Mi piacerebbe dare per scontato che tutti voi abbiate già sentito (parlare) delle miniature, ma di scontato ormai ci sono solamente le tariffe per i cellulari ed i prodotti di prima necessità alla Coop. Quindi se proprio non ci siete ancora arrivati, vi do un assaggio:
Senza dilungarmi troppo, ieri Gabriele e Silvia (le minature, se ancora non si è capito) si sono esibiti al Celacanto, piccolo grande centro di quella che tutti chiamano cittadinanza attiva, ma che lì si fa per davvero. Creato dall’associazione “Coppula Tisa” anni fa, il Celacanto ha cominciato a distinguersi dalla massa di associazioni più o meno attive sul territorio salentino. Territorio che sembra essere stato scoperto solo negli ultimi cinque anni, ma che ha più storia e tradizioni degli Stati Uniti d’America. Una terra amata ed allo stesso tempo presa di mira da speculazioni, palazzinari, gente che senza scrupoli devasta interi terreni con i purtroppo noti “ecomostri”, dalla casa costruita sulla scogliera al bar che per essere tirato su distrugge costa e spiaggia.
Antesignani nel campo, i soci di Coppula Tisa nel non troppo lontano 2005 acquistarono un orribile fabbricato abusivo mai terminato che deturpava da fin troppo tempo un tratto bellissimo di costa. Dopo averlo acquistato, beh.. lo hanno distrutto a colpi di ruspe e picconi. Un’azione, una di quelle vere in cui ci sporcano le mani, la fronte, in cui ci ferisce e si marchia il posto col sangue. Da lì, questo tipo di azione è stata ispirazione per tantissime altri “compra per distruggere” nell’ambito dell’abusivismo edilizio.
Gente col cuore, quella di Coppula Tisa.
Cuore e palle, lasciatemelo dire.
Azioni. Reazioni. Emozioni.
Oltre a questo e ad altre tantissime iniziative (laboratori di riuso e riciclo, falegnameria, detersivi e prodotti per la casa fai da te), una delle più belle è forse quella dell’ospitalità solidale. Esempio: se sei un musicista, cantante, artista di strada e vuoi esibirti o solo trovare un posto dove dormire, tu ci metti la tua arte, e loro l’ospitalità tutta salentina. Una camera, il cibo, ma soprattutto la compagnia ed i sorrisi, che di questi tempi sono più rari di un assessore che ci capisca qualcosa del suo lavoro.
Ma può capitare che tu non sappia suonare altro che un citofono, e che la tua arte di strada al massimo sia tenere la porta aperta alle signore. Ecco, anche in questo caso sei sempre loro ospite e tutto quello che devi fare è dare una mano a sistemare il posto. Dal mettere un paio di chiodi al dipingere, dal cucinare e scartavetrare un muro.
“Ma io sto in vacanza!!”
E allora vai a spendere un sacco di soldi per un posto affollato e che è tenuto come la stanza delle torture di Guantanamo.
(ok mi sono dilungato)
Insomma, ieri sera il mondo miniature e quello Coppula Tisa sono entrati in collisione, una splendida collisione.
Mi hanno chiesto di introdurli prima del concerto. Visto che non parlavo davanti a così tanta gente da quando mi sono dovuto giustificare per un arresto per atti osceni in luogo pubblico, mi sono un po’ emozionato.
Quello che è uscito fuori è stato:
“hghghghgh miniature ghghghhg orgoglioso ghhghghg grazie ghhghggh miniature!!”
Quello che avrei voluto dire, invece, è questo:
“Gabriele e Silvia, qui dietro a me, sono le miniature. Li ho conosciuti quasi due anni fa mentre passeggiavoa Piazza Navona con un’amica per Roma. Non so se, in un altro momento della mia vita, mi sarei fermato. E non per togliere qualcosa a loro, anzi. A fine serata vi sentirete più ricchi di ora, ne sono sicuro. Ma sapete quando “è il momento”? Ecco, quello lo era. Quel giorno di Ottobre col sole, il sorriso e la bellezza di quella mia amica che non vedevo da troppo tempo, la piazza piena al punto giusto. Insomma, era il momento.
E dopo un’intervista, dopo averli fatti conoscere in giro grazie alla rivista per cui collaboro, grazie alla loro disponibilità artistica ma soprattutto umana eccoli qui. Dopo avergli rotto le scatole per tutto questo tempo, avergli scroccato pranzi, passaggi e cd, è con un piacere che non so nemmeno descrivere in questo momento che vi presento due bravissimi artisti, due geniali musicisti ma, ecchecavolo lasciatemelo dire, due amici.
Le miniature.”
Ecco, vale sicuramente meno ora che il concerto è finito tra applausi, sorrisi e tanta ottima musica.
Ma credo valga e varrà per sempre come introduzione a due persone straordinarie, e che mi aiuterà a ricordare la serata di ieri come una delle più belle della mia vita.
[questa bellissima foto è tutto merito e talento di Otty, di cui vi linko l’album della serata qui ed una altro breve quanto bellissimo omaggio ad Andrea, qui]
Sì, questo è un uomo.
Per un sacco di tempo io e lui ci siamo odiati. Picchiati, insultati, non ci parlavamo per giorni, e appena uno dei due si rivolgeva all’atro nel giro di cinque minuti si finiva con una rissa in cortile: calci, pugni, teste schiacciate contro le sbarre (quale ironia eh?) della finestra enorme della cucina e uno dei due che trascinava l’altro per i capelli.
Erano le elementari.
Poi, chissà come e perché, ti troverai a parlargli di me.. no scusate.. chissà come e perché è nata un’amicizia. Una di quelle che dopo vent’anni ti ritrovi ancora insieme, anche solo per una sigaretta.
In mezzo a quei venti anni, è successo davvero quello che può succedere in vent’anni: di tutto.
Scuole diverse, amicizie diverse, ma sempre quel filo che ti lega. Le passioni di uno contagiano l’altro, anche solo se per una sera dopo mesi, così tanti mesi che finiva per essere un anno e più. E proprio dopo il periodo più lungo in cui non ci si vedeva, quando mi ero trasferito a Lecce, ecco che inizia una quasi convivenza. Iniziano serate che diventano mattine, ore passate a bere e chiacchierare dove lavorava come ottimo cuoco, ho conosciuto degli ottimi pub e lui ha scoperto gli stand up comedian. E nonostante i nostri gusti musicali siano totalmente opposti -lui dj, produttore, amante della techno e di quelle che per me sono solo manopole, io che ascolto e basta, tutto tranne proprio la techno e “roba così”- siamo sempre riusciti a farci scoprire cose nuove che hanno influenzato le nostre playlist. Parliamoci chiaro, mi ha fatto conoscere i Bud Spencer Blues Explosion.. eccheccazzo.
E alla fine arriva la prova di maturità, quella lontananza forzata, quei mesi infiniti di attese e bestemmie, notte insonni e divani a metà. Poi ogni tanto una visita, all’inizio veloce il tempo di un abbraccio, poi piano piano i momenti diventano ore, sempre nella stessa stanza ma sempre con parole nuove, le solite cazzate e tante, grandi riflessioni.
Forse lui non lo sa ancora, perché codice maschile vuole che si tengano dentro le cose forti, ma da lui ho imparato tantissimo. Senza volerlo, sfogandosi, parlando e discutendo mi ha insegnato a prendere di petto le cose, mi ha fatto capire come reagire davanti a situazioni più grandi di te, lui che si è trovato di fronte ad una cosa enorme per chiunque.
E nonostante di momenti belli, in questi tre anni, ce ne sono comunque stati, la serata di Sabato chiude una parabola ascendente, e la chiude con quel sorriso che si è fatto strada a cazzotti nella tensione di una nuova prima volta, quel braccio alzato in aria, quella sigaretta spenta in bocca che può attendere prima di essere accesa, perché adesso entra la cassa.. ed è suono di una nuova rinascita.
Quel sorriso, quella felicità generata dall’angoscia di troppo tempo lontano dal mondo, queste cose sono l’esempio perfetto di come, davvero, si possa rinascere.
Micro pillola SalentinRomana musicale: stasera il mio primo concerto in assoluto col mio bel fratellino in quel di Leverano, a vedere (maddai?) i Bud Spencer Blues Explosion.
Pietre miliari, sia loro che io e Flavio.
Che ‘sti ragazzetti vanno presi da piccoli sennò finiscono a sentirsi Pitbull feat. stograncazzo.
E già che ci siamo, vi ricordate quando i Bud li ho intervistati?
Io si, ed ancora mi emoziono a pensarci.
“Abbonamento Sindaco” ti permette di non pagare la metro, tanto non ti serve.
Non avere la patente, ormai, sembra un sacrilegio.
Non averla a a quasi trent’anni, poi, è visto come un chiaro esempio di deficit dell’attenzione sociale.
Non averla a trent’anni ed abitare a Roma.. beh, quando lo dico faccio scappare più gente che se dicessi “ho la rabbia” o “ho votato Alemanno”, due cose che a spesso sembrano strettamente correlate, tra l’altro.
Lascio da parte i motivi personali che mi hanno portato (volente e nolente) a questa scelta, e passo subito a come questo può essere motivo di orgoglio, pregiudizio e parecchi ritardi ad appuntamenti. Vi racconterò come è la giornata di un romano a Roma sui mezzi pubblici, cercando anche di darvi qualche consiglio per quando deciderete, almeno per un giorno, di levare il culo dal sedile della vostra macchina.
Autista Romano, Saluto Romano.
Prima di tutto, prevedere.
Abitando in quella zona da acque internazionali, quel limbo tra Roma e Fiumicino che sarà per sempre comunque “fuori Roma”, sapere dove andare e a che ora è, come per tutti, fondamentale. Per me un po’ di più. Se devo andare al centro, so che ho due alternative: treno (che per raggiungere devo comunque prendere un autobus) o solo autobus.
Nel primo caso, scelta che prediligo e che prevede l’uso di entrambi i mezzi (e quindi il doppio dei problemi), devo prevedere l’auto che mi porterà alla stazione. E qui cominciano già le prima consultazioni all’oracolo di Delfi. E si, perché bisogna partire dal presupposto che per quanto tu possa consultare gli orari sul sito dell’Atac (che a volte sembrano avere quasi un senso) o già sia avvezzo agli orari giorno per giorno, devi considerare che l’Autista Romano, o che comunque opera su Roma, è una specie animale a sé. È talmente sensibile, l’Autista Romano, che il suo lavoro può essere condizionato da qualunque sfumatura ambientale e sociale: magari prima di partire dal capolinea, ha bisogno di riflettere sulla vita preparando il Fantacalcio sul suo iPad, o di stare al telefono con la moglie per essere aggiornato sugli ultimi risvolti (di interesse nazionale) della diatriba condominiale in corso. O magari vuole solo aspettare che il sole salga un altro po’ ché poi sulla Pisana sbatte proprio contro gli occhi.
Insomma, le variabili sono molte ma soprattutto (in modo tanto paradossale quanto lo è l’Autista stesso) costanti. Ed ogni giorno è una nuova avventura.
Dopo aver imparato a memoria modelli di camion, autocisterne e teste di cazzo al volante, salire sull’auto e perdere l’udito a causa del mix buche in strada e viti lente che permettono ad ogni singolo componente del mezzo di sbattere contro tutti gli altri creando così il nuovo singolo di Skrillex feat. Giovanni Allevi sotto ketamina, è sempre un piacere.
Arrivato alla stazione, parte la seconda serie di consultazioni all’oracolo, questa volta di Matrix. Qui entra in gioco infatti uno schema, un sistema per il quale il treno regionale che parte da Fiumicino Aeroporto e diretto principalmente ad Orte è sempre in ritardo.
Sempre.
Vuoi l’arrivo di un altro treno, vuoi l’ennesimo suicidio sui binari (e di questi tempi è più facile che qualcuno s’ammazzi piuttosto che piova), vuoi che gli orari probabilmente li ha preparati Topo Gigio mentre organizzava la campagna contro l’influenza A ed insegnava a Giacomo a nascondere la pistola, vuoi che magari quel giorno i pianeti sono allineati proprio male: il treno, anche se di soli due minuti, sarà in ritardo.
È così preciso, questo schema, che la simpatica signora di colore che insegnava a Neo l’arte della ribellione ha smesso di fumare e si è data alla vendita di gioielli fatti in casa.
Cose che capitano.
La fase successiva al prevedere (detta anche “di speranza”), è quella del sopportare.
Prima di tutto sopportare il fatto che il biglietto che avete timbrato prima di salire, ligi al vostro dovere di sentirvi migliori, passerà sicuramente per le mani di qualcuno che ci farà un filtro, ma non per quelle di un controllore. L’ultima volta che ho visto un controllore, compravo ancora l’abbonamento studenti.
Poi dovete sopportare il fatto che vi sembrerà di essere nella foresta Vietnamita ad Agosto quando è Gennaio ed un pezzetto di ghiaccio tritato in un Mojito quando in realtà è piena estate.
Sopportate infine il fatto di tenervi dall’avere qualunque stimolo fisiologico. Dio non voglia che la vostra vescica o il vostro sfintere decidano di attivarsi, perché i bagni di un treno regionale sono puliti come il set di un fil porno a fine riprese. Da quando sono andato una volta in uno di quei bagni mi illumino al buio e depongo uova di coccodrillo.
Insomma, per sopravvivere ad un viaggio in treno bisogna: risparmiare un euro di biglietto, vestirsi a cipolla ed espletare tutti i bisogni prima di iniziare il viaggio. Più tutta una serie di altri accorgimenti che solo l’esperienza, l’istinto ed un buon vaccino possono permettervi di sopravvivere per poterlo raccontare.
Ghostbusters.
Poi c’è la fase dell’adattamento.
Ogni giorno è diverso, e principalmente a causa della non puntualità. Perché degli scioperi non parlo, quella è la normalità, e lasciamo stare le condizioni climatiche e gli incendi.
Non puntualità che causa coincidenze mancate, imprevisti che portano a ritardi e sovraffollamenti. A volte, sul treno come sulla metro, ho visto così tanta gente che credevo di essere sul set di un film sulle deportazioni: gente innocente su mezzi stretti e maleodoranti, destinata a luoghi di tortura e supplizio, trasportata da gente burbera e in divisa.
Cambiare metro a Termini alle nove di mattina è una guerra in cui i soldati sono stati mandati senza avviso, armati di iPod e borse, con le facce stanche e spaventate. Ho avuto la fortuna di incontrare alcuni dei sopravvissuti ai cambi metro la mattina, ed in alcuni di loro ho potuto riscontrare gli stessi sintomi dello stress post traumatico dei reduci dei conflitti. Gente che ha assistito a stragi di così enormi proporzioni che quelle italiane in confronto sono come i film gialli del Sabato sera di Rai2 anni fa quando ancora non esistevano quelle del Sabato sera.
L’adattamento è qualcosa che non si spiega, non si tramanda. È quello che ci ha restituito pochi eroi e troppi cadaveri. Senza spirito d’iniziativa di fronte agli imprevisti, senza una visione chiara dell’ambiente che ci circonda, senza un piano B, una giornata sui mezzi pubblici a Roma può essere un gioco al massacro. Probabilmente porrebbe fine alla carriera di Bear Grylls, se decidesse di farci una puntata.
C’è una piccola fase intermedia, la più breve ma sicuramente la più gloriosa: l’arrivo. Uscire dalle scale della metro, scendere sulla banchina della stazione o saltare lo scalino dell’autobus è un momento bello. Sò soddisfazioni.
Sapere di essere arrivato, o anche di dover camminare un po’ ma di non dover più prendere un mezzo pubblico, è una sensazione di vittoria, come l’odore del Napalm.
Poi però arriva la fase finale, quella conclusiva e che spazza via ogni gloria che potete aver conquistato durante il giorno, il momento che chiude i giochi e vi fa tornare sulla terra: il ritorno a casa.
Tornare da dove siete arrivati con tanta fatica è come tagliarvi via un pezzetto del vostro corpo.
I mezzi sono più sporchi e puzzolenti del solito, spesso vuoti da far paura a Breivik, altre volte più pieni della mattina. Le stazioni sono angoli dimenticati da dio, gli autisti automi indifferenti alla razza umana, le fermate dell’autobus diventati circoli per i raduni della micro criminalità.
Non fai più caso ad orari ed impegni, vuoi solo girare le chiavi nella toppa e rimanere fermo da qualche parte, senza pannelli che sbattono, vecchi che strepitano, ragazzini idioti e rumorosi, esemplari di Autista Romano che emettono suoni e agitano gesti.
Per questo, va bene tutto, viva chi si muove per le città in modo alternativo, pollice su per chi crede #SalvareCiclisti ma.. pensare pure #SalvarePendolari?
Quando io e Emiliano (da qui in poi Paja) arriviamo davanti l’Orion siamo in anticipo di cinque minuti. Mai successo, e credo che non succederà mai più, nemmeno per i nostri matrimoni. Se mai ci saranno.
Appena parcheggiamo, esce un sole che non si vedeva da giorni e giorni. È un segno.
Non nego di essere nervoso. E pure tanto.
Aspetto il concerto dei Bud Spencer Blues Explosion da almeno due mesi, da quando sotto la metro di Ostiense l’occhio si è lanciato sul manifesto dell’Orion.
Ma più che altro, lo aspetto da quando così, per scherzo ma nemmeno poi tanto, gli mandai un messaggio su Facebook.
“Ciao, sono un blogger che non ha nulla se non un sito personale. Sono un vostro fan e vorrei intervistarvi, anzi chiacchierare. Non pensate che sia scemo!!”
In sintesi, questo è stato il messaggio a cui non mi aspettavo risposta.
Ma non per loro cattiveria, anzi: la loro tranquillità e voglia di stare in mezzo a chi li ascolta è palese ad ogni live. E due pischelli che in tre anni sono stati due volte in America per tour e blues contest, che hanno girato l’Italia più loro che Gigi Bersani in campagna elettorale (riscuotendo per altro molto, ma molto più successo), e che fanno un pieno di gente ogni volta.. beh, io forse me la tirerei un po’ di più.
E invece passano pochi giorni che:
“Ciao Jacopo.. perché no? Cesare.”
Morto.
Da lì è iniziata un’attesa spasmodica, in cui ogni momento era buono per tirare fuori un taccuino e buttare giù domande, osservazioni, strappare un ricordo di un’intervista trovata sul Tubo per tirarne fuori qualcosa.
Ho ascoltato mille e mille volte tutti i loro album (di nuovo), ho cercato filmati di live sul palco ed in studio, rimanendo incredulo nel vederli improvvisare in mezzo ad un sentiero accanto ad un bosco, con Adriano, la sua chitarra acustica e l’inseparabile slide e Cesare seduto a terra con solo il rullante tra le gambe, suonato a mani nude, o vederli giovanissimi tenere lezioni di Blues alla Sapienza.
Insomma, ho scoperto che ‘sti due ragazzacci oltre ad essere parecchio bravi, hanno la necessità di suonare. Come, dove e quando possibile: l’importante è suonare.
Mi sono preparato come per un esame, come se le domande dovessero farle loro a me, e il non saper rispondere potesse diventare un divieto a vita di andare ai loro concerti. Non potevo permettermelo.
Il problema è che più passavano i giorni, più erano le domande che cancellavo: troppo semplici, già sentite. Mi dicevo “Con loro ci vorrei parlare, non interrogarli”.
Poi, l’illuminazione: il 21 sarebbe stato, oltre al loro concerto, il Natale di Roma e la giornata mondiale del negozio di dischi. Voi direte, va bene per il secondo, l’input è buono e coerente. Ma la prima? Cioè, bello il fatto che il “compleanno” di Roma e via dicendo ma.. cazzo c’entra?
Vedrete.
Ma arriviamo al “giorno”. Scesi dal Maggiolone del Paja (che farà poi da sfondo all’intervista di quei bravissimi ragazzi di “Rome Live Music“), aspettiamo qualche minuto fuori. Il sole in faccia è solo una scusa che trovo per aspettare quel respiro profondo che mi serve per prendere borsa, macchinetta fotografica ed una buona dose di coraggio.
È il suono che sento mentre ci avviciniamo a farmi capire che andrà tutto ok. Lo sbalzo tra la luce del sole e il buio del locale mi lascia cieco per un po’, ma non sordo. Ecco lì Cesare a pestare la batteria come fosse giorno di vendemmia, e il vino che ne esce è calma per i miei nervi: siamo qui, finalmente ci siamo, non si scappa. Anche perché tutto voglio fare tranne scappare.
Momenti rari. E no, non sono bravo a fare le foto.
Quella che segue è un’ora e mezza di sound check, prima con Cesare, poi con Adriano e poi insieme, giusto per provare perché chi li conosce sa che la loro è solo una bozza di scaletta.. il resto viene da sé.
È bello vederli in un momento del genere, ma soprattutto è curioso vedere il contrasto tra il metodo chirurgico che applicano nel sistemare e provare gli strumenti, e la furia devastante che scaricano durante lo show.
Sembrano dei costruttori di bellissimi castelli di sabbia che fanno poi esplodere con i fuochi d’artificio.
Il bello distrutto con il superbo.
E alla fine anche questo momento finisce, e odio quando aspetti una cosa che sembra non arrivare mai e poi quando arriva nemmeno te ne accorgi. Tipo il weekend, o un orgasmo. E, scusate la malizia, ma oggi voglio godermelo e fumarmici pure una sigaretta dopo, checcazzo. Quindi occhi aperti e lucido.. anche se solo a metà.
Eccoli che escono dai camerini, e dopo qualche chiacchiera si inizia con i turni delle interviste.Ma c’è un problema: avendo parlato direttamente con Cesare e non con l’ufficio stampa, non sono in lista per le interviste. L’attimo di panico è spazzato via da quel santo di Daniele, nel team tecnico dei Bud oltre ad essere quello che crea e fa rispettare tutti gli ordini di interviste, set e così via. Dopo una chiacchierata, riusciamo a farci mettere in coda (grazie ancora davvero). Conosciamo le ragazze che sono prima di noi per parlare con loro, ci conosciamo un po’ e il fatto che io non scriva per nessuno se non per me le spiazza un po’.
Se ci penso, spiazza ancora anche me.
Adriano e Cesare ogni tanto riemergono da un’intervista, un tramezzino e gli ultimi aggiornamenti sulla situazione palco e salutano tutti, col sorriso e scusandosi sempre per l’attesa.
“Starei qui anche con la III Guerra Mondiale in corso”, e per fortuna lo penso solamente.
E alla fine eccoci lì, in fila coi Bud verso il camerino, che quasi mi viene da ridere.
Ci sistemiamo, io su una sedia e loro sul divano di fronte con il Paja in mezzo.
Ci siamo: i miei emisferi cerebrali si incrociano al posto delle dita perché non mi sembra carino farmi vedere così scaramantico.
Ho Cesare a sinistra, col cappellino e l’atteggiamento di chi vuole chiacchierare. Adriano, la sua chitarra in mano ed il suo sguardo tranquillo completano l’opera e decido di partire.
Accendo il registratore e..
[dopo le presentazioni, iniziano le domande]
J – Allora, volevo farvi un paio di domande allacciandomi al fatto che oggi è il Natale di Roma ed il Record Store Day. Riguardo a Roma, ho visto una vostra intervista in cui parlavate dell’idea di collaborare con il “Colle der Fomento”. Mi interessava sapere come è nata questa idea.
Adriano – Innanzitutto perché il “Colle der Fomento” è un gruppo vero, un gruppo semplice. E allo stesso tempo è un gruppo che dice le cose come stanno e senza sorrisi, e secondo me questa è l’attitudine giusta. E poi siamo orgogliosi che questa sia un’attitudine che esiste a Roma! Poi conservano questo rap degli anni ’90, vecchia scuola, che magari ha meno virtuosismi ma più concetti.. e questa è una cosa bella. Per cui io, da fan, quand’ero ragazzino che me li sentivo, ho sempre pensato che sarebbe stato fico fare un pezzo con loro, però al momento rimane solo un ‘idea.
J – Beh certo, infatti mi interessava il perché l’idea di collaborare insieme. Tu quindi li ascoltavi spesso?
A: Si si, avoja.
J – Per quanto riguarda invece la Giornata del Negozio di Dischi, e l’importanza del disco fisico in sé. Io cerco sempre di comprare il cd, [ruffiano mode on] anche i vostri li ho comprati su disco fisico.. compreso il vinile che se dopo magari me lo autografate.. [ruffiano mode off], voi che rapporto con il disco?
Cesare – Beh non avevo una lira, quindi fondamentalmente scaricavo perché di musica ne avevo bisogno, quindi c’è poco da fare: o te la scarichi, o non la senti. Visto che la musica è una necessità per me, per lui (Adriano, ndJ), per tutti, non solo per i musicisti, appena ho preso qualche soldo non solo con i Bud ma anche con altri lavori, la prima cosa che ho fatto è stato ricomprare i dischi che avevo scaricato, che già avevo sotto forma di mp3, ma di cui volevo riassaporarne il gusto avendo il disco.
Perché non è una mania dire che il suono è differente, è proprio così ed è un’altra cosa ascoltare un disco vero, come è bello ad esempio ascoltare determinati dischi in vinile piuttosto che su CD. Non necessariamente dischi vecchi, ma anche dischi che escono adesso che sono registrati su nastro e non digitalmente, forse rendono anche di più in vinile. Insomma è bello, è una cosa completamente diversa.
Secondo me c’è un calo ora, nello scaricare: sai all’inizio, quando una cosa è gratis, tutti la vogliono. Conoscevo gente che non si era mai cagata la musica in generale però poi aveva le discografie di tutti, mai sentite. Solo perché lo potevano fare gratis. Adesso è un po’ passato quel periodo, ora quando esce il disco ascolto l’anteprima su iTunes e poi li vado a comprare.
E poi il disco è proprio bello, con il libretto..
A – Beh anche il negozio di musica è come una biblioteca: andare lì a cercarti i dischi, a guardarti tutte le copertine.. sono necessità che comunque chi fa musica deve soddisfare. Per cui è un bene che ci sia questa festa.
J – Grandi.. Un’ultima cosa: come primo articolo di questo blog ho parlato degli artisti di strada, visto che mi sono trovato in mezzo ad una loro protesta visto che in quei giorni veniva discussa un’ordinanza, che è passata, e che limita al massimo la possibilità a questi ragazzi di esibirsi per strada..
C – Maddai..
J – Già. Adesso quindi c’è tutta una burocrazia di prenotazioni, il rischio del sequestro di strumenti e di multe.. insomma a classica cosa all’Italiana. E per questa cosa mi è venuta in mente una domanda: voi avete mai suonato per strada?
Mi spiego: mettervi lì voi come Bud, o individualmente, magari agli inizi.. non per forza per i soldi, ma anche solo per il gusto di mettervi lì e suonare, non so, a Trastevere o comunque a Roma in generale.
A – Guarda in realtà no, però certo se c’era una chitarra, una strimpellata sempre a titolo personale si faceva. Per divertimento insomma, senza farlo con l’intenzione di aggregare delle persone.
C – Si anch’io l’ho fatto sempre con gli amici.. [parlando con Adriano] Però con i Bud ti ricordi avevamo pensato di farlo, perché facciamo anche dei set acustici di solito in radio, sempre un po’ strani per le cose che usiamo.. e quindi sarebbe perfetto come set in strada.
J – Si, ho visto molti vostri video in cui suonate con strumenti alternativi.
C – Si, magari con la chitarra acustica e l’ampli a pile, che lo porti ovunque. Sarebbe fica come cosa.. e poi secondo me si alzano pure bei soldi!!
J – Beh si, so di gente che facendo giocoleria al semaforo qualche soldo lo tira fuori.
C – Sicuramente, anche se in Italia molto di meno. Ad esempio a Londra c’è un’organizzazione mostruosa, vai in strada e ci sono praticamente le spine della corrente. C’è molta più dignità. Il fatto di suonare per strada viene visto come una cosa….
A – ‘na poracciata!!
[ci sono un paio di minuti d’interruzione dovuti alle ultime dritte del tecnico a Cesare, con un sacco di risate alla fine. Il bello della diretta!!]
J – Si, per questo vi ho fatto la domanda perché sembra che chiedo se siete andati a fare l’elemosina, invece anche per me è una concezione diversa quella di andare per strada.
C – Ma è normale. Cioè, la musica è San Siro, è Sanremo, X-Factor.. no X-Factor no.. però alla fine la musica è tutto: anche uno che sta a casa e suona la chitarra da solo. C’è chi decide di studiarla tutta la vita e chi invece, non so, ha un’attitudine più punk.. ma non è che uno è più stronzo dell’altro. È un mezzo di comunicazione, ognuno fa quello che vuole.
J – Ok.. beh ragazzi, grazie. Erano domande molto random però.. questo volevo chiedervi.
C – Mi dispiace che avete aspettato un sacco di tempo, ma abbiamo avuto problemi tecnici..
Paja [ve l’eravate dimenticato eh?] – Anzi, c’ha fatto pure piacere!!
J – Capirai, non ce pareva vero. Ci siamo messi lì a sentirvi tutto il tempo. Ragazzi grazie davvero, adesso me faccio firmà il vinile però!!
[gli ultimi due minuti sono chiacchiere sparse, un po’ di info sul live registrato allo Studio Nero, Adriano che strimpella la sua chitarra acustica e ci chiede di dove siamo, oltre a preoccuparsi se avevo preso o meno la maglietta allo studio. E poi, si, ci ha detto “che miti!!”. Tiè.]
Eccoli qui, i Bud. Esattamente come me li aspettavo.
Anzi, fatemelo dire: meglio di come me li sarei aspettati.
Adriano e Cesare sono due ragazzi che suonano perché gli piace suonare. Gli piace sudare sui loro strumenti, sulla loro musica. Amano la musica in generale, e tutto quello che ci gira intorno. Per loro suonare per delle persone è un piacere, un onore.. e si vede.
Se penso che hanno accettato d parlare con me, che alla fine sono uno che i loro concerti e i loro album li ha sempre sentiti da fan, e mai da “operatore del campo”, ancora mi fa ridere. E rido contento, perché sapere che al mondo ci sono persone come loro, persone che solitamente pensi estranee e lontane da te e che invece ti accolgono nel loro camerino per parlare, mi riempie il cuore.
E non smetterò di ringraziarli non solo per il tempo che mi hanno dedicato, ma soprattutto perché quando hanno accettato di farlo ho deciso di aprire questo blog.
Quindi non fosse per loro (e per Veronica per la spinta finale e decisiva), non starei qui a prendere coraggio e a togliermi delle belle soddisfazioni.
Come dite?
Ah, com’è andato il concerto?
C’è bisogno davvero che vi dica com’è andato un concerto dei Bud Spencer Blues Explosion?
Ok, ve lo dico ma a modo mio.
Il fuoco nelle vene.
È stato sudato, urlato, fotografato, potente e graffiante. C’è stata “Giocattoli”, ormai una delle mie preferite in assoluto. Ci sono stati gli sguardi d’intesa fra di loro, i sorrisi di Adriano quando gridavamo “Dajeeeeee!!!!!!!!!!” e ci sono stati i colpi di quel metronomo umano che è Cesare. C’è stata “Dark was the night, cold was the ground”, che rimarrà per sempre la MIA cover preferita dei Bud. Mia e solo mia. Ci sono stati gli abbracci con mio cugino che non vedevo da tempo e che anche dopo anni riesco sempre a far finire sotto a gran bei gruppi. C’erano gli occhi chiusi del Paja che se la viaggiava. C’erano alcune delle persone a cui voglio più bene. C’è stata l’euforia per aver fatto partire praticamente tutti gli applausi. C’è stata quella tizia che mi voleva salutare ma che proprio non conoscevo e che alla fine ho dovuto scansare.
Ma soprattutto c’era la mia personalissima voglia di sentirli, di nuovo e finalmente. La mia voglia di poter dire di nuovo “io c’ero”, di fregarmene se ero il pazzo solitario che agitava da solo le braccia in aria imitando i movimenti di Adriano prima e quelli di Cesare poi. La musica, quando piace, ti esime dal dare e ricevere giudizi.
E sarà forse un modo stupido e retorico per chiudere, ma la musica fatta bene è qualcosa che unisce le persone, e Sabato sera si era formato un bel gruppo di amici sconosciuti.
La cosa importante è di non smettere mai di interrogarsi. La curiosità esiste per ragioni proprie. Non si può fare a meno di provare riverenza quando si osservano i misteri dell'eternità, della vita, la meravigliosa struttura della realtà. Basta cercare ogni giorno di capire un po' il mistero. Non perdere mai una sacra curiosità. ( Albert Einstein )