Improvvisate #9 – Un Caffè Freddo

Ovvimente ho rapinato da  qui e qui.
Ovviamente ho rapinato da qui e qui.

Entro nel bar che fa freddo, ed è strano che è Agosto inoltrato e l’aria condizionata non funziona, visto che c’è un cartello attaccato sotto il condizionatore con su scritto “Non si fa credito”.

Se fosse accesa l’angolo staccato del cartello si muoverebbe per il getto d’aria.

Fatto sta cheffaffreddo e non dovrebbe. Come al solito il caffè non è accompagnato dal bicchiere d’acqua, che devo chiedere, e come al solito il pischello si scusa mille volte.
Saluto ed esco, mi rimetto le cuffie ed esco di nuovo.

Fottute doppie porte.

Fuori fa caldo, ed ancora non mi spiego perché nel bar facesse freddo.
Il marciapiede sembra sempre più corto la mattina che devo attaccare, e fottutamente lungo quando invece l’auto mi aspetta prima che io debba aspettare lui. Ovviamente lui non mi aspetta se faccio tardi, io invece la prendo in culo ed aspetto. Finisce spesso che la prendo al culo, al capolinea. Che c’è un panchina ma la gente ci piscia ché riparata da un cartellone pubblicitario di una pubblicità che non interessa mai a nessuno. Perché il nuovo profumo di ‘sto cazzo dovrebbe interessare a me, che non vedo l’ora di tornare a casa che son stanco e manca poco alle ferie e lei non dovrebbe mancarmi e le narici mi pizzicano per il piscio e nessun profumo da troppi euro ne toglierà via il puzzo.

Quindi no, grazie, ma mi basta la mia boccetta dell’Adidas che ho da secoli e per secoli altri mi basterà.

Io alla fine non lo so, perché facesse freddo in quel cazzo di bar. Il sapore di caffè mi è rimasto in bocca, la sigaretta dopo era densa come tutte le mattine, i soliti tre vecchietti con le mani incrociate dietro la schiena se la zompettavano ed uno di loro, come tutte le mattine, si ferma allo spiazzo col cancelletto per pisciare.

Non lo so spiegare davvero, il freddo dentro a quel bar, con l’angolo del cartello fermo e le scuse del pischello.
Forse il sonno, ma prima o poi dormirò.
Forse il lavoro, ma in realtà è ok e domani suona la campanella estiva.
Forse tu, ma tanto torni.

Però, mi sa, forse tu.

“La Telecamera” E BigRock Vincono Ancora

Esattamente quattro mesi ed un giorno fa, scrivevo solo che belle parole per i ragazzi di BigRock. Li avevo conosciuti solo il giorno prima, stanchi dell’ultima notte a tirar su la sceneggiatura che avevo scritto per il loro concorso. Ho vinto, e ‘sti matti in tre settimane hanno reso vivaLa Telecamera“.
La bellezza.

E visto che son matti anche peggio di me, in questi mesi ci siamo continuati a sentire ed abbiamo deciso di far girare il corto, in modo molto mirato, in alcuni festival di cinema. Fino ad oggi lo abbiamo proposto a tre festival, e tutti sono sembrati subito molto interessati.
Il primo è stato il SIFF – Salento International Film Festival.
Il SIFF è una bellissima manifestazione che ha concluso ieri la sua undicesima edizione. Undici anni in cui si è evoluto fino ad essere esportato dal suo ideatore Gigi Campanile in Asia, dove ormai è una sicurezza per qualità delle pellicole scelte personalmente da Gigi.
Ho avuto il piacere lo scorso anno di partecipare come giurato, ed ho avuto la possibilità di testare la qualità di tutti i film in concorso, corti compresi.

Per questo, parlando con Marco di BigRock, abbiamo pensato potesse essere un buon inizio per vedere cosa poteva succedere.

Ed è successo.

È infatti col cuore pieno di gioia che posso annunciare ufficialmente la vittoria de “La Telecamera” al SIFF, nella categoria “Corto di Animazione”.

È difficilissimo spiegare a parole il frullato di pensieri che si rincorrono in testa ora.
Ho già spiegato come il corto è nato dalle mie dita e come quelle splendide creature di BigRock lo hanno reso vero, reale con un lavoro immenso in pochissimo tempo.
Che voi penserete che per quei due minuti finali saran serviti tre giorni.

Selallero.

Tre settimane che son bastate pelo pelo, e la loro stanchezza di cui parlavo all’inizio, il giorno della prima, ne era una prova più che chiara.
Ma erano felici, felici di aver fatto bene quello che piace a tutti loro. Soddisfatti di aver visto un mucchietto di parole diventare quello splendore che è “La Telecamera”.

Io mica smetto di ringraziarli eh. Non ci penso proprio.
Perché per me questa cosa ha significato, e continua a farlo, tantissimo. Una distrazione che è diventata un’amicizia, uno stimolo, magari anche il metter lì altri progetti.

Di certo con i festival non ci fermiamo. Anche perché ora, le pellicole vincitrici in ogni categoria del SIFF si faranno un bel viaggetto fuori di nostri confini. Ora si va ad Hong Kong, e Los-fuckin’-Angeles (o forse Lon-fuckin’-don, ancora non si è ben capito!!).

OH YEAH!!

Quindi non è proprio il momento di lasciarci stare, anzi.
Ora i BigRockers se ne stanno in giro per gli States, come ogni anno, a girare nei Canyon o a correr come i matti su sterminati laghi salati.

Poi tornano, faran mille feste e nel frattempo, forse, MAGARI STUDIANO PURE.

Bastardi ❤

Stay tuned, “La Telecamera” ancora non si è spenta.

Tracce – Brano Uno – Green Day

"For what it's worth, it was worth all the while."
For what it’s worth, it was worth all the while.

Quand’ero giovane c’era questa. Lei aveva gli occhi verdi ma che con la luce cambiavano, diventavano quasi azzurri. Aveva lunghissimi capelli mossi e rossi, ed un sorriso bianchissimo sulla pelle olivastra. Avevamo diciott’anni ed io iniziai non capendoci un cazzo di relazioni, crociata che orgogliosamente porto avanti ancora adesso. Mi ricordo di uno stupido quanto serissimo contratto in cui ci s’impegnava a non dire-fare determinate cose, che non so in che contesto includeva anche Alessia Marcuzzi. Forse evitare di spezzarmici il polso sopra, ma la butto lì. Contratto firmato con le nostre impronte digitali, stampato in doppia copia che chissà che fine ha fatto.
Ci fu la mia lunghissima e sudatissima prima volta, imbarazzante come tradizione vuole, ma fu lì che m’innamorai del suo corpo e di tutte voi maledette, un qualcosa da ringraziare e bestemmiare iddio per ogni giorno che vi mette in terra.
C’erano cene fuori, compleanni in cui il mio modo di vestire viene ancora preso per il culo perché la camicia di jeans coi bottoni a clip, PERLINATI, effettivamente a pensarci ora è un misto tra il terrore ed l’hipster che ancora manco esisteva il termine.
Ci furono ovviamente scazzi, l’ancor più ovvio periodo di pausa -che dovrebbe esser paragonato alla minaccia personale, per l’ansia che hai nel mentre-, ci fu la rottura definitiva e poi i mille strascichi, le gelosie.. e poi gli anni passano e vedersi, quelle rarissime volte, è un piacere ancor più raro.

Da lì, però, cominciò anche il mio inutile, infantile disturbante lamentarsi nei mesi dopo, la rottura.
E questo, più che una crociata, è un marchio di fabbrica.

Breaking Bad – E adesso?

È difficile dare un giudizio ad una serie come Breaking Bad. È difficile essere oggettivi, e lo è ancora di più etichettare un prodotto che, trasversalmente, ha toccato tutti i punti più alti di quella cosa chiamato Cinema.
Nessuno me lo ha chiesto, sia chiaro.
Ma mi accorgo solo ora, senza avere più il mio chimico preferito accanto, che in questi anni non ho mai scritto di Breaking Bad. E allora perché non farlo ora, per una sola volta?

Non sto nemmeno qui a dirvi che da adesso in poi ci saranno più spoiler che portafortuna a casa Letta.
Zio e nipote.

Sono tanti quei punti di cui parlavo prima e che Gilligan e compagnia hanno raggiunto, non senza fatica.
Innanzitutto quello (scontato?) della sceneggiatura.
Il livello di scrittura è stato così sublime che J.J. Abrams ha pisciato bile per cinque anni. Gilligan ha preso IL personaggio e lo ha fatto partire da A per farlo arrivare alla Z, passando per ogni altra singola lettera dell’alfabeto. Cambogiano.
Premetto che io sono un Lostiano d.o.c. e che per me fino a ieri sera il miglior finale mai visto era proprio quello dei dispersi più famosi al mondo. Detto questo, e senza fare ammenda, capisco solo ora quanto può essere molto più difficile portare avanti un qualcosa di pianificato rispetto ad un prodotto fatto, per mezza serie, improvvisando. Se devi creare in corso d’opera, forse l’effetto sarà più spettacolare ma privo di un colpo vero e proprio. Intendo un pugno in faccia come un conato, ma comunque qualcosa che ti rimane attaccato addosso come se fosse successo davvero.

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“We are a family”.

Breaking Bad ha fatto proprio questo. Ha lasciato dopo ogni puntata un dubbio morale, etico. Ogni volta ci siamo ritrovati a dover fare i conti con le scelte di Walt, sin dall’inizio, sin dal non volersi curare per non finire come un un morto vivente, ancora prima dal trovarci d’accordo o meno con l’uccidere Krazy8, e persino prima con il mettersi a cucinare metanfetamina. Per cinque anni, quel capolavoro di attore che è Bryan Cranston ci ha messo lì, vicino a lui, ed ha diviso con noi il peso di ogni singola scelta. Fino all’ultimo, fino a non farcela più, fino a distogliere lo sguardo dal suo volto. Ma anche fino ad accennare quel sorriso insieme a lui e Jesse, quel “grazie a dio è un addio” negli occhi di Aaron Paul e poi nelle sue lacrime mentre ride ed urla e guarda lo specchietto e poi urla ancora di più. Non ci lasciano il dubbio su cosa farà: magari andrà davvero davvero in Alaska a costruire scatole di legno, ma sarà comunque lontano e forse, finalmente, felice.
Sappiamo con certezza che Walt se ne va più leggero, dopo aver tolto definitivamente la maschera, ammettendo che gli piaceva eccome, fare l’imperatore della droga. Ma allo stesso tempo liberando, davvero e per sempre, lo stesso Jesse.
E non ci lasciano nessun dubbio sugli altri: Skyler, insieme a Flynn ed Holly, passerà una vita misera, che probabilmente neanche i soldi che arriveranno meno di un anno dopo riusciranno a toglierle il peso di tante, troppe macchie del suo passato.
Marie, probabilmente, si suiciderà. O comincerà a fumare meth.
Saul, se tutto va davvero bene, lo vedremo nel suo ormai confermato spin-off, antecedente a tutto quello che conosciamo. Speriamo bene.

Il pregio vero della serie, in pratica, è stata la costanza. La cura e la precisione di Vince Gilligan nel preparare, pezzo dopo pezzo, un gigantesco domino. L’insieme perfetto di un sogno americano che si spezza, la crisi di mezza età tipica degli uomini, il rapporto tra parenti, lo scontro generazionale. Ha trovato gli attori giusti, si è circondato di gente fidata ed affidabile, ed ha dato il colpo alla prima tessera.
Aveva preparato tutto con cura, nei minimi dettagli: si dice che in una passata stagione abbia impiegato ore nello scegliere la tonalità di grigio di una maglietta da far indossare a Dean Norris. Non il colore, attenzione. La tonalitàCi ha fatto capire sempre tutto, ma sempre due minuti dopo: è il cosiddetto foreshadowing, e cioè l’abilità di un autore (letterario, musicale, o come in questo caso televis.. pardon, cinematografico) di inserire alcuni indizi su cosa succederà nel corso della trama. E la maggior parte delle volte non sono così evidenti.

Zac.
Zac.

La puntata “Box Cutter“, ad esempio, si apre con l’inquadratura di un taglierino, che il povero Gale usa per aprire le scatole degli strumenti del laboratorio. Lo stesso taglierino, viene usata da Gus per sgozzare come un capretto Victor. Anche in “Face Off“, mentre Gus si trova nell’ascensore per porre fine alla scampanellante fine di Hector Salamanca, l’inquadratura si sofferma sulla sua mano mentre, come un tic, si tocca  le punte di pollice e medio mentre si sente l’insistente “ding ding” dell’ascensore. Proprio come, poco dopo, lo storpio kamikaze suonerà per far esplodere la bomba.

(da notare che anche già solo i titoli, sono indizi)

Persino il comparto costumi ha contribuito in modo enorme alla riuscita della serie: partendo da tutte le sfumature possibili di viola di Marie, ai primi arancioni di Hank che si trasformano in colori più cupi man mano che il suo personaggio diventa sempre più consapevole dello tsunami di merda che gli si sta per abbattere addosso.

Se pensate che io perda tempo, guardate qui.
Se pensate che io perda tempo, guardate qui.

Ovviamente, c’è Walt. Dai colori pastello, così neutri da farlo sparire nella sua iniziale inutilità, arrivando al nero di Heisenberg, un nero più integrale possibile, con cappello ed occhiali. Fino a tornare ai colori fermi una volta uscito dal giro, per lasciarsi poi morire con l’identico dress code della prima puntata, quello prima di trovarsi in mutande nel deserto.

La musica. Ah, la musica di Breking Bad. È da ieri sera che ascolto la playlist su Spotify, e credo che mai nessuna serie abbia mai avuto una migliore scelta di brani. La migliore, in assoluto.
Se pensando a Lost mi verrà in mente la sigla, e le due canzoni top che tutti conosciamo, pensando a BB penso a mille momenti, mille singole canzoni magari anche solo accennate che hanno accompagnato un momento, solitamente non parlato. Inutile dire che questo rimarrà probabilmente il miglior abbinamento canzone/scena finale della storia del mondo tutto.

Per il resto, non so che altro dire se non che sono anche queste stronzate a rendermi felice di essere nato in questi anni. Già le soddisfazioni son poche, almeno quelle virtuali.

Inutile dire che tutto questa manfrina non ha uno scopo, forse nemmeno un senso. Spero di non avervi annoiato.
Ma, anche solo per una volta, volevo dare il mio omaggio a quella che rimarrà per molto tempo, forse per sempre, la migliore serie tv che sia mai stata ideata, scritta ed interpretata.

"Guess I got what I deserved".
“Guess I got what I deserved”.

 

Un solo appunto: ma Huell?

Meanwhile..
Meanwhile..

Pillole Salentine #8 – Doppio Dosaggio

Dosaggio #1 – Sì e Non

La vedi la noia, il non saper cosa fare negli occhi della gente? La senti l’assenza di un odore nell’aria, che non sia quello della paura e del timore?
C’era un tempo in cui la voglia di fare qualunque cosa nasceva come nulla, momenti in cui ci si alzava e si facevano cose per ore, giorni. Che fosse aprire un’attività, sistemarsi una vecchia auto o falciare il giardino. Si faceva perché si poteva, e perché si aveva la voglia.
In anni come questi, invece, la voglia è annullata. C’è il dovere, la sensazione che anche prendere il caffè la mattina al bar sotto casa sia un atto dovuto, e non più perché è un momento di pausa. Che cazzo, si chiama “pausa caffè” in tutto il mondo, un motivo dovrà pur esserci.

Il non, il non come stile di vita, il non come prerogativa. Non distinguiamo più quando dire non perché è dovuto, e quando invece potremmo dire sì, o anche solo muovere su e giù la testa come quando da bambini volevamo convincere i nostri genitori a farci fare qualcosa che invece loro non. Non sappiamo più fare quel movimento quando un signore ci chiede due monete per un panino, “perché tanto non li usa per mangiare ma si va a fare il Campari”. La memoria sociale, quella che ti fa dire si e no, è cancellata. Ovunque è truffa, inganno e raggiro. Dietro ogni angolo c’è chi ci vuole fregare, chi non aspetta altro che un nostro sì per farcelo rimpiangere.

E ci dimentichiamo che invece, con un sì, ci ritroviamo più liberi di quanto non saremo mai. Quando ci dicono no spesso ci innervosiamo, ci agitiamo, un divieto o una negazione sono sempre e comunque una limitazione della nostra libertà. Dal voler pisciare in strada allo scrivere su un muro, dal “andiamo insieme” al “ne voglio mangiare un altro”: a nessuno dovrebbe essere detto di no (tranne a richieste di omicidi e furti, o comunque ad atti illegali in generale). Vuoi farlo? Fallo. Poi sono cazzi tuoi. Ma intanto fallo, perché è facendo cose che ci si fa esperienza.

“Sbagliando s’impara?”

Sì tu in prima fila, ma non proprio. Anche facendo le cose giuste s’impara. Che alla ruota ci siamo arrivati dopo un sacco di tentativi, ma anche dopo averla fatta tonda abbiam capito un bel po’ di cose.

Chiamatelo lasciarsi andare, ingenuità, poco giudizio.

Ma io sono dell’idea che un sì detto spesso faccia bene molto più di un no d’istinto ed innato. Un sì per quelle due monete, per quel panino al signore, fa comparire sorrisi che non ci ricordiamo più come son fatti.
Il no detto a priori, perché è meglio e toglie un sacco di problemi, è una cazzata.

Peggio.

È proprio dannoso, e solo per chi lo dice.
Dite più sì, motivate i vostri pochi no con ragioni vere ed ireemovibili.

Pensate, cazzo.

Dosaggio #2 – Stelle e Terrazzi

Poco più di un anno fa ero su questo stesso terrazzo, e per la prima volta in vita mia mi sono trovato a pregare. Non so come si fa, dicono che ognuno ha il modo suo.
Il mio fu rabbioso, di una rabbia genuina, pura ed istintiva.
Pregai semplicemente di non farmi portare via qualcuno, qualcuno a me troppo caro per vederlo andar via così presto. Mi stesi sul rialzo, un miccio
stretto tra le labbra e le mano dietro la testa. Che a leggere sopra, uno mica deve state per forza in ginocchio.
Guardavo le stelle, brillanti come non mai nel cielo di Luglio. Ma erano troppo luminose. Allora mi misi a guardare meglio, e ne trovai una dalla luce fioca, isolata.
Sembrava quasi il bambino che se ne sta in un angolo del parco giochi a guardare gli altri correre e cadere e rialzarsi e ridere.
La puntai e le diedi il suo nome, con la promessa di ritrovarci qui l’anno dopo.

Poco più di un anno dopo sono di nuovo su questo stesso terrazzo, e non sto pregando.
Il cielo è macchiato di nuvole, ma le stelle brillano ancora.
Lei però no.
Non ho un’ottima memoria, ma lei era lì. Ne sono sicuro come lo sono di tutte le mie insicurezze.
Lei non c’è, e questo mi conferma due cose.

La prima era quasi scontata, ma ora ne sono certo: le preghiere non si esaudiscono, perché non c’è nessuno a riceverle. È come voler mandare lettere con ricevente nel Medioevo.

La seconda è invece una realtà più dura,  e cioè che le promesse, anche quelle, non vanno a buon fine. E non parlo di quelle di routine su cui puoi sforare tipo “passo a prenderti alle otto” ed arrivi alle otto e dieci, oppure tipo “stasera ti faccio venire”.

Parlo di quelle grosse, quelle che una volta non mantenute fanno sparire le persone. Quelle reiterate nel tempo e che lì, sospese, rimangono.

Sono su questo terrazzo, poco più di un anno dopo.

E ancora fa un male cane.