Improvvisate #5 – I Giochi Son Finiti

Mi sei stata accanto, questo so.
Intere nottate passate insieme a ridere, gridare, imprecare e gioire.
Poi magari per giorni, a volte mesi, ci si perdeva di vista: io ero troppo impegnato con la mia vita, tu sempre chiusa in casa davanti alla tv.
Ma quando ci si rivedeva, mi bastava un dito per accenderti e scaldarti. E tu non dicevi mai nulla, stavi lì e ti facevi dire e fare di tutto.
Insieme abbiamo visto film (pure quelli zozzi), serie tv, foto, abbiamo ascoltato musica ma soprattutto giocato, grazie al tuo dono innato di farmi tornare bambino tutte le volte.
E le tue forme. Cazzo, le tue forme: morbide, piene, con quel tuo vestito sempre nero ma portato con eleganza e disinvoltura, che quasi sembravi una sposa in negativo.
Mentre poi, in tutti questi anni, mi divertivo con altre donne, tu mi hai sempre aspettato, senza mai farmi pesare i miei difetti e le mie mancanze.
Sei stata un’amica, una compagna, un’amante, tutto quello che ho sempre cercato in qualcuno.

Ora, dopo quattro anni, te ne sei andata.
È stato un attimo: mi son girato, e sei finita nelle braccia di un altro.
Molto più giovane di me, tra l’altro.
Ma ti capisco, ti capisco davvero.
E penso, con tutto il cuore, che te lo meriti.

Addio amica mia, ti vorrò per sempre bene.

Nemmeno quel bambino ti tratterà bene come ti ho fatto io.
Nemmeno quel bambino ti tratterà bene come ti ho fatto io.

Breaking Bad – E adesso?

È difficile dare un giudizio ad una serie come Breaking Bad. È difficile essere oggettivi, e lo è ancora di più etichettare un prodotto che, trasversalmente, ha toccato tutti i punti più alti di quella cosa chiamato Cinema.
Nessuno me lo ha chiesto, sia chiaro.
Ma mi accorgo solo ora, senza avere più il mio chimico preferito accanto, che in questi anni non ho mai scritto di Breaking Bad. E allora perché non farlo ora, per una sola volta?

Non sto nemmeno qui a dirvi che da adesso in poi ci saranno più spoiler che portafortuna a casa Letta.
Zio e nipote.

Sono tanti quei punti di cui parlavo prima e che Gilligan e compagnia hanno raggiunto, non senza fatica.
Innanzitutto quello (scontato?) della sceneggiatura.
Il livello di scrittura è stato così sublime che J.J. Abrams ha pisciato bile per cinque anni. Gilligan ha preso IL personaggio e lo ha fatto partire da A per farlo arrivare alla Z, passando per ogni altra singola lettera dell’alfabeto. Cambogiano.
Premetto che io sono un Lostiano d.o.c. e che per me fino a ieri sera il miglior finale mai visto era proprio quello dei dispersi più famosi al mondo. Detto questo, e senza fare ammenda, capisco solo ora quanto può essere molto più difficile portare avanti un qualcosa di pianificato rispetto ad un prodotto fatto, per mezza serie, improvvisando. Se devi creare in corso d’opera, forse l’effetto sarà più spettacolare ma privo di un colpo vero e proprio. Intendo un pugno in faccia come un conato, ma comunque qualcosa che ti rimane attaccato addosso come se fosse successo davvero.

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“We are a family”.

Breaking Bad ha fatto proprio questo. Ha lasciato dopo ogni puntata un dubbio morale, etico. Ogni volta ci siamo ritrovati a dover fare i conti con le scelte di Walt, sin dall’inizio, sin dal non volersi curare per non finire come un un morto vivente, ancora prima dal trovarci d’accordo o meno con l’uccidere Krazy8, e persino prima con il mettersi a cucinare metanfetamina. Per cinque anni, quel capolavoro di attore che è Bryan Cranston ci ha messo lì, vicino a lui, ed ha diviso con noi il peso di ogni singola scelta. Fino all’ultimo, fino a non farcela più, fino a distogliere lo sguardo dal suo volto. Ma anche fino ad accennare quel sorriso insieme a lui e Jesse, quel “grazie a dio è un addio” negli occhi di Aaron Paul e poi nelle sue lacrime mentre ride ed urla e guarda lo specchietto e poi urla ancora di più. Non ci lasciano il dubbio su cosa farà: magari andrà davvero davvero in Alaska a costruire scatole di legno, ma sarà comunque lontano e forse, finalmente, felice.
Sappiamo con certezza che Walt se ne va più leggero, dopo aver tolto definitivamente la maschera, ammettendo che gli piaceva eccome, fare l’imperatore della droga. Ma allo stesso tempo liberando, davvero e per sempre, lo stesso Jesse.
E non ci lasciano nessun dubbio sugli altri: Skyler, insieme a Flynn ed Holly, passerà una vita misera, che probabilmente neanche i soldi che arriveranno meno di un anno dopo riusciranno a toglierle il peso di tante, troppe macchie del suo passato.
Marie, probabilmente, si suiciderà. O comincerà a fumare meth.
Saul, se tutto va davvero bene, lo vedremo nel suo ormai confermato spin-off, antecedente a tutto quello che conosciamo. Speriamo bene.

Il pregio vero della serie, in pratica, è stata la costanza. La cura e la precisione di Vince Gilligan nel preparare, pezzo dopo pezzo, un gigantesco domino. L’insieme perfetto di un sogno americano che si spezza, la crisi di mezza età tipica degli uomini, il rapporto tra parenti, lo scontro generazionale. Ha trovato gli attori giusti, si è circondato di gente fidata ed affidabile, ed ha dato il colpo alla prima tessera.
Aveva preparato tutto con cura, nei minimi dettagli: si dice che in una passata stagione abbia impiegato ore nello scegliere la tonalità di grigio di una maglietta da far indossare a Dean Norris. Non il colore, attenzione. La tonalitàCi ha fatto capire sempre tutto, ma sempre due minuti dopo: è il cosiddetto foreshadowing, e cioè l’abilità di un autore (letterario, musicale, o come in questo caso televis.. pardon, cinematografico) di inserire alcuni indizi su cosa succederà nel corso della trama. E la maggior parte delle volte non sono così evidenti.

Zac.
Zac.

La puntata “Box Cutter“, ad esempio, si apre con l’inquadratura di un taglierino, che il povero Gale usa per aprire le scatole degli strumenti del laboratorio. Lo stesso taglierino, viene usata da Gus per sgozzare come un capretto Victor. Anche in “Face Off“, mentre Gus si trova nell’ascensore per porre fine alla scampanellante fine di Hector Salamanca, l’inquadratura si sofferma sulla sua mano mentre, come un tic, si tocca  le punte di pollice e medio mentre si sente l’insistente “ding ding” dell’ascensore. Proprio come, poco dopo, lo storpio kamikaze suonerà per far esplodere la bomba.

(da notare che anche già solo i titoli, sono indizi)

Persino il comparto costumi ha contribuito in modo enorme alla riuscita della serie: partendo da tutte le sfumature possibili di viola di Marie, ai primi arancioni di Hank che si trasformano in colori più cupi man mano che il suo personaggio diventa sempre più consapevole dello tsunami di merda che gli si sta per abbattere addosso.

Se pensate che io perda tempo, guardate qui.
Se pensate che io perda tempo, guardate qui.

Ovviamente, c’è Walt. Dai colori pastello, così neutri da farlo sparire nella sua iniziale inutilità, arrivando al nero di Heisenberg, un nero più integrale possibile, con cappello ed occhiali. Fino a tornare ai colori fermi una volta uscito dal giro, per lasciarsi poi morire con l’identico dress code della prima puntata, quello prima di trovarsi in mutande nel deserto.

La musica. Ah, la musica di Breking Bad. È da ieri sera che ascolto la playlist su Spotify, e credo che mai nessuna serie abbia mai avuto una migliore scelta di brani. La migliore, in assoluto.
Se pensando a Lost mi verrà in mente la sigla, e le due canzoni top che tutti conosciamo, pensando a BB penso a mille momenti, mille singole canzoni magari anche solo accennate che hanno accompagnato un momento, solitamente non parlato. Inutile dire che questo rimarrà probabilmente il miglior abbinamento canzone/scena finale della storia del mondo tutto.

Per il resto, non so che altro dire se non che sono anche queste stronzate a rendermi felice di essere nato in questi anni. Già le soddisfazioni son poche, almeno quelle virtuali.

Inutile dire che tutto questa manfrina non ha uno scopo, forse nemmeno un senso. Spero di non avervi annoiato.
Ma, anche solo per una volta, volevo dare il mio omaggio a quella che rimarrà per molto tempo, forse per sempre, la migliore serie tv che sia mai stata ideata, scritta ed interpretata.

"Guess I got what I deserved".
“Guess I got what I deserved”.

 

Un solo appunto: ma Huell?

Meanwhile..
Meanwhile..

Improvvisate #2 – Come Tifare Ancora Per Lance Armstrong

(cose mal digerite ed appuntate al momento che copincollo prima che finiscano sotto al sedile di “Wristcutters”  detto anche “di cosa stavamo parlando?”)

Chi abita a Roma sa di cosa parliamo quando sgraniamo gli occhi davanti ai “cambiamenti” da campagna elettorale. Come dicevo qualche tempo fa, la ventata di aria nuovamente vecchia penetra nelle crepe istituzionali della città, riempie gli ignoranti polmoni della gente ed arriva al cervello facendoti credere che sia tutto vero. Una sorta di gigantesca allucinazione collettiva che ti fa vedere operai che operano, vigili che vigilano e autobus che autobussano.
Cose reali, ma che poi spariscono regolarmente alla conclusione delle elezioni.

Ma siamo nel 2013, esiste un mondo parallelo fatto di reti wifi e smartphone grazie al quale veniamo a sapere che le stampanti 3D sono in grado di riprodurre un rene
e che Gianni Alemanno ha un account YouTube.
Lo scopri perché ti tocca vederlo in tuta nera mentre va a caccia di mignotte sulla sua moto, perché a lato del video i primi consigliati sono Alemanno tra la gente, Alemanno spazzino,Alemanno a un comizio, Alemanno che respira, Alemanno che guarda. Sembrano le serie di libri per bambini dove l’orso sfigato diventa un eroe all’ultima pagina.

Oggi, però, si è raggiunto il climax, il colpo di scena finale che tutto crea e tutto distrugge: papà Berlusconi raccomanda il figlio tutto speciale Alemanno. Un video che non puoi esimerti dall’ammirare, slogando le tue mascelle in un’espressione tra l’incredulo ed il santiddio.

Lo zar compare seduto nel salotto di una casa scelta ed arredata probabilmente dallo scenografo dello spot con Alvaro Vitali per MAS: tessuti dorati, quadro con dipinto un qualche monumento con particolare dorato, lampada di mia nonna con finiture dorate, protagonista con faccia d’orata.

Più o meno così.
Più o meno così.

In rigoroso completo con spilla tricolore, papà Silvio sembra il genitore chiamato dal preside perché non sanno se bocciare o meno il figlio. Un padre farebbe di tutto, pur di far passare l’anno (cinque, in questo caso), e quindi di getta nel classico pippone pidiellino con introduzione, cose cattive sui comunisti, cose buone sul figlio.
Inizialmente esorta tutti a votare (#vincechivota), sottolinea che il sindaco è di tutti i romani come se questa cosa non fosse mai stata già detta in ogni occasione al mondo per qualunque tipo di ruolo, e comincia con il pippone contro Marino (solo scrivendo il nome, gli ho già fatto più campagna elettorale di quanta ne ha fatta per sé stesso).
Nell’ordine, papà tentacolo lungo ci dice di non affidarci al vivisezionista seriale perché:

– “Marino non è di Roma“.
Vero, è di Genova. Così come anche Alemanno non è di Roma, bensì di Bari;

– “Marino non conosce la città”.
Ora, non so come fare le pulci in fatto di toponomastica urbana a Ignazio, però ieri al confronto Sky a sbagliato un re su sette, mentre er sindeco sui nomi dei Colli ha preferito glissare. Giudicate voi, io lo chiamo attacco di “mecacosotto”;

– “Marino non ne conosce vita e problemi”.
Sarà, ma di certo sarà a conoscenza del fatto che la vita rasenta quella di gente sotto coprifuoco, che ha perso il senso della realtà e cammina coi paraocchi, ed i problemi sono quelli di una città dell’est Europa di vent’anni fa, con servizi inesistenti e criminalità a mille.

Poi passa al figliol prodigo, elogiando la sua conoscenza della città (“di Roma conosce tutto”); dice che “ha lavorato bene per cinque anni”, anche se penso volesse dire “ha piazzato gente a lavorare per bene”; sa cosa bisogna fare per migliorare la nostra vita e quella della nostra città, e questa sembra una frase che un maniaco direbbe alla sua vittima in un filmaccio di serie ics: “so io cosa è bene per te piccola, so cosa ti serve. Quello che ti serve è essere sodomizzata mentre ti tengo la testa nel cesso tappandoti il naso con un morsetto da batteria”. Diciamo che mi è suonato così.

Infine ci raccomanda di andare-a-votare, e di scegliere la “competenza, l’esperienza e la serietà di Gianni Alemanno, sindaco della nostra capitale”.

Un papà in piena forma, tre quarti di minuto splendidi, perfetta sintesi della propaganda liberticida cui ormai siamo abituati.

Dopo anni, possiamo capire da soli chi e chi non, giudicando in base a fatti reali, dalla lettura di una delibera sbagliata ad una passeggiata per Roma. Perché basta fare due passi per capire che troppe cose non vanno.

Io Marino il vivisezionista seriale non l’ho votato al primo turno, avevo ben altro per la matita.
Ora è un passaggio obbligato, ed agire al contrario sarebbe come tifare ancora per Lance Armstrong.

Concerti

In fila

Sono qui fuori. Da sei ore sei. Sono arrivato alle due, stanotte. Sono uscito un po’ con i miei amici, ma quasi subito mi son mosso per venire qui, non potevo rischiare. ‘sti cazzi dei pub, delle sigarette, delle chiacchiere inutili, degli sguardi ai culi delle pischelle. Io qui, devo stare.

Insieme a me c’è un sacco di gente, ma tanta. Quando sono arrivato c’era già la fila, e nemmeno poca: una coppia di ragazzi, all’incirca della mia età, avevano portato sedie smontabili di Ikea e delle coperte che credo usino i pompieri, quelle tutte argentate iper isolanti. Più avanti un piccolo gruppo di signore sulla cinquantina chiocciano su quanto freddo faccia, le gambe gonfie e del perché tutta questa gente sia qui anziché a casa, senza accorgersi – o facendo finta di – che qui in mezzo ci sono pure loro e che chiunque, qui, potrebbe fargli la stessa domanda. Proprio dietro a me c’è un ragazzino, avrà quindici anni al massimo, con il suo NorthFace stretto e imbottito, i suoi occhiali da nerd con le lenti finte ed un tablet in mano. Legge le ultime notizie su questo posto, cerca di capire se davvero stanno per aprire i cancelli oppure rimanderanno ancora un po’. So che sta controllando queste cose perché quello dietro di lui non fa altro che affacciarsi dalle spalle del ragazzo per buttare giù un occhio, e quindi il ragazzo lo dice a voce alta, forse per evitare quell’alito caldo e sconosciuto nell’orecchio.

Io gli avrei spaccato direttamente la faccia.

Cosa che a quanto pare succede più avanti: dai movimenti irregolari delle persone più in là e dalle grida, è partita la rissa. Faccio un piccolo passo di lato, quello che mi basta per sporgermi dalla fila allungando il collo. Ma soprattutto il minimo indispensabile per non cedere nemmeno mezzo millimetro a ‘sto pischello rincoglionito, gli schioppasse ‘sto aipàd.
Comunque, più avanti due ragazzi si stanno spintonando, e da quello che si gridano (o che si capisce tra uno “stronzo!!” ed un “‘nnaggiallamadò t’ammazzo..” ) pare proprio che il motivo sia un tentativo di quello dietro di passare avanti. O forse solo uno spintone di troppo. Li capisco: non è la prima volta che faccio una fila qui.  Può essere estenuante, se non sei preparato: la folla, le transenne che ti obbligano a rimanere nel tuo centimetro, la testa fissa avanti, ad aspettare. Alcuni cedono, non arrivano nemmeno a due ore che si staccano dalla fila sfiniti. Ne ho visti cadere tanti, così.
Comunque alla fine arriva la sicurezza, e se li porta via allontanandoli e minacciandoli di non tornare.

All’improvviso, quel suono: è la sirena che preannuncia, di lì a pochi secondi, l’apertura dei cancelli. La folla si agita, vista dall’alto sembrerebbe un cobra irrigidito pronto ad attaccare la preda, a divorarla da dentro. Ecco il chiacchiericcio che per un attimo va via..
..il silenzio, un calma tanto improvvisa quanto surreale..
.. e poi l’urlo. È sempre una persona diversa, molto spesso una donna. Ho sempre pensato a chi urla in quel momento come al primo della fila, un Leonida pronto a scatenare l’inferno contro degli invasori alieni, mentre intorno imperversa una guerra termonucleare contro dei dinosauri robot.

E via tutti dentro.

Eccomi fuori.
È stata dura, ma ce l’ho fatta.
Il concerto, in blueray-HD-3D, di Laura Pausini all’Olimpico.
Ne è valsa la pena per tutto, dalla fila alla calca. Ne è valsa pure la pena cadere due volta mentre salivo al contrario la scala mobile, e l’aver scansato quella vacca incinta che stava per prendere l’ultima copia del concerto. Ma soprattutto aver sfruttato le mie rughe in eccesso (per uno di trentacinque anni) per far intenerire quel nerd coglioncello che stava dietro a me, quando me lo sono trovato in cassa con il suo nuovo oggettino digitale del cazzo, quando prima gli avevo pure schiacciato gli occhiali per entrare nel negozio di elettronica.

Sono al settimo cielo cazzo.
Ora chiamo mamma e le dico di prepararmi una bella cenetta. E che avvisi papà che oggi la tv tocca a me. E magari domani manco vado alle Poste per il turno allo sportello.