Tricase, Molti Cuori

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Descrivere due settimane di Salento per alcuni sarebbe molto facile: Gallipoli, droga, alcool, finanza, dancehall, dita o troppo umide o troppo lisce per chiudere le cartine, amori morti ancor prima di nascere o quando sono ormai adulti, Skrillex il 23 a Parco Gondar, il BluBay a Castro e via così di cliché.

Io però giù ho mia madre e mio fratello. Il resto della mia famiglia, che quando arrivo io una volta l’anno la completo e non perché voglia prendermi ruoli che non mi spettano, ma solo perché in mezzo c’è un vuoto creatosi per altrui volontà, e poco puoi farci.
Attenzione eh: io non mi sento nessuna responsabilità addosso, ché sempre un figlio -seppur maggiore- sono e tale voglio rimanere il più possibile. Però ecco, diciamo questa è un’età in cui scendere da tua madre in Salento vuol dire anche rassicurarsi che vada tutto bene, visto che ormai può definirsi una donna single.

Quindi descrivere due settimane in Salento, non a Gallipoli ma a Tricase che graziaddio è bellissima ma ancora sopportabile in termini di turisti (come me), e accanto a chi ti ha portato dentro per mesi e poi cresciuto per anni, ed avendo la possibilità di vedere tuo fratello crescere ogni giorno in quell’età meravigliosamente strana che sono i vent’anni, sono un altro paio di maniche. Perché sei felice di vederli, felice di poter prendere in giro tua madre e di sentirti rispondere di andare affanculo, felice di scambiare poche ma importanti parole con tuo fratello e sì, felice anche vedere il tuo cane cominciare a zoppicare per i suoi 49, canini anni.

Family

Ed ancora più felice di poter condividere quei momenti così intimi insieme a persone che da relativamente poco fanno parte della vostra vita.
Mi spiego.

Barbara e Marco sono due amici di mamma, che li ha ospitati per un paio di settimane, conosciuti pochi anni fa proprio a Tricase e che non avevo ancora avuto il piacere di incontrare.
Vengono da Verona, e sono quel tipo di persone che vorresti conoscere, solo che ancora non lo sai.
Marco è un fitoterapista: in pratica estrae i principi attivi delle piante, li trasforma in olii essenziali e ci cura la gente. Ovviamente questo è quello che la mia mente semplice riesce ad elaborare quando sente la parola fitoterapia, ma Marco è anche docente all’università, gran lettore, persona informata, resuscitatore/resurrettore (boh) di forni in pietra che grazie a lui abbiamo fatto delle pizze che fermi tutti, massaggiatore stronca cervicali, appassionato di indovinelli e «Trappole Mentali». Persona con cui parleresti per ore di qualunque cosa, dai profumi agli aneddoti storici passando per Ignazio Marino, che scherza e ride ma rimane sempre lucida e coerente.
Barbara è la moglie/compagna/amica di Marco, come lui per lei. Psicologa, lavora con bambini e ragazzi provenienti da situazioni difficili e c’ha una forza dentro che si sente a distanza. Incredibilmente divertente, inarrestabile, con la battuta sempre pronta ed una parola bella per tutti. Soprannominata «la filippina» per la sua inspiegabile voglia di pulire e sistemare casa praticamente ogni giorno, ha fatto un po’ le veci di mamma quando era impegnata a lavorare (santa, santissima donna).
Sono un coppia incredibilmente unita, di quelle coordinate che a vederle da fuori sembra quasi stiano danzando senza prove e senza musica.
Belli come il sole.

Dopo qualche giorno sono arrivate anche le miniature, che chi mi conosce sa l’amore che irradiano e che diffondono e che ora ha anche un segnale più forte grazie alla loro scricciola di poco più di un anno. Se la scorsa estate era ancora un fagotto di dolcezza da portare in braccio, ora è un razzo che parte sulle sue gambine e che cambia continuamente traiettoria e che tu hai paura mica che ti butti giù il muro ma che cada lei ma è già troppo sveglia per farsi davvero male. Per me averli vicino è già generalmente una gioia. Conviverci per giorni è stato un piacere che nemmeno riesco a descrivere. La calma, le risate, gli sguardi che s’incrociano mentre controllano che la piccola Patasfronzoli (cit. Barbara) non si schianti mentre rincorre Drugo chiamandolo “BUBO!”.
Ma non si schianta, ché è troppo forte grazie a tutto l’amore che si prende ogni giorno, e che abbiamo amplificato tutti in questo periodo.

Maiolica

E poi c’è la coppia a cui tengo di più di tutte: io e Lei, reduci da una splendida settimana al suo paese, tra pranzi e risate e vino e abbracci e la certezza di star facendo bene, senza fare nulla.
Poi giù di corsa col treno preso all’ultimo e tutta la voglia di stare insieme e finalmente «farla conoscere a casa», quel piccolo evento a cui non hai mai dato davvero così tanto peso come questa volta, senza allo stesso tempo nemmeno pensarci. Dire che è andato tutto più che bene sarebbe nemmeno un eufenismo, ma proprio come non dire nulla. Di quelle cose da rimanerci storditi, imbambolati, come quando vedi davvero l’alba dopo una sacco di anni abbracciato alla persona che hai finalmente trovato, senza averla cercata. Quella Lei che scorre tra le mie foto da bambino, ride e sorride a vedermi crescere davanti ai suoi occhi. Quella Lei che mi prende la mano prima di addormentarsi, coperti da un lenzuolo che alla fine fa anche freschetto ed abbiamo la scusa dei piedi freddi suoi e di quelli caldi miei per annodarci e scendere insieme nel mare del sonno. Quella Lei del nostro primo bagno insieme, quella Lei di cui sento il sorriso addosso mentre mi guarda rannicchiato nel cerchio dell’ombrellone mentre lei fa a gara col sole a chi fa più luce, quella Lei che senza guardarci sappiamo tutto di noi e di quello che potrebbe essere.

Us_Alba

E questo è solo la metà di quello che mi sento dentro, di quello che ho visto (ah! il Celacanto nuovo), ché ‘ste dita non ce la fanno questa volta a star dietro ai battiti. Perché c’è stato anche mio fratello con la sua dolcissima ragazza che guarda non avete idea della felicità. C’è stata mia madre e le sue premure da madre e le risate da madre e le chiacchierate da madre che ci sarebbe da scriverle un libro solo per lei e su di lei. C’è stata la voglia di stare insieme, tutti, nonostante ognuno passasse la giornata a modo suo abbiamo sempre trovato il modo di cenare insieme, magari fare una scappata al mare, fermarci a parlare, ad ascoltare un’improvvisata delle miniature sotto gli ulivi, scambiarci i link dei video doppiati su Youtube.

La normalità. Ma definite normale.

E chissà che non ci venga voglia di ritrovarci, presto, e di nuovo tutti insieme, per essere di nuovo tutti un poco più normali.

Galattico

Quasi Interstellare
Quasi Interstellare

Mi infilo tra le due colonne di gente pronta a scendere sulla scale mobili, scarto un trolley senza padrone ed un padrone senza cane, scendo le scale immobili a due a due fino a che non ne avanzano tre, che salto a piè dispari.
Il cicalino delle porte che si chiudono fa scattare le mie gambe, che ora corrono così veloci al punto che il busto rimane per un attimo sulla banchina, a leggere le notizie che i diffusori in stazione mandano a ripetizione. Un braccio si aggrappa alla porta che scorre, tira in avanti il busto che si riunisce alle gambe, ma l’impatto mi fa crollare addosso ad una ragazza dai capelli di mandarino, che trascino già sul pavimento di crema al caffè. La guardo nei suoi tre occhi, piango ed asciugandomi le lacrime di lago l’aiuto a rialzarsi. Non sorride, ma nemmeno piange, semplicemente mi guarda e batte un solo colpo con le mani. In quel momento tutti nel vagone s’immobilizzano: madri con mani a mezz’aria ch’eran pronte a precipitare su quelle dei figli che raccolgono le cose per terra e non si fa, pagine di libro che stavano per ripiegarsi dopo esser state girate che rimanendo sospese sembrano petali di marmo, labbra ferme a pochi centimetri da altre labbra o guance o fronti.
Tutto immobile. Tutto fermo.
Lei mi guarda con occhi prima di falco, poi di mantide religiosa, infine di cucciolo di Caribù.

Tengo le braccia lungo i fianchi e le mani strette a pugno, ho paura mista a terrore.
Sbatte impercettibilmente la palpebra del terzo occhio e la metro riparte con uno scatto morbido, che basta però a far cadere una decina di passeggeri ancora pietrificati, che a contatto col pavimento di mousse alla fragola inizialmente rimbalzano, ma mentre ricadono per il secondo tocco il pavimento si trasforma in granito al melone, facendoli sbriciolare in mille piccoli pezzettini di cantautore genovese. Ma lo fanno senza suono alcuno, nel silenzio interrotto solo dalla palpebra del di lei terzo occhio che si apre e chiude più veloce delle ali di un colibrì.
Senza preavviso mi abbraccia, poi mi avvisa col pensiero che sta per baciarmi ma io non mi tiro indietro, nonostante stia tremando come una sfoglia di pasta senza glutine. Poggia le sue labbra alle mie e la metro s’immobilizza di scatto. Questo fa si che tutte le statue che pochi minuti prima erano persone ci passano accanto rotolando, alcune a terra alcune a mezz’aria, altre rimbalzano sul pavimento di gomma arabica che inneggia a Maometto ogni volta che un ex umano ci cade sopra, ma tutte lente manco si fosse in uno shuttle a millemila chilometri dalla Terra. Mi stacco non senza fatica dalle sue labbra e mi giro a guardare anziani che ci scorrono vicino, poi dei giovani hipster seguiti dai loro baffi e dai loro risvolti nei jeans, donne di mezz’età e uomini con un tre quarti, d’età. Un cane, un pacchetto di gomme al cetriolo, una bambola di pezza, pezzi di bambola, un trolley senza padrone ed un padrone senza cane, che forse è quello che è passato prima o forse no. Non lo so, perché ora mi sono di nuovo girato a guardare lei che ha gli occhi azzurri ed il terzo nero come un universo parallelo.
Mi vortica affianco un omino delle rose: ne prendo una, pietrificata, la schiaccio tra le mani ed il risultato in polvere lo soffio via dal palmo su per l’aria, e ricadendo brilla alla luce al tungsteno dei suoi occhi ed alla luce delle lampade attaccate sul muro del tunnel dove siamo rimasti fermi noi, il vagone e tutte queste statue che statue non sono, e la polvere cade e brilla che sembra stiano piovendo stelle supernova appena esplose ma senza le irradiazioni galattiche che ci scomporrebbero gli atomi tutti.
Mi guarda gli occhi e col terzo la fronte, mi prende le mani e le porta al viso. Mi accorgo solo ora che le mani lei se l’è proprio prese, che alla fine delle mie braccia non ci sono più ma la cosa strana è che sento il suo visto, sento la sua pelle e sento il terzo occhio, ma con le mie mani nelle sue, staccate dal corpo mio. Sussurra qualcosa con i capelli, dice che sono cose che le girano in testa da un po’ ma io questo “un po’” non lo quantifico, che la conosco da scarsi minuti e già mi sembra un’eternità alla seconda. All’improvviso comincia a gridare ma non esce nessun suono, o almeno io non lo sento.
Sembrano sentirlo però le statue, che ormai ammassate in fondo cominciano a vibrare e ad emettere un rumore proprio come una vibrazione. Prima a piccole dosi

Vrrr

Vrrr

Poi sempre più lunghe ed intense

Vrrrrrrrrrr
Vrrrrrrrrrr

Mi guarda di nuovo, il terzo occhio chiuso così bene che sembra ne abbia solo due. Comincio anche a sentire cosa dice:

“..ivo.. arrivo..”

ma è una voce di uomo che continua a fare

“..in arrivo.. ntina in arrivo..”

Della polvere comincia a cadere dalle persone che piano piano sgranchiscono le dita delle mani ed arricciano i nasi, e ad ogni vibrazione cade sempre più polvere e si muovono sempre più arti

Vrrrrrrrrrrrrrrrrrr
Vrrrrrrrrrrrrrrrrrr
VRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

Tutto vibra tutto trema e la di lei voce da uomo che continua

“..no per Laurentina in arrivo..”

Oh no. No no no. Stiamo arrivando in qualche stazione. Non può finire così. Deve dirmi, deve dirmi chi sei e su chi pianeta ritornerà dopo che il cicalino segnerà definitivamente l’arrivo del treno alla stazione ed io so, SO che sparirà in un att..

VRRRRRRRRRRRRRR
“TRENO PER LAURENTINA, IN ARRIVO!!”

Scatto indietro con la testa e sbatto la nuca sul muro. Il dolore mi fa sgranare gli occhi nello stesso momento in cui la metro rallenta per fermarsi con una porta proprio davanti alla panchina dove sono seduto, a quanto pare da qualche minuto abbondante visto che mi hanno lasciato delle monete ai piedi. Mi spalmo le mani sulla faccia e sento di essermi un poco sbavato sul mento. Scuoto la testa rassegnato mentre mi guardo le mani luccicanti di saliva, e sento ridere di sottecchi. E mentre mi dico che forse, per la prima volta in vita mia, ho pensato la parola “sottecchi” mi giro e vedo lei. Senza terzo occhio, senza le mia mani nelle sue, senza statue e rose in polvere accanto.
Mi fissa però con la stessa intensità, e soprattutto lo stesso colore della galassia tutta.
Mi dice che si chiama _____, ma per me non è importante. Potrebbe anche chiamarsi Ofninf Junior.

Io so solo che da ora, pochi viaggi mi farò da solo.

Mio Fratello

Sì avevo il costume a slip ma ero giovane e stupido.
Sì avevo il costume a slip ma ero giovane e stupido.

Avevo esattamente 4299 giorni quel pomeriggio in ospedale.
“Undici anni e tre quarti”, come si direbbe a quell’età.
Insomma avevo un’età per cui ancora non arrivavo a quell’enorme vetrina. Vedevo giusto un pezzo riflesso su quella parete enorme, con le tende dentro ancora tirate. Non c’era un appiglio, le dita delle mani scivolavano su quel gradino tra al parete ed il vetro, io scalcio anche se le tende impediscono ogni visuale.
Intorno a me ci sono un sacco di parenti, gli adulti, che però mi lasciano un poco di spazio ché sanno bene quanto quel momento sia importante per me. l‘ho aspettato per questi 4299 giorni, per due volte è andata male ma finalmente ci siamo.
Si sente un poco di trambusto provenire da dietro il vetro. Le tende si muovono, spuntano due mani dallo spacco in mezzo che afferrano un lembo per una. Altre due mani mi cingono i fianchi e mi tirano su, proprio mentre le tende si aprono.
Mi si schiude davanti una stanza piena di piccole gabbie senza soffitto. In ognuna c’è un fagottino: qualcuno si muove piano, altri ondeggiano come indemoniati, altri ancora sono immobili, probabilmente dormono e sognano ancora quel posto magnifico dove erano solo qualche ora prima.
Mentre tutti guardiamo un po’ spaesati quelle decine di gabbiette senza soffitto, uno dei parenti dice

– Lì! Eccolo lì!

Come l’idiota, guardo prima il dito.
Poi seguo con lo sguardo la direzione che punta, e finisco a guardare una di quelle gabbie senza soffitto.
Ed eccoti lì, con il tuo nome ben scritto all’interno.

FLAVIO

Rimango un’eternità a guardare quel.. coso lì, quello scricciolo, quel mezzo metro avvolto in un panno ed insaccato in un cappellino.
Comincio a scalciare: voglio entrare, voglio abbracciarti, voglio prenderti e tirarti su verso il sole e gridare “AAAAAAAAAAAAAZVEGNAAAAAAAA!!!!!!!”.
Comincio a dire

– Quello è mio fratello! Quello è mio fratello!

Poi realizzo e dico

– Ehi sto dicendo fratello! Io ho un fratello!

Muovi piano le dita, le apri e le chiudi, e sono sicuro tu mi stia salutando perché lo hai già capito, che spettacolo di cose faremo insieme.
E ne faremo eh.

Per anni ti ho cullato io, e guai a chi altro lo faceva. Mi ti prendevo in braccio e ti portavo piano in giro per casa, fino a quando piano non chiudevi gli occhi e crollavi con la bocca semi aperta, segnale di gran sonno che ti porti dietro ancora adesso. Ricordo ancora quella volta all’isola di San Pietro, in Sardegna (che è dove è stata scattata la foto del post), quando ti misi nella culla e mentre ti guardavo dormire vedo questa biscia entrare dalla finestra, con io che scatto e dopo averti afferrato corro via manco fosse una scena di Indiana Jones.
Portarti sulle spalle mi piaceva un sacco, e farti ridere era la cosa migliore che potesse capitarmi.
Mi sono vestito da Babbo Natale ed ho aspettato minuti buoni al freddo prima che qualcuno si ricordasse che c’era un povero stronzo fuori, a suonare una campanella al freddo, ad aspettar di vedere giusto il naso di Flavio spuntare per poi scappare via al grido fi “OH! OH! OH!”.
Ti ho fatto morire un pesce rosso, ma giuro che è stato per il caldo terribile di quell’estate, e non perché (forse) mi son dimenticato di dargli da mangiare.
Ti ho regalato i miei libri di Roald Dahl e tutti i miei giochi, intonsi dopo molto più di 4299 giorni, che hai provveduto a distruggere uno per uno, nel tempo.
Ti ho fatto fare il bagno in mari e piscine vari, sempre con mille occhi che non si sa mai. Ancora mi prendono in giro per quanto ero apprensivo a tavola ad ogni tuo colpo di tosse, preoccupato che ti stessi soffocando, non so, con l’acqua.
Ti stoppavo quando tiravi al canestro piccolo di plastica, esultando per ogni palla che spazzavo via mentre tu passavi dal divertito all’isterico all’omicida.
Ti facevo compagnia ogni sera mentre vedevi gli Animaniacs, Mucca e Pollo, Ed Edd & Eddy, a ridere a crepapelle sul divano, che visti da fuori non si capiva chi avesse ‘sti quasi dodici anni di più.
Ti ho osservato dormire in quel lettone d’ospedale dove per giorni stavamo tutti con l’ansia a capire come dover gestire quell’enormità che è il diabete, ed ora vederti andare per conto tuo anche in quello fa una certa impressione.
Ti ho fatto vincere (quasi) sempre durante il Wrestling sul lettone, che mi sfiniva e distruggeva ma è stata la miglior stanchissima fatica che abbia mai provato.

Adesso, se dovessimo lottare, non dovrei fingere di perdere.
Perderei e basta, che a nemmeno trent’anni mi fa male tutto e te invece oggi fai diciotto anni.

BAM!

Diciotto.

Non saprei che dire, se non che sei la cosa più incredibile che mi sia capitata.
Oserei dire che sei il fratello che non ho mai avuto, guarda un po’.

Non sto troppo ad elogiarti, che lo so io quanto sveglio, intelligente e (mortaccitua che sono anche i miei) bello tu sia, ma volevo solo far sapere a più gente possibile che se pensavano di aver trovato in me lo Spaziani perfetto, purtroppo dovranno ricredersi.

Farai grandi cose, lo so.
Intanto però goditi ‘st’età strana e fichissima.

Io intanto preparo il lettone per la  rivincita.

“La Telecamera” E BigRock Vincono Ancora

Esattamente quattro mesi ed un giorno fa, scrivevo solo che belle parole per i ragazzi di BigRock. Li avevo conosciuti solo il giorno prima, stanchi dell’ultima notte a tirar su la sceneggiatura che avevo scritto per il loro concorso. Ho vinto, e ‘sti matti in tre settimane hanno reso vivaLa Telecamera“.
La bellezza.

E visto che son matti anche peggio di me, in questi mesi ci siamo continuati a sentire ed abbiamo deciso di far girare il corto, in modo molto mirato, in alcuni festival di cinema. Fino ad oggi lo abbiamo proposto a tre festival, e tutti sono sembrati subito molto interessati.
Il primo è stato il SIFF – Salento International Film Festival.
Il SIFF è una bellissima manifestazione che ha concluso ieri la sua undicesima edizione. Undici anni in cui si è evoluto fino ad essere esportato dal suo ideatore Gigi Campanile in Asia, dove ormai è una sicurezza per qualità delle pellicole scelte personalmente da Gigi.
Ho avuto il piacere lo scorso anno di partecipare come giurato, ed ho avuto la possibilità di testare la qualità di tutti i film in concorso, corti compresi.

Per questo, parlando con Marco di BigRock, abbiamo pensato potesse essere un buon inizio per vedere cosa poteva succedere.

Ed è successo.

È infatti col cuore pieno di gioia che posso annunciare ufficialmente la vittoria de “La Telecamera” al SIFF, nella categoria “Corto di Animazione”.

È difficilissimo spiegare a parole il frullato di pensieri che si rincorrono in testa ora.
Ho già spiegato come il corto è nato dalle mie dita e come quelle splendide creature di BigRock lo hanno reso vero, reale con un lavoro immenso in pochissimo tempo.
Che voi penserete che per quei due minuti finali saran serviti tre giorni.

Selallero.

Tre settimane che son bastate pelo pelo, e la loro stanchezza di cui parlavo all’inizio, il giorno della prima, ne era una prova più che chiara.
Ma erano felici, felici di aver fatto bene quello che piace a tutti loro. Soddisfatti di aver visto un mucchietto di parole diventare quello splendore che è “La Telecamera”.

Io mica smetto di ringraziarli eh. Non ci penso proprio.
Perché per me questa cosa ha significato, e continua a farlo, tantissimo. Una distrazione che è diventata un’amicizia, uno stimolo, magari anche il metter lì altri progetti.

Di certo con i festival non ci fermiamo. Anche perché ora, le pellicole vincitrici in ogni categoria del SIFF si faranno un bel viaggetto fuori di nostri confini. Ora si va ad Hong Kong, e Los-fuckin’-Angeles (o forse Lon-fuckin’-don, ancora non si è ben capito!!).

OH YEAH!!

Quindi non è proprio il momento di lasciarci stare, anzi.
Ora i BigRockers se ne stanno in giro per gli States, come ogni anno, a girare nei Canyon o a correr come i matti su sterminati laghi salati.

Poi tornano, faran mille feste e nel frattempo, forse, MAGARI STUDIANO PURE.

Bastardi ❤

Stay tuned, “La Telecamera” ancora non si è spenta.

Improvvisate#7: Una Favola Di Corsa [Morale Included]

loverunmain

18:25

Paolo si siede sul letto e si allaccia le scarpe nuove. Strette, che quasi gli si ferma il sangue nelle caviglie.
Maglietta e pantaloncini sono sempre gli stessi. Ogni sera, tornato dai soliti cinque chilometri di corsa, lascia asciugare un’ora i vestiti e poi li mette in lavatrice. La mattina dopo li ritira dal balcone e li lascia piegati accanto all’asciugamano.
Lo stesso asciugamano che ora prende e si mette intorno al collo.

18:27

Si ferma un secondo allo specchio, e come tutte le sere rinuncia subito ché tanto dopo sarà zuppo di sudore e sistemarsi i capelli ora sarebbe come lavare la macchina con il cielo carico di nuvole nere.
Si leva il braccialetto in cuoio comprato anni fa in Salento, lo poggia sulla mensola accanto allo specchio. Comincia a correre sul posto a passi lenti e regolari, si gira e mette la mano sulla maniglia.
Il cuore gli batte già forte.
Ma non per la corsa.

18:30

È all’angolo della strada, il piccolo incrocio che si forma con la fine della sua via e la strada principale. A quell’ora non passa un macchina, e l’unico pericolo arriva dallo stanco 906 che ogni tanto arranca tra le viuzze dei complessi residenziali.
Paolo continua a correre sul posto, guarda l’orologio ed i secondi fanno per arrivare a fine giro, quando sente i passi.
Li riconoscerebbe in mezzo alla maratona di New York.
Alice gira l’angolo della strada principale, guardando l’orologio. Alza lo sguardo che si schianta con quello di lui.
Si sorridono mentre lei si avvicina, e quando è ormai accanto a Paolo, lui da fermo fa qualche passo in corsa goffo, per prendere il ritmo con lei, e partono insieme.

18:54

Parlano, e tanto. La corsa ormai non li scalfisce più.
Quando s’incontrarono la prima volta, sempre correndo, non si scambiarono un parola. Ancora non si spiegano perché cominciarono a correre insieme, tra l’altro non erano e non sono nemmeno gli unici a farlo. Ma tant’è. Cominciarono e senza darsi appuntamento regolarono i loro tempi naturalmente, fino ad arrivare ad incontrarsi ogni sera alle sei e mezza. E negli ultimi tre mesi non c’è stato giorno in cui non hanno corso insieme.

19:12

Sono seduti a terra, all’angolo dove si incontrano.
Col fiatone, sudati, e col sorriso.
Si passano una bottiglia di integratori al gusto mirtillo, e continuano a parlare.
Si guardano e si raccontano la loro giornata, spettegolano sui rispettivi colleghi.
Alice sa che Paolo non è uno che di solito parla molto, lo ha capito.
All’inizio aveva enormi difficoltà, e lei ha sempre assecondato i suoi silenzi non parlando a sua volta, o raccontandogli cose stupide per farlo sciogliere.
Ci era riuscita. Ed era molto bello vedere il mondo con i suoi occhi, fatti di quell’ironia mista a cinismo che le piaceva tanto.

20:44

Sono abbracciati a letto.
Finalmente.
Era stata lei a saltargli addosso, interrompendolo e facendo quasi cadere entrambi sull’asfalto.
Si erano tolti i vestiti appena entrati dentro casa di lui, dopo un’adolescenziale corsa mano nella mano attraverso il giardino.
La scia di intimo, pantaloncini e scarpe da corsa portava al materasso in terra, con una piccola abat-jour che aveva appena illuminato il loro corpi in movimento, proiettando le ombre delle loro schiene curve e delle gambe di lei proiettate verso il cielo.
Ora l’ombra era del fumo di una canna, che bello correre e la salute ma il vizio perché levarselo, e dei loro corpi distesi ed abbracciati.
Non parlano, non ce n’è bisogno.
Non ora.

18:30 (del giorno dopo)

Paolo corre sul posto all’angolo, un sorriso ebete che cerca di scrollarsi via stampato in faccia.
La aspetta, questa volta con il cuore che batte quell’attimo in più ancora.

18:32

Da lontano una macchina fa strillare le gomme.
Paolo, che già non sorrideva da due minuti buoni, sorride ancora meno.
La macchina imbocca la strada principale, e lo punta.
A pochi metri da lui inchioda, fari smarmellati al massimo.
Lui si copre la faccia con le mani, mettendole tra lui e la macchina.
La portiera del guidatore si apre, un piede sinistro si poggia a terra, la mani si aggrappano a sportello e tetto e la testa di Alice spunta.
Imbronciata.
Anzi.
Avvelenata a bestia.
Lui non fa in tempo a dire nulla che lei gli punta il dito contro e grida:
“Tu sei unammerda!!”
Risale in macchina, sgomma e riparte.
Paolo rimane a guardare lì, dove prima c’era la macchina. Non la segue nemmeno con lo sguardo.
E in tutto ciò, si accorge solo ora di una cosa: sta continuando a correre sul posto, e non ha mai smesso di farlo per tutto il tempo.

Morale:
tieniti sempre pronto a scappare perché LE DONNE SONO TUTTE MATTE.