Lisbona – Parte Prima

Sono due settimane che cammino con la schiena dritta.
Lei me lo dice sempre, che cammino gobbo. Che dovrei tirar fuori le spalle e fare l’uomo erectus.
Solo che in certi momenti girare per la mia città mi pesava troppo, che i pensieri facevano gruppo e mi schiacciavano il collo. E nonostante io mi guardi molto intorno, mentre cammino, a Roma ormai lo facevo dal basso verso l’alto.

Ora son due settimane, che cammino con la schiena dritta.
Prima di tutto perché mi sento un turista e come ogni turista che si rispetti, guardare ogni angolo di una nuova città è un dovere morale.
E poi perché in realtà mica son venuto qui per fare il turista. Son qui per provarci e provarci significa anche rischiare di fallire, e proprio per questo devi prendere e assimilare e vedere tutto quello che puoi.
Te lo devi godere.

E allora rubo con gli occhi, con le orecchie, ascolto questa lingua che sembra difficilissima e ne rimango affascinato. Obrigado, bom dia, aberto, fechado, tudo bem, non sapere dove vanno gli accenti, sbagliare, riprovare, sbagliare di nuovo, riderne assai.

Il Barrio Alto ti spezza il fiato sia perché per arrivarci, ovviamente, devi salire, ma anche perché ti giri ed è Berlino e poi ti ritrovi a San Lorenzo con gli spacciatori a ogni angolo ma meno rompicoglioni, giri la testa ed è Pigneto coi murales fichissimi e i murales che sfottono i murales. I localacci con la Capirinha a due euro si rincorrono con quelli puliti con la musica dal vivo, con le porte a vetri leggere per attirare la tua attenzione mentre cammini, che vedi i suoni e senti le persone. La birra a poco e i cocktail complicati, lo Ze Dos Bois che ha tre piani praticamente spogli se non fosse per le sedie tutte diverse, un grosso divano e un terrazzo che appena ti affacci pare Trastevere e senti il cuore che vola alto.

Se non fosse che piove da quasi una settimana, il sole a Lisbona è prepotente e colora tutto.
Che io non ci ho mai davvero fatto caso, a quanto i colori fanno bene alla testa, e per fortuna ‘sta città te lo ricorda, con i muri rosa e verdi e gialli e le maioliche che riflettono la luce che si apre e arriva dove quella diretta del sole proprio non potrebbe. I coperchi gialli dei cassonetti e il verde/rosso della bandiera sul parlamento che l’altra sera c’era il vento forte e dava certe schicchere che faceva rumore fino in strada, nonostante se ne stia lì in alto a prendersi tutta l’aria del mondo.

Eh.
Il vento.
Il vento qui è quella cosa che un po’ senti sempre, soprattutto quando il sole ha dominato la giornata e se ne va, lasciando spazio all’aria fredda dell’oceano. O almeno, mi piace pensare che sia così, ma non sono un meteorologo e quindi potrebbe pure essere uno che lascia sempre aperta una porta gigantesca, da qualche parte. Però il vento c’è e con la pioggia a pulviscolo (gnagnarella©) che non smette di scendere ti combina un macello, ti fracichi come se passassi sotto a quelle doccette da festival che ti bagnano a trecentosessanta°. Gli ombrelli si rigirano come pedalini in lavatrice, i binari dei tram diventano degli scivoli in miniatura e le discese si fanno nemiche, tra sanpietrini e pozze agli incroci.

Lisbona è quella città dove hanno deciso di mettere una sede di questa compagnia di telecomunicazioni che è stata abbastanza matta da assumermi, e dove l’aria che si respira è un po’ quella che speri di trovare in una multinazionale, a partire dal prefisso multi: multiculturale, multirazziale. Insomma, una canzone degli Ska-P. Uno di quei posti dove per forza di cose alleni il tuo inglese e conosci un sacco di persone così diverse da te che alla fine ci trovi un sacco di cose in comune. Quei posti in cui il rapporto umano c’è per forza e quindi viene valorizzato. Che almeno ci si confronti alla pari, sempre, ché nessuno sta sopra di te perché è bello, né tu stai sotto perché sei una merda.

Son due settimane che cammino con la schiena dritta.
Mi sento un turista in Erasmus, uno che qui ci sta per sbaglio e allo stesso tempo non poteva far altro che venire qui, come se fosse stato scritto da qualche parte.
Sento cose ora, a trentatré anni compiuti il giorno che sono atterrato qui, che mi chiedo se avrei dovuto provare prima, se magari è la cosa giusta all’età sbagliata.
Poi mi dico che meglio tardi che mai non ha mai avuto più senso che in questo momento e allora ben vengano le paure, i pensieri, ben venga questa enorme amplificazione di sentimenti che ti fa amare il mondo e ti spalanca il cuore e le braccia e la testa.

Ben venga tutto, che è il momento di prenderselo e sorridere se un giorno me lo perderò per strada.