

E via che migliaia di famiglie urlanti e senza dio si riversano con i loro materassini, le loro parmigiane e la loro innata, italianissima maleducazione. Mamme che chiamano i loro figli manco fossero la Magnani prima di essere sparata, vecchi catarrosi che giocano a racchettoni con la pallina che regolarmente finisce più sui tuoi coglioniche in aria tra di loro, cellulari usati come stereo con ancora sparata a palla quella merda infinita di “mossa mossa” che spero quel cretino sia finito in coma per abuso di fisarmonica.
Cicche, bottiglie, carta: tutto in spiaggia, però stasera andiamo alla sagra ecologica che fanno la differenziata.
In questo esatto momento sono a Punta della Suina.
Vi linko quello che trovereste cercandola sulle immagini di Google. Via aspetto qui.
Pronti?

Via.

Fatto?
Bella vero? “Che mare eh? Altro che  [Sicilia, Sardegna, Caraibi], guarda che sabbia dioooooomiooooo!!”.
Bene, adesso guardate qui:

Che spettacolo.
Che spettacolo.
Che mare eh?
Nel caso servisse la cassetta per il pesce che non pescherete.
No dico: guarda che bello.
No dico: guarda che bello. Nel caso affogassi nella sabbia.

Bello vero?
“Eh ma quella è roba da mareggiata, che vuoi farci?”.
Ci faccio che ho pagato cinque euro per il parcheggio, e mi aspetto che qualcuno levi la merda che comunque, qualcun altro, in mare ha buttato. Perché mentre qui vicino allo stabilimento privato è così pulito che manco in ospedale, io sono vicino a così tanta plastica che se la sciolgo faccio il pieno ad una nave mercantile per i prossimi sei mesi.

Il mare, in Italia, è il male.
È il posto dove la feccia maleducata di città viene a fare le stesse cose che fa a casa sua: sporcare, dare fastidio, farsi vedere. A discapito del prossimo più vicino, che sia quello d’ombrellone o quello di casa vacanza.
Se non ci fosse il mare, forse occuperemo il nostro tempo a rivalutare città che solitamente ignoriamo. Come la nostra, per esempio. Potremmo andare in musei che di solito usiamo solo come riparo dalla pioggia, ci godremmo di più scorci ed angoli che solitamente ignoriamo, magari anche impegnandoci a rivalutarli ed a renderli più belli.

E invece no, tutti al mare.
Guarda qui, altro che Germania.

Pillole Salentine #8 – Doppio Dosaggio

Dosaggio #1 – Sì e Non

La vedi la noia, il non saper cosa fare negli occhi della gente? La senti l’assenza di un odore nell’aria, che non sia quello della paura e del timore?
C’era un tempo in cui la voglia di fare qualunque cosa nasceva come nulla, momenti in cui ci si alzava e si facevano cose per ore, giorni. Che fosse aprire un’attività, sistemarsi una vecchia auto o falciare il giardino. Si faceva perché si poteva, e perché si aveva la voglia.
In anni come questi, invece, la voglia è annullata. C’è il dovere, la sensazione che anche prendere il caffè la mattina al bar sotto casa sia un atto dovuto, e non più perché è un momento di pausa. Che cazzo, si chiama “pausa caffè” in tutto il mondo, un motivo dovrà pur esserci.

Il non, il non come stile di vita, il non come prerogativa. Non distinguiamo più quando dire non perché è dovuto, e quando invece potremmo dire sì, o anche solo muovere su e giù la testa come quando da bambini volevamo convincere i nostri genitori a farci fare qualcosa che invece loro non. Non sappiamo più fare quel movimento quando un signore ci chiede due monete per un panino, “perché tanto non li usa per mangiare ma si va a fare il Campari”. La memoria sociale, quella che ti fa dire si e no, è cancellata. Ovunque è truffa, inganno e raggiro. Dietro ogni angolo c’è chi ci vuole fregare, chi non aspetta altro che un nostro sì per farcelo rimpiangere.

E ci dimentichiamo che invece, con un sì, ci ritroviamo più liberi di quanto non saremo mai. Quando ci dicono no spesso ci innervosiamo, ci agitiamo, un divieto o una negazione sono sempre e comunque una limitazione della nostra libertà. Dal voler pisciare in strada allo scrivere su un muro, dal “andiamo insieme” al “ne voglio mangiare un altro”: a nessuno dovrebbe essere detto di no (tranne a richieste di omicidi e furti, o comunque ad atti illegali in generale). Vuoi farlo? Fallo. Poi sono cazzi tuoi. Ma intanto fallo, perché è facendo cose che ci si fa esperienza.

“Sbagliando s’impara?”

Sì tu in prima fila, ma non proprio. Anche facendo le cose giuste s’impara. Che alla ruota ci siamo arrivati dopo un sacco di tentativi, ma anche dopo averla fatta tonda abbiam capito un bel po’ di cose.

Chiamatelo lasciarsi andare, ingenuità, poco giudizio.

Ma io sono dell’idea che un sì detto spesso faccia bene molto più di un no d’istinto ed innato. Un sì per quelle due monete, per quel panino al signore, fa comparire sorrisi che non ci ricordiamo più come son fatti.
Il no detto a priori, perché è meglio e toglie un sacco di problemi, è una cazzata.

Peggio.

È proprio dannoso, e solo per chi lo dice.
Dite più sì, motivate i vostri pochi no con ragioni vere ed ireemovibili.

Pensate, cazzo.

Dosaggio #2 – Stelle e Terrazzi

Poco più di un anno fa ero su questo stesso terrazzo, e per la prima volta in vita mia mi sono trovato a pregare. Non so come si fa, dicono che ognuno ha il modo suo.
Il mio fu rabbioso, di una rabbia genuina, pura ed istintiva.
Pregai semplicemente di non farmi portare via qualcuno, qualcuno a me troppo caro per vederlo andar via così presto. Mi stesi sul rialzo, un miccio
stretto tra le labbra e le mano dietro la testa. Che a leggere sopra, uno mica deve state per forza in ginocchio.
Guardavo le stelle, brillanti come non mai nel cielo di Luglio. Ma erano troppo luminose. Allora mi misi a guardare meglio, e ne trovai una dalla luce fioca, isolata.
Sembrava quasi il bambino che se ne sta in un angolo del parco giochi a guardare gli altri correre e cadere e rialzarsi e ridere.
La puntai e le diedi il suo nome, con la promessa di ritrovarci qui l’anno dopo.

Poco più di un anno dopo sono di nuovo su questo stesso terrazzo, e non sto pregando.
Il cielo è macchiato di nuvole, ma le stelle brillano ancora.
Lei però no.
Non ho un’ottima memoria, ma lei era lì. Ne sono sicuro come lo sono di tutte le mie insicurezze.
Lei non c’è, e questo mi conferma due cose.

La prima era quasi scontata, ma ora ne sono certo: le preghiere non si esaudiscono, perché non c’è nessuno a riceverle. È come voler mandare lettere con ricevente nel Medioevo.

La seconda è invece una realtà più dura,  e cioè che le promesse, anche quelle, non vanno a buon fine. E non parlo di quelle di routine su cui puoi sforare tipo “passo a prenderti alle otto” ed arrivi alle otto e dieci, oppure tipo “stasera ti faccio venire”.

Parlo di quelle grosse, quelle che una volta non mantenute fanno sparire le persone. Quelle reiterate nel tempo e che lì, sospese, rimangono.

Sono su questo terrazzo, poco più di un anno dopo.

E ancora fa un male cane.

Pillole Salentine #6 – Pasticche dei freni e Compresse Blu(es)

Allora, l’ultima volta che ho parlato di Salento ero praticamente appena tornato dai Bud, contento e felice, pieno di fede per l’umanità e per il prossimo.
Ora, contento e felice lo sono ancora, per quanto riguarda la fede mi sento un po’ come Giordano Bruno quando ha cominciato a sentire caldo.

Orgasmici.

Ma prima piccolo spot per approfondire meglio la questione “concerto dei Bud”: strepitosi, unici, belli, bravi, bis. Dei quattro concerti classici più quello live allo StudioNero, quello di Leverano è stato il migliore. Sarà perché caricati più del solito per un’attesa infinita dovuta a due idioti che hanno presentato la serata tra balli di gruppo, pulcini pio e premiazioni con targa + foto ad ogni singolo rappresentante di qualunque cosa del paese, imbarazzanti come l’amico estraneo al gruppo classico che porti in vacanza e si mette a ruttare birra dal culo, fatto sta che Cesare ed Adriano hanno dato del loro meglio. Una scaletta diversa rispetto al solito, un finale praticamente a richiesta, un’energia che forse solo il Salento può darti. In più si sono anche fermati a salutarmi dopo avermi riconosciuto, poco prima del concerto, e son cose che fanno solo che piacere. Se poi il tuo amico amante del rap si comincia a scatenare e verso la fine, sudato e stremato, ti dice “sai che è cò ‘sto cazzo de gruppo? È che c’hanno una cifra dei Rage!!”.. son soddisfazioni.

Poi però, manco due giorni, ed ecco che l’essere umano ti schifa. È bastato un vicino durante una mattinata rovente, dove mi preparavo per “mettere i dischi” la sera stessa. Una scampanellata, una frase in dialetto dove però tua madre, dal salotto, capisce collare.. e la tragedia è fatta.
A cento metri da casa hanno investito la gattina di famiglia, Olivia.
Perché qui la gente deve correre, deve aver fretta, sembrano tutti protagonisti di “Speed”, dove se vai piano salta per aria la macchina. Merde.
Che poi io e Olivia non è che avessimo ‘sto gran rapporto, era più la gatta del resto della famiglia visto che ci passavano più tempo. Ma era comunque una gatta dolce, quando ci si metteva, bella e dolce. E vedere mamma e mio fratello distrutti, e sentire mio padre ammutolito al telefono, non è stato proprio bello. Doverle scavare una buca, poi, devo dire che alla fine mi ha abbattuto. E parecchio.
Quindi spero che qualcuno abbia letto il cartello minatorio appeso al semaforo dove se la sono portata via, spero che a qualcuno un po’ di senso di colpa sia arrivato, e spero che chi sia stato si affezioni tantissimo ad un animale e poi muoia.. non l’animale, ma proprio lui.

Olivia.

Ora mi consolo con il triste Zeus, che si vede bene quanto gli possa mancare quella stronzetta che lo trattava male. A volte spero di rivederla affacciata alla finestra che i avvisa di aprire la porta, o a quando questo inverno non andrà a sbracarsi sul letto di mamma. Ma so che non sarà così, quindi chiudiamo anche questa, che solo così si può fare.

Che dire poi?
Ah si.. ho anche lavorato.
Undici giorni netti.
Il posto peggiore della storia.

Ma ve la dico un’altra volta, che fa ridere parecchio.

Pillole Salentine #4 – Tavor – Post Fotografico

Post fotografico inteso come “ho fatto le foto ad una cosa che ho scritto a mano e che non mi andava di riportare su Mac”.
Era una vita che volevo farlo, certo con cose più allegre però alla fine l’ho fatto.

Enjoy..?