Improvvisate #3 – Diecimila E Un Colpo In Testa

Un uomo torna a casa dopo una giornata di lavoro, ed i suoi gesti sono quelli di tutti: si spoglia, accende il ventilatore, si toglie le scarpe e fa per mettersi le ciabatte. Ciabatte che sono dietro la porta della sua camera, quella porta che non si apre del tutto e si blocca con un bell’angolo di 75°.
L’uomo sente subito il caldo della stanza chiusa da ore, infila i piedi nelle ciabatte e si gira, quasi di scatto per uscire da quella fornace.

L’impatto con la porta bloccata è tremendo. Colpisce con la fronte l’angolo affilato, il contraccolpo gli fa sbattere i denti e girare la testa.
Cade in ginocchio a terra, gli parte un bestemmione da far intimidire Paolo Chiavator e per un attimo tutto si spegne. Un secondo, quel secondo che gli fa pensare “ecco, dopo tutta ‘sta farsa da misurare in anni, dopo tutto ‘sto sbattimento guarda te se devo morire solo e in una pozza di sangue.
Eh sì, perché è sangue che esce da un taglio fin troppo profondo, ed è sangue quello che non smette di sgorgare.

Riesce ad alzarsi, corre allo specchio e comincia a contare: arrivato al 7 sale il dolore, a 10 sale ancora di più, a 15 il sangue smette di uscire per poi ricominciare peggio di prima, a 20 si ricorda dei denti che hanno sbattuto e vederli intatti lo fa sorridere. A 21 smette di sorridere, a 26 ride di nuovo, a 35 chiama la sua ragazza per lamentarsi da vero uomo quale è.

Adesso quell’uomo pensa a quant’è stato stupido, ma anche che ‘sta farsa continua e che almeno adesso e per un po’ avrà qualcuno che lo starà a sentire mentre si lamenta sul fatto di essere stupido.

E, sì, quell’uomo sono io.

 

[che dite festeggiamo anche qui? Masì dai.

DIECIMILA visitatori, o anche 5 del vecchio conio di visitatori.

Grazie davvero, il mio ego da scrittore maledetto è gonfio come il naso della Tommasi.

Speriamo di leggerci ancora, ma se così non fosse ‘sti cazzi.

Un altro uso dello ‘sti cazzi? Voi che rispondete a me che vi dico che Lunedì torno a Berlino.]

Improvvisate #2 – Come Tifare Ancora Per Lance Armstrong

(cose mal digerite ed appuntate al momento che copincollo prima che finiscano sotto al sedile di “Wristcutters”  detto anche “di cosa stavamo parlando?”)

Chi abita a Roma sa di cosa parliamo quando sgraniamo gli occhi davanti ai “cambiamenti” da campagna elettorale. Come dicevo qualche tempo fa, la ventata di aria nuovamente vecchia penetra nelle crepe istituzionali della città, riempie gli ignoranti polmoni della gente ed arriva al cervello facendoti credere che sia tutto vero. Una sorta di gigantesca allucinazione collettiva che ti fa vedere operai che operano, vigili che vigilano e autobus che autobussano.
Cose reali, ma che poi spariscono regolarmente alla conclusione delle elezioni.

Ma siamo nel 2013, esiste un mondo parallelo fatto di reti wifi e smartphone grazie al quale veniamo a sapere che le stampanti 3D sono in grado di riprodurre un rene
e che Gianni Alemanno ha un account YouTube.
Lo scopri perché ti tocca vederlo in tuta nera mentre va a caccia di mignotte sulla sua moto, perché a lato del video i primi consigliati sono Alemanno tra la gente, Alemanno spazzino,Alemanno a un comizio, Alemanno che respira, Alemanno che guarda. Sembrano le serie di libri per bambini dove l’orso sfigato diventa un eroe all’ultima pagina.

Oggi, però, si è raggiunto il climax, il colpo di scena finale che tutto crea e tutto distrugge: papà Berlusconi raccomanda il figlio tutto speciale Alemanno. Un video che non puoi esimerti dall’ammirare, slogando le tue mascelle in un’espressione tra l’incredulo ed il santiddio.

Lo zar compare seduto nel salotto di una casa scelta ed arredata probabilmente dallo scenografo dello spot con Alvaro Vitali per MAS: tessuti dorati, quadro con dipinto un qualche monumento con particolare dorato, lampada di mia nonna con finiture dorate, protagonista con faccia d’orata.

Più o meno così.
Più o meno così.

In rigoroso completo con spilla tricolore, papà Silvio sembra il genitore chiamato dal preside perché non sanno se bocciare o meno il figlio. Un padre farebbe di tutto, pur di far passare l’anno (cinque, in questo caso), e quindi di getta nel classico pippone pidiellino con introduzione, cose cattive sui comunisti, cose buone sul figlio.
Inizialmente esorta tutti a votare (#vincechivota), sottolinea che il sindaco è di tutti i romani come se questa cosa non fosse mai stata già detta in ogni occasione al mondo per qualunque tipo di ruolo, e comincia con il pippone contro Marino (solo scrivendo il nome, gli ho già fatto più campagna elettorale di quanta ne ha fatta per sé stesso).
Nell’ordine, papà tentacolo lungo ci dice di non affidarci al vivisezionista seriale perché:

– “Marino non è di Roma“.
Vero, è di Genova. Così come anche Alemanno non è di Roma, bensì di Bari;

– “Marino non conosce la città”.
Ora, non so come fare le pulci in fatto di toponomastica urbana a Ignazio, però ieri al confronto Sky a sbagliato un re su sette, mentre er sindeco sui nomi dei Colli ha preferito glissare. Giudicate voi, io lo chiamo attacco di “mecacosotto”;

– “Marino non ne conosce vita e problemi”.
Sarà, ma di certo sarà a conoscenza del fatto che la vita rasenta quella di gente sotto coprifuoco, che ha perso il senso della realtà e cammina coi paraocchi, ed i problemi sono quelli di una città dell’est Europa di vent’anni fa, con servizi inesistenti e criminalità a mille.

Poi passa al figliol prodigo, elogiando la sua conoscenza della città (“di Roma conosce tutto”); dice che “ha lavorato bene per cinque anni”, anche se penso volesse dire “ha piazzato gente a lavorare per bene”; sa cosa bisogna fare per migliorare la nostra vita e quella della nostra città, e questa sembra una frase che un maniaco direbbe alla sua vittima in un filmaccio di serie ics: “so io cosa è bene per te piccola, so cosa ti serve. Quello che ti serve è essere sodomizzata mentre ti tengo la testa nel cesso tappandoti il naso con un morsetto da batteria”. Diciamo che mi è suonato così.

Infine ci raccomanda di andare-a-votare, e di scegliere la “competenza, l’esperienza e la serietà di Gianni Alemanno, sindaco della nostra capitale”.

Un papà in piena forma, tre quarti di minuto splendidi, perfetta sintesi della propaganda liberticida cui ormai siamo abituati.

Dopo anni, possiamo capire da soli chi e chi non, giudicando in base a fatti reali, dalla lettura di una delibera sbagliata ad una passeggiata per Roma. Perché basta fare due passi per capire che troppe cose non vanno.

Io Marino il vivisezionista seriale non l’ho votato al primo turno, avevo ben altro per la matita.
Ora è un passaggio obbligato, ed agire al contrario sarebbe come tifare ancora per Lance Armstrong.

Roma E Lavori, Gioia Ed Odori

Per ogni sesso e quoziente intellettivo al di sotto della media.
Per ogni sesso e quoziente intellettivo al di sotto della media.

Mi alzo ancora impastato dalla sera prima, gli occhi gonfi ed il cervello che sbatte nel cranio nemmeno fosse la fail compilation di Aprile. Dopo la pisciata da seduto per non sbagliar mira ed un caffè veloce, mi metto la maglietta del giorno prima, i jeans dei due giorni prima, e le mutande me le tengo, che da seduto mentre pisciavo ho visto che si può ancora fare. Calzini leggeri, scarpe ancora più leggere. Mi preparo la prima sigaretta della giornata, inforco gli occhiali da sole ed esco.

Dopo aver salutato Drugo per tutte le scale che portano alla strada chiusa, m’incammino per arrivare all’incrocio dove prendere l’autobus. E noto la prima cosa strana. Lì per lì non capisco, è talmente impercettibile e sconcertante allo stesso tempo che i miei occhi si muovono come quelli dei camaleonti per un po’. Considerando che i miei occhi già solitamente si muovono in quel modo, questo crea un corto circuito che mi fa crollare definitivamente, e mentre mi inginocchio in preda ad una crisi mistica, capisco: hanno rifatto la strada. L’asfalto fresco quasi luccica, il suo odore è ancora nell’aria ma non è pesante, è quasi un aroma che mi accompagna fino alla fermata. Questo profumo scatena un qualche ricordo, forse un impegno, un qualcosa da fare tra un po’ ma proprio non mi viene in mente, e poi ecco l’autobus.
Stranamente puntuale.

Dopo nemmeno dieci minuti sono già sul treno. Un piacevole e breve viaggio sull’autobus, senza buche o pannelli di ferro che sbattono contro altro ferro che di solito di fanno sperare di morire il più velocemente possibile, il tempo di arrivare al binario che ecco il treno, anche lui preciso come non lo era da mesi. E mentre sono seduto, in viaggio verso Tiburtina, ecco che compare. Lui, l’altissimo, l’intangibile: il controllore. Pensi che in effetti ultimamente se ne vedono molti di più rispetto al solito. Continuo a pensarci mentre gli mostro l’abbonamento, e ci penso ancora mentre scendo le scalette mentre il treno rallenta, e smetto di pensarci quando sento odore di pulito, di appena pulito, e scatta di nuovo il ricordo di dover ricordare, qualcosa da fare tra qualche settimana, e intanto l’odore di pulito mi accompagna mentre scendo per entrare nei corridoi lunghissimi di Tiburtina.

Scendo a largo Preneste nemmeno venti minuti dopo. Scendo dal 409, stranamente vuoto e veloce. Scendo mentre vedo un altro 409 dall’altra parte, anche lì poca gente. Attraverso la strada e decido di aspettare il tram, anche solo per quella fermata, che oggi il mio culo ha più piombo che gli anni ’70. Cammino sulla banchina ed arrivo vicino alla panchina, una di quelle nuove bianche con la seduta più scomoda del pouff di Fantozzi. E mi accorgo che non solo è una di quelle nuove. È una di quelle nuove, ma nuova. Nel senso di appena bullonata, lucida come un ospedale, con la scritta della fermata ancora tutt’intera ed addirittura la pellicola sui vetri pubblicitari. Se Steve Jobs si fosse lanciato nel mondo delle infrastrutture, questa panchina l’avrebbe disegnata lui. Una folata di vento fa muovere un angolo della pellicola, ed un odore di nuovo mi risveglia. Ancora. Mentre nel naso mi arriva l’odore tipico di una confezione appena aperta, nel cervello riparte la giostra che gira per arrivare a farmi ricordare che cazzo devo fare tra qualche settimana. Continuo a pensarci mentre salgo sul tram, mentre sono sul tram, mentre scendo da questo fottuto tram e ancora non mi ricordo che co..

Ed ecco che un ultimo odore mi fa ricordare tutto, come uno che si riprende da un amnesia. Sono a pochi passi dal portone del palazzo della mia ragazza, quando la puzza di un’enorme cacca mi apre le porte della percezione e capisco: siamo in odore di voto.
Questa decadente città che è diventata Roma, ad un paio di mesi dalle elezioni per scegliere il sindaco, rinasce. Si popola di operai stradali indaffarati, di integerrimi controllori, di dipendenti ATAC attenti e precisi. Le strade brillano, le buche spariscono, gli alberi sono potati al punto giusto ed i vigili sono sempre nei loro gabbiotti. Ci sono più poliziotti in giro, ma sono meno invadenti e più osservatori.

E capisco che sotto tutta quella serie di odori, quello dell’asfalto, sotto quello di pulito del treno, tra quello della plastica nuova, sotto a tutto questo c’è la puzza di merda e marcio che è sempre presente, ma che in periodi come questo si attenua e cerca di confondersi tra il nuovo. Si insinua e cerca di distrarti da quello che in realtà è sotto i tuoi occhi tutti i giorni, ma che ultimamente è più bello e profumato.

Mi ricordo che a fine Maggio, il 26 ed il 27, devo andare a votare. E devo scegliere tra uno che forse se ne va ma intanto prova a spruzzare deodorante per l’ambiente per aver vomitato su questa città dopo essersi ubriacato a spese nostre con amici e parenti; uno che ha dovuto fare le primarie per essere candidato di un partito che ormai non esiste più, e che in più ha il piglio di un peluche; uno del M5S; uno che ha contribuito a riempire Roma di cemento e che adesso parla di green economy. Tralascio gli altri, che nemmeno meritano attenzione.

E quindi? Niente da fare, ennesimo voto da naso tappato e occhi socchiusi?

Stavolta no.

Me dici chi?
Te dico Sandro Medici.

Uno che sa il fatto suo, sa cosa dice, sa cosa ha fatto. Non mi dilungo, qui trovate tutto. Spoiler: suona le percussioni da dio ed è della Roma. Poi fa anche politica eh.

(rimanete sintonizzati verso l’Angelo Mai Altrove Occupato. non si sa mai)

Abbracci

Miele ovunque.
Miele ovunque.

Stazione Tiburtina.
Manca poco alle quattro di pomeriggio.
Cammino sotto un cielo grigio che finalmente non rispecchia quello che ho dentro.
Dentro mi splende il sole, ho il cuore pieno e la testa leggera, nonostante i pensieri che si accalcano e spingono e fanno a gara a chi ce l’ha più grosso.

Nelle cuffie parte “Tree Hugger”, una della tante tracce piene di miele ed amore della colonna sonora di Juno. Cammino a passi svelti che non voglio far tardi, ho cose da fare gente da vedere, stasera c’è la festa di Le Cool a cui tengo troppo per poter perdere tempo, il treno passa a momenti e faccio per imboccare il portico appena sceso dalle scale mobili. La schiena ancora mi fa male ma il cuore pompa zucchero e scioglie il dolore. Mentre la tartaruga vorrebbe volare ed il cactus avere un fiore rosa in testa, sento la voce di un uomo con la classica intonazione di chi parla con un bambino.

Alzo gli occhi dalla punta delle scarpe e vedo la copia senza soldi di Nanni Moretti piegato sulle gambe, che parla ad una bambina che avrà al massimo cinque anni, bionda da far spavento e col visetto di chi ancora non ha capito come funziona qui intorno.

L’uomo continua ad indicare, e sempre con il tono da tonti che abbiamo quando parliamo ai bambini le dice “guarda chi c’è! Lo vedi? Eccolo lì, eccolo che arriva!!”.

Mi giro aspettandomi un fratello più grande, uno zio, comunque un adulto.

E invece ecco un suo piccolo, dolce coetaneo. Un nanetto di un metro che inizia a correre.

Lei sorride, di quei sorrisi che i bambini hanno quando vedono una cosa bella e dimenticano tutto il resto: i giochi, il gelato, i colori, gli uccelli.

Ride di un sorriso pieno. Fa due tre passetti sul posto, come per caricarsi. Allarga le braccia come se dovesse spiccare il volo, il sorriso ormai così largo da sembrare finto. Gli occhi le brillano di luce propria. Altri due passetti..

.. e parte.

Scatta come una molla, le braccia ed il sorriso larghi che di più si sbezzerebbero. Corre dritta e veloce, l’altro bambino che allarga le braccia e noto solo ora che ha un fiore in mano, una di quelle margherite enormi che paragonata a lui sembra un albero.

Quando finalmente, dopo una corsa che sarà sembrata ad entrambi una maratona, entrano in contatto, è come veder nascere una stella.
Quasi cadono all’indietro, ma le braccia dell’una stringono l’altro e rimangono aggrappati, come sospesi su quelle piastrelle, tra la gente, tra i grandi che ‘ste cose non le fanno più.

Mi accorgo dopo qualche secondo che sono rimasto fermo a guardarli, con un sorriso così ebete da sembrare un cinquenne anche io. Una scena che fermami il cuore, che più pieno di così non ce la fa.

E capisco che cose del genere succedono di rado, e le noti ancor meno quando stai incazzato col mondo.

Ma oggi no. Dentro mi splende il sole, ho il cuore pieno e la testa leggera, nonostante i pensieri che si accalcano e spingono e fanno a gara a chi ce l’ha più grosso.

E scene del genere dovrebbero essere all’ordine del giorno e della notte, tra bambini, grandi e vecchi.

Anche dopotutto.

Ridiculum Vitae

I'm Here For Da Job.
I’m Here For Da Job.

Sono passati più o meno dieci anni da quando ho iniziato a lavorare. Parlo di un lavoro “vero”, con busta paga e contratto. Era un magazzino vicino casa, dove dalle 7 alle 16 mi facevo un culo tanto a riempire muletti di sacchi di concime, fontanelle in ghisa ed ero circondato da gente che aveva finito a malapena le medie grazie probabilmente a minacce e macchine rigate ai professori. C’era uno che diceva di fare rap, mi diede un suo cd perché “non hai capito spacca proprio, e non perché l’ha fatto io zì”. Ecco, sembrava sentir cantare uno affetto da sindrome di Tourette su basi fatte tirando una palla matta di tre chili dentro un negozio di cristalli e pentole, e le tematiche principali delle canzoni erano la figa, i soldi e la figa piena di soldi. Durante le pause pranzo l’argomento più quotato erano le avventure coi transessuali, i neon sotto le scocche della macchina ed il pallone. Niente di diverso dalle chiacchiere da bar, in pratica. Di più c’era solo la puzza di ascelle ed ignoranza.
Poi c’era il responsabile del gruppo, un signore di un metro e mezzo per 130 chili con mani grosse come i Paesi Bassi e così ignorante da far sembrare Antonio Razzi un socio onorario de La Crusca. Probabilmente l’unica cosa che abbia mai letto in vita sua sono le istruzioni della caldaia.
Ed infine il titolare, uno che si faceva vedere solo per strillarti dietro e che ha il cognome della stessa macchina che guida: Ferrari. E mi fermo qui.

Poi ci fu Lecce, dove mi trasferii per provarci. “Chi non risica non rosica”, ed inutile dirvi che se sono tornato a Roma a rosicare ho rosicato parecchio.
Un tour operator che forniva servizi al 90% delle agenzie viaggi della Puglia, Basilicata e nord della Calabria, totalmente a gestione familiare: capo donna, fratello commerciale, altro fratello e cognata in amministrazione, cugine (le uniche sane di mente) con me al booking.

La situazione era tranquilla fino a quando si è inserito il marito della “capa”, un folle la cui idea di commerciale era fare volantini fatti con Paint. Giuro. Sarebbe stato meglio fare scritte in verde carciofo su sfondo verde pisello in Comic Sans. Corsivo. Grassetto.
Inutile dire che, essendo tutti imparentati, in problemi lavorativi (che c’erano) venivano schiacciati da quelli personali: da una cena del giorno prima ai più vecchi ed ammuffiti scheletri nell’armadio, ogni giorno era una puntata di Beautiful di cui ero il protagonista inconsapevole. Mi sentivo come l’amico della famiglia Forrester invitato al dietro le quinte di una loro sfilata che assiste ad un omicidio tra parenti, viene interrogato dalla polizia, trattenuto, percosso ma poi rilasciato.
Previously on “Tour Operator”.

E si torna a Roma, e si va a Tp (che vi risparmio, visto che ne ho parlato in abbondanza, ma se proprio volete uno spiegone lo trovate qui).

Prima dopo e durante, ci sono state vendemmie, animazioni, accoglienza ad un centro estivo, banchista da papà, pubblicista-social networker, receptionist in un lido di lusso che di lusso aveva solo i prezzi. Ora sono all’Angelo, mi trovo bene ma non posso considerarlo un lavoro vero e proprio per quanto non abbia intenzione di mollarlo.

Insomma, il mio curriculum è quello di uno che non ha una laurea, non ha studiato mai davvero qualcosa e non si è mai specializzato in nulla. Ma ci ho provato, ho girato, tentato, sudato e raccolto molto, nonostante tutto e tutti, ma soprattutto nonostante me.

Ed ora, quindi, insomma, “ma che vòi da noi”?
Boh, non lo so. So solo che questo, più che curriculum, è il mio “Ridiculum Vitae”.

E se adesso, dopo mesi, ancora non vengo chiamato da nessuno, io comunque non mi sento in colpa per le scelte che ho fatto. Non avrò un pezzo di carta col prefisso “Dott.” davanti al nome, ma sono pieno di esperienze da mettere sul campo. Quale, ancora, non lo so.
Ho provato ovunque, per qualunque tipo di lavoro. Le risposte che ho ricevuto sono le stesse che ho di vincere la schedina senza giocarla.
Ma non m’arrendo: mi viene il vomito, mi stanco, mi illudo e poi ci rimango male.. ma non m’arrendo.

E giuro che non ho visto Ridge infilare mezzo metro di lama nella schiena di quel tizio.