Improvvisate #1 – Dubbi Da Social Netework Ed Un Finale Tragico

(cose starnutite ed appuntate al momento che copincollo prima che finiscano nei panni sporchi dell’universo tutto detto anche “gli effetti negativi della Cannabis”)

Qualcosa del Genere (chi non lo conoscesse è pregato di guardare da molto vicino una sega elettrica in azione, da ubriaco) scrive questo:

Facebook ha rimosso la cosa che avevo scritto su Helmut Newton perché a quanto pare trova immorale e socialmente diseducativo che ammiriate la bellezza umana nelle sue più alte espressioni mentre spiate la vita del vostro ex-ragazzo, vi rincoglionite coi meme dei quattordicenni americani e fingete che vi piaccia Apparat.
Mi scuso e ve la ripropongo con le opportune modifiche.

pubblicando poi il post “inrcrminato”

“Non penso che Helmut Newton avrebbe successo senza la buona fede delle donne che ti trascinano alle sue mostre. Io non direi mai: “Ehi, che ne dici se prima di andare da me a bere qualcosa ci guardiamo 50 foto di giovani pediatri di Emergency con 25cm di cazzo e un attico a Monteverde?”.

Ora, tralasciando l’applicazione delle regole di Facebook, che se fossero quelle di un paese reale le strade sarebbero piene di ragazzine troppo truccate, gatti e citazioni di Moccia sui muri, volevo soffermarmi sui commenti di FB.

QdG affronta svariati argomenti degni di un commento in sole 11 righe: le già citate “leggi” di Zuckerberglandia, Helmut Newton, la bellezza umana, l’uso di FB, i meme site, Apparat, senza contare quelli del post rimosso, degno del solito, geniale cinismo sempre (mai) volgare. Si potrebbero aprire discussioni infinite su ogni argomento, preso singolarmente o intrecciandolo con un altro. A voler perdere tempo, potresti stare ore a scrivere cazzate.

Invece, c’è chi pensa bene di commentare così:

 

“… 🙂 … è vero…”

Nove puntini, quattro lettere e uno smiley,
Prima di tutto: è vero cosa? È vero tutto o in parte? È vero che Facebook censura? O che il quadro che fa QdG dell’utente medio corrisponde a realtà?

Ma poi, più che altro, cosa ti spinge a scrivere “… 🙂 … è vero…”? Non puoi semplicemente mettere il like, come tutti, e poi startene zitto invece di dover per forza divulgare il nulla-pensiero solo per dire “ehi ci sono”?

La terra la calpestiamo in miliardi tutti i giorni (tranne i paralitici), e tu sei solo l’ennesimo sacco di concime in pelle, come tutti noi.

Questo, ad esempio, è vero.

(:

Diciassette Anni Fa

Happy Birthday

Diciassette anni fa mi ero appena trasferito nella nuova casa, dopo un periodo di stallo a casa di mia nonna. Ci avevano mandato via dalla vecchia, e per mesi abbiamo vissuto a San Saba tutti quanti. Ricordo che mio padre non dormiva per i rumori di quelli che abitavano sopra, abituato com’era al silenzio di quella che “una volta era tutta campagna”.
Io ero contento da morire: ero sempre con i miei ma allo stesso tempo con mia nonna, che come tutte le nonne non poteva crederci al fatto di potermi viziare tutti i giorni, tutto il giorno, e non solo nei mesi estivi o i weekend. Anche se stavamo stretti, dovevo svegliarmi ancora prima del solito per arrivare a scuola, anche se le abitudini per un po’ erano cambiate, io ero contento da morire. Ci festeggiai anche il mio compleanno, il mio decimo per l’esattezza, ed i miei zii mi regalarono l’orologio di Topolino, quello col sorcio al centro con le braccia a le lancette. Quanto mi faceva ridere quando erano tutte storte, perché lui comunque manteneva il classico sorrisone a bocca aperta tipico del topo più antisemita del mondo.

Diciassette anni fa ho visto la mia nuova casa costruirsi “da sola”. È un prefabbricato in legno, e gli operai insieme a papà dopo aver gettato la colata per le fondamenta, avevano piazzato le basi di legno che delimitavano le pareti esterne e quelle della camera. Era bello: sembrava una mappa, una planimetria, però vera, fisica. Ricordo che passavo da una stanza all’altra semplicemente scavalcando una trave. C’è una foto, che conservo ancora adesso, dove sono lì con quei capelli a caschetto (lisci), la felpa de Il Manifesto col bimbo che dorme, pugno chiuso e la scritta “La Rivoluzione Non Russa”, gli occhiali da sole rossi tondi alla John Lennon che adoravo appesi intorno al collo col cordino. Ma la cosa divertente era lo sfondo: una parete in legno a metà, più bassa di me, ed una finestra incastrata nel mezzo. Perché casa l’hanno costruita così: due travi in verticale, due travi in orizzontale, due travi in verticale.. e così via. Poi arrivava il momento di piazzare le finestre, e quindi rimaneva questa casa, un’immagine a metà tra la costruzione e la distruzione. Ricordo che con mamma abbiamo buttato 200 lire tra due delle travi che formavano la parete divisoria tra la mia (ormai ex) camera e la loro. Dicevano portasse fortuna. Ma l’immagine più forte è quella del tetto, poggiato sopra come un tappo su una scatola, fissato alle pareti ed alle due colonne.. e fine. Sembrava un’enorme costruzione in Lego, ma di legno. La Leg(n)o.

Diciassette anni fa usciva “One Hot Minute”, dei Red Hot. Io non sapevo nemmeno chi fossero, all’epoca ascoltavo.. boh, manco gli 883. Forse ero fermo a “Don Raffaè” ed a tutta la discografia di Battisti. Meglio di niente, per carità.
Ovviamente l’ho scoperto tardi, quell’album, e come molti non l’ho apprezzato subito. Il mio primo album dei Red Hot che comprai fu “Californication”, quasi cinque anni dopo. Poi seguì “Blood Sugar Sex Magik”, uscito che avevo cinque anni, che tutt’ora reputo il loro disco migliore, ed uno dei miei preferiti in assoluto.
Quando ascoltai OHM per la prima volta, non lo capivo proprio. Cronologicamente si piazza esattamente a metà tra i due prima citati, ma musicalmente è totalmente fuori da ogni schema musicale seguito dai quattro di L.A. (se mai ce n’è stato uno). Considerando che Frusciante aveva dato di matto durante l’estenuante tour per promuover il precedente album, e qui veniva sostituito da Navarro che veniva dai Jane’s Addction, l’aria in casa RHCP cambia totalmente. Per la prima volta il funk viene mischiato al metal. Il disco a volte si fa pesante come un tir di macigni che ti viene scaricato in faccia (vedi l’apertura con “Warped”), a volte dolce come il miele mischiato nello zucchero (“Tearjerker”). Flea è impazzito come non mai, tarantolato e “slappato” come non lo si sentiva da tempo, talmente galvanizzato da concedersi un solo con “Pea”. Chad Smith.. vabbè ho sempre considerato Smith il migliore del gruppo, e qui si capisce davvero perché: una ritmica pazzesca, una perfezione ed una carica tale da reggere tutto e tutti, per l’intera durata del disco. Kiedis, infine, è in totale stato di grazia. Oltre a strillare come sempre, in quasi tutte le canzoni, tira fuori una parte melodica a tratti lisergica, anche se coca ed eroina avevano fatto, di nuovo, la comparsa nella sua vita, oltre al Valium che aveva cominciato ad assumere dopo una imponente operazione ai denti. Questo però non lo trattiene dall’esprimersi al meglio, influenzando oltre il suo modo di cantare, anche quello di scrivere. (anche se meno rispetto agli album precedenti). Escono perle rare, tra cui le ballate come la già citata “Tearjerker”, “Falling Into Grace” e la splendida “Walkabout”.
Ne esce fuori un capolavoro per pochi, ed un album strano per molti. Di certo qualcosa che esula dal fantomatico percorso dei Red Hot Chili Peppers, qualcosa che solo la rabbia per la lontananza di Frusciante e l’irruente comparsata di Navarro hanno contribuito a farlo diventare il mio secondo album preferito della band, dopo “Blood Sugar Sex Magik” e “Californication”.

Tanto per la cronaca, se non erro la mia copia originale la regalai alla mia ex. O forse me l’ha ridata con un sacco di roba l’anno scorso. In caso contrario, spero esploda.

Diciassette anni fa un album mi ha cambiato la vita, anche se anni dopo.
E non smetterò mai di ringraziarli.

[ma grazie anche a Wil di Non Leggerlo per avermi ricordato, senza volerlo, del compleanno del disco e perché gli ho rubato l’immagine]

Pillole Salentine #4 – Tavor – Post Fotografico

Post fotografico inteso come “ho fatto le foto ad una cosa che ho scritto a mano e che non mi andava di riportare su Mac”.
Era una vita che volevo farlo, certo con cose più allegre però alla fine l’ho fatto.

Enjoy..?

 

 

Concerti

In fila

Sono qui fuori. Da sei ore sei. Sono arrivato alle due, stanotte. Sono uscito un po’ con i miei amici, ma quasi subito mi son mosso per venire qui, non potevo rischiare. ‘sti cazzi dei pub, delle sigarette, delle chiacchiere inutili, degli sguardi ai culi delle pischelle. Io qui, devo stare.

Insieme a me c’è un sacco di gente, ma tanta. Quando sono arrivato c’era già la fila, e nemmeno poca: una coppia di ragazzi, all’incirca della mia età, avevano portato sedie smontabili di Ikea e delle coperte che credo usino i pompieri, quelle tutte argentate iper isolanti. Più avanti un piccolo gruppo di signore sulla cinquantina chiocciano su quanto freddo faccia, le gambe gonfie e del perché tutta questa gente sia qui anziché a casa, senza accorgersi – o facendo finta di – che qui in mezzo ci sono pure loro e che chiunque, qui, potrebbe fargli la stessa domanda. Proprio dietro a me c’è un ragazzino, avrà quindici anni al massimo, con il suo NorthFace stretto e imbottito, i suoi occhiali da nerd con le lenti finte ed un tablet in mano. Legge le ultime notizie su questo posto, cerca di capire se davvero stanno per aprire i cancelli oppure rimanderanno ancora un po’. So che sta controllando queste cose perché quello dietro di lui non fa altro che affacciarsi dalle spalle del ragazzo per buttare giù un occhio, e quindi il ragazzo lo dice a voce alta, forse per evitare quell’alito caldo e sconosciuto nell’orecchio.

Io gli avrei spaccato direttamente la faccia.

Cosa che a quanto pare succede più avanti: dai movimenti irregolari delle persone più in là e dalle grida, è partita la rissa. Faccio un piccolo passo di lato, quello che mi basta per sporgermi dalla fila allungando il collo. Ma soprattutto il minimo indispensabile per non cedere nemmeno mezzo millimetro a ‘sto pischello rincoglionito, gli schioppasse ‘sto aipàd.
Comunque, più avanti due ragazzi si stanno spintonando, e da quello che si gridano (o che si capisce tra uno “stronzo!!” ed un “‘nnaggiallamadò t’ammazzo..” ) pare proprio che il motivo sia un tentativo di quello dietro di passare avanti. O forse solo uno spintone di troppo. Li capisco: non è la prima volta che faccio una fila qui.  Può essere estenuante, se non sei preparato: la folla, le transenne che ti obbligano a rimanere nel tuo centimetro, la testa fissa avanti, ad aspettare. Alcuni cedono, non arrivano nemmeno a due ore che si staccano dalla fila sfiniti. Ne ho visti cadere tanti, così.
Comunque alla fine arriva la sicurezza, e se li porta via allontanandoli e minacciandoli di non tornare.

All’improvviso, quel suono: è la sirena che preannuncia, di lì a pochi secondi, l’apertura dei cancelli. La folla si agita, vista dall’alto sembrerebbe un cobra irrigidito pronto ad attaccare la preda, a divorarla da dentro. Ecco il chiacchiericcio che per un attimo va via..
..il silenzio, un calma tanto improvvisa quanto surreale..
.. e poi l’urlo. È sempre una persona diversa, molto spesso una donna. Ho sempre pensato a chi urla in quel momento come al primo della fila, un Leonida pronto a scatenare l’inferno contro degli invasori alieni, mentre intorno imperversa una guerra termonucleare contro dei dinosauri robot.

E via tutti dentro.

Eccomi fuori.
È stata dura, ma ce l’ho fatta.
Il concerto, in blueray-HD-3D, di Laura Pausini all’Olimpico.
Ne è valsa la pena per tutto, dalla fila alla calca. Ne è valsa pure la pena cadere due volta mentre salivo al contrario la scala mobile, e l’aver scansato quella vacca incinta che stava per prendere l’ultima copia del concerto. Ma soprattutto aver sfruttato le mie rughe in eccesso (per uno di trentacinque anni) per far intenerire quel nerd coglioncello che stava dietro a me, quando me lo sono trovato in cassa con il suo nuovo oggettino digitale del cazzo, quando prima gli avevo pure schiacciato gli occhiali per entrare nel negozio di elettronica.

Sono al settimo cielo cazzo.
Ora chiamo mamma e le dico di prepararmi una bella cenetta. E che avvisi papà che oggi la tv tocca a me. E magari domani manco vado alle Poste per il turno allo sportello.

Sabato

Io in mezzo alla gente, Sabato 15 Ottobre, c’ero.
Alla fine della giornata, non ho riportato ferite fisiche, ma per come sono io qualche segno in testa m’è rimasto.
Nonostante sia riuscito a manifestare poco, volevo lasciare la mia traccia, forse anche per me, per tirar via tutto ed avercelo pronto all’evenienza, in futuro.
Questo è solo un racconto di quello che ho visto.
Poche considerazioni, anche se ne ho piena la testa.
Probabilmente sarà una cosa lunga, quindi mettetevi l’anima in pace.

Era partito tutto bene: ero contento di avere gli amici di una vita lì con me, di sapere che anche mio padre era tra noi.
Ero contento quando la gente mi fermava per fare la foto al mio cartello, tanto che con la spinta degli altri lo innalzavo e lo facevo vedere, e già mi sentivo in imbarazzo.
Ma nonostante questo lo esponevo agli obiettivi, contento di essere portatore di un po’ di buonumore.

Sto uscendo dalla metro di Repubblica, mi chiama un mio amico. È già con la ragazza, oltre la metà di Via Cavour. Mi avvisa che appena un secondo prima un gruppo di persone, incappucciate, col casco ed i volti coperti, aveva attraversato il corteo di netto, cominciando a spaccare le vetrine dei bancomat e a dar fuoco ai cassonetti. Mi consiglia di saltare l’inizio del corteo e di andare direttamente ai fori, dove la situazione sembra molto più tranquilla. Lo rassicuro, attacco il telefono. Ma con gli altri decidiamo comunque di proseguire dall’inizio.

C’erano tanti ragazzi, ma sembravano ancora di più le persone più grandi, le donne, i pensionati. I loro volti sereni, con solo tanta rabbia che sfogavano con canti, urla, danze.
C’erano le immancabili bande musicali delle associazioni, i venditori di fischietti, i giocolieri.
Insomma, c’era una marea di gente, e si stava di un gran bene.
Decidiamo di smettere di camminare sulle vie laterali: mi faccio porta cartello, e guido il piccolo manipolo di deficienti al centro della via, in uno spazio che si era creato tra il cordone principale.

Mentre ci stringiamo un po’, visto che un mezzo dei vigili del fuoco è legato col nastro rosso-bianco al muro, per isolare i vetri di una banca a terra, nell’esatto momento in cui la folla si stringe un po’, da davanti parte una piccola carica. L’umore cambia in zero: i sorrisi lasciano spazio alle urla, gli occhi grandi di allegria a quelli ancor più grandi del panico, la camminata lenta a una retromarcia brusca.
È questione di un attimo, non vedo neanche se son stati i poliziotti. Poi arriva il l’esplosione di una bomba carta: indietreggiando, molti di noi si trovano in un vicolo, mentre mi giro capisco che c’è qualcosa che non va. In fondo ci sono tre camionette, che ci sbarrano l’uscita dal vicolo.





Ma c’è il tempo di capire che la carica è passata, possiamo rientrare. Di nuovo, all’improvviso, il tempo per capire non ce l’abbiamo: mentre rientriamo su Via Cavour, da direzione Termini arrivano a scendere una ventina di persone, tutte vestite di nero. E succede quello che vedete nei primi ventidue secondi di questo video, più un altro minuto prima che non è stato ripreso:



Mi ritrovo nel vicolo, di nuovo, stavolta al chiuso: dietro le camionette, davanti le teste di cazzo.
E qui partono una serie di scene che, se non l’avessi viste con i miei occhi, stenterei a crederci:
i neri cominciano a scendere le scale, stringendo me ed un’altra sessantina di persone con le spalle contro i mezzi della polizia;
una ragazza strilla ad un poliziotto che si affaccia tra l’angolo del palazzo ed il muso di una camionetta, di spostarne una, per farci uscire, che questi ci ammazzano. Di risposta, un “Che cazzo vuoi che facciamo, porca madonna!!”, urlato con tanto di manganello agitato;
i neri scendono ancora una rampa, qualcuno di loro si toglie la sciarpa da davanti la faccia per urlare e spaventare ancora di più. Hanno tra i venticinque ed i quarant’anni, agitano i bastoni. Noi gli gridiamo di andare via, loro avanzano;
la gente comincia ad arrampicarsi su un motorino rosa:



un piede sul sellino, uno sulla sfera di ferro dei pali e su, sul tetto della camionetta. Altri, invece, dal punto esatto in cui ho scattato questa foto, si fanno leva su un vaso e passano attraverso lo spazio tra i due cellulari. Dall’altra, parte, per fortuna, i poliziotti porgono mani per aiutare le persone.
Qui si raggiunge l’apice della tensione: le persone su Via Cavour, senza volerlo, stanno impedendo ai neri di uscire dal vicolo. Così come ci sono stai spinti, ora non sanno come andarsene. E per un attimo non sanno che fare: per un attimo sembrano volerci montare sopra, poi capiscono che dopo di noi ci sono i poliziotti. Quindi tentano di risalire, ma un signore, nonostante l’età, li blocca. Supportato da altri manifestanti “normali”, ne placca uno e lo butta a terra. Il branco si avventa sull’uomo, alzando e facendo cadere i bastoni.
Io, da un paio di minuti, sto aiutando signore, genitori con bambini e ragazze in preda al panico ad scavalcare quel vaso, che per tutti, presi dall’agitazione, è una montagna. Quando vedo l’uomo venire picchiato, alzo lo sguardo verso un poliziotto, in piedi sul tetto della camionetta.
Gli grido di fare qualcosa, di spaccargli le gambe, di intervenire.
Il suo sguardo è vuoto, si gira guardando in basso verso i colleghi, in cerca di un appoggio.
Niente.
I neri si placano, svicolano dalle persone che vorrebbero bloccarli e si dileguano.
Nel mentre, però, scavalco io.
E il tizio che coordina il plotone fa fermare me, ed un altro ragazzo.


Ora, io in una situazione così non mi ci son mai trovato. Tutto quello che so, su quando ti fermano le guardie, si chiama caso Cucchi, Aldrovandi, Uva, e così via.
Non un quadro proprio rassicurante.
Quando poi, mentre un tizio in borghese ma con casco e manganello, ti tiene il braccio inchiodandoti di fatto in mezza ad una cinquantina di poliziotti in tenuta antisommossa, il quadro è proprio storto.
Diciamo solo che ho sperato di svenire alla prima manganellata.
Invece, dopo la solita scenata (“te stavi a menà..”, “t’ho visto che stavi a picchià..”), un controllo dello zaino e troppo tempo per controllare che non avevamo precedenti, devo dire che un lato umano, piccolo eh, l’ho visto.
Perché c’erano persone, sotto quei caschi. Persone che aspettavano ordini, erano pronti per sparare lacrimogeni, ad intervenire contro i neri. Ma quell’ordine, almeno per il tempo in cui sono stato vicino a loro, non è arrivato. Ci hanno fatto spostare (“se stannò a avvicinà, occhio!!”), si son preparati. Ma nessuno gli ha detto di avanzare un solo passo.

Per questo il poliziotto che strillava alla ragazza bestemmiava, ed ecco spiegato il perché dell’immobilità di quello in piedi sulla camionetta: aspettavano. Io ci ho visto che sarebbe intervenuti volentieri, ma niente. Il vuoto.

A me spiace solo per una festa rovinata, per un inizio di cui nemmeno abbiam visto la fine.
Non voglio mollare, non mi va. Ce ne stanno combinando di tutti i colori, ma noi dobbiamo essere daltonici.
Io ci credo ancora.

A breve, forse ma spero di no, altre considerazioni.