Di Rocce, Ragazzi E Rivoluzione

Poi studiano pure eh.
Poi studiano pure eh.

Sono seduto ad una scrivania che conosco da poco più di ventiquattr’ore.
Nell’altra stanza c’è qualcuno che si asciuga i capelli ma pur essendo sveglio dalle nove ancora non ho capito chi sia.
Un sole che ancora non mi aveva mai scaldato filtra da queste tende bianche.
Ascolto l’ultimo di Brad Mehldau e penso sia follemente fico. (così, tanto per)

Sono a Meolo, in provincia di Venezia.
Sono qui perché ho partecipato ad un concorso con una sceneggiatura per un corto, e su più di trecento storie hanno scelto la mia.

Chi?

I ragazzi di BigRock.

Che fanno questi a questa BigRock?

In prati..

E poi ma cos’è BigRock?

OH. Piano con le domande, eh.
In pratica sono una scuola di computer grafica. E fin qui, tutto ok.

Solo che loro filosofia non è: venite in classe, imparate, fate, ciao.
Qui tu entri in un modo, ed esci in un altro. E a me è bastato qualche contatto iniziale ed un giorno per capirlo.

Quando i ragazzi entrano per la prima volta a BigRock, ex fienile immerso nella campagna veneta, sono spinti da una passione enorme per tutto quello che riguarda CG, poligoni, pesature, zone bianche e nere, maquettes (così se mi leggono faccio quello che si è imparato i termini). Arrivano con questa passione selvaggia, incontrollata. C’è chi ha mollato tutto per venire qui e partecipare al master, chi si è sbattuto per pagarselo, chi fa avanti e indietro i weekend per tornare a casa.
Questa passione, però, non viene smorzata, né messa in riga al servizio della produzione.
Il loro impeto viene alimentato, nutrito con viaggi, feste, e con una sola, grande regola: vivere in gruppo.
Quello che Marco, il direttore, ha ribadito più volte è che i ragazzi devono divertirsi, devono studiare, ma prima di tutto devono imparare a stare e principalmente essere, un gruppo.

L’esempio più bello è il viaggio negli Stati Uniti che ogni anno la scuola organizza.

Ci sono quattro tappe: San Francisco, Los Angeles, il deserto del Nevada e Las Vegas.
E ok, ovvio, vanno alla Pixar ed in tutti i posti che fino al giorno prima la maggior parte aveva visto solo come logo all’inizio dei film d’animazione.

Il vero viaggio di scoperta però, come diceva Proust (Google saves), non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.
E sono proprio gli occhi di questi ragazzi che s’illuminano, quando ti parlano del viaggio, a farti capire quanto sia stato importante. Perché ci sono sì quattro tappe, ma nel mezzo loro si perdono. Per scelta, per modalità di viaggio, per viverselo davvero.
Sei jeep, nella numero uno in testa alla fila a volte si fa dire un numero e destra o sinistra.

“Quattro sinistra!!”

E via che alla quarta a sinistra si gira e poi così alla prossima ed alla prossima ancora.
È così che hanno bucato due volte nel deserto, lasciando la macchina lì. Così sono arrivati all’albero dei desideri di San Francisco dove chi vuole può attaccare ad un ramo il suo biglietto con su scritta la cosa che desidera. Così hanno trovato una città abbandonata in mezzo al nulla.

Così tornano da un viaggio con gli occhi nuovi.

Che poi sono gli stessi occhi di ragazzi giovani che fanno feste pazzesche, ma sul serio. Occhi curiosi, affamati del presente e con già apparecchiato per domani.

I fondatori, Marco e Guido, non sono persone normali.
Assolutamente no.
Sono rivoluzionari.
Hanno avuto un’idea, l’hanno portata avanti e dopo pochi anni hanno creato una vera e propria rivoluzione nel mondo della CG e non solo.
La filosofia di BigRock è un qualcosa che se applicato al mondo del lavoro nel settore dell’arte, della cultura, dell’informazione riuscirebbe a creare sinergie uniche in questo campo, ed allo stesso tempo così grandi da aiutare, anzi spingere migliaia di giovani a inseguire i loro sogni.
Nella vicina H-Farm questo concetto si allarga alle start up. Visitate il sito, dico sul serio, vale più di mille miei inutili aggettivi. Un luogo strepitoso.

Insomma, questa Grande Roccia è un luogo dove la magia si crea principalmente perché ne sei circondato.
Poi certo, sono persone anche loro: non è che non litighino, non abbiano i loro pensieri o non facciano la cacca come le donne.

Ma è un gruppo così bello ed unito che rende tutto il resto intorno meno merda, ecco.

Oggi è il loro ultimo giorno dopo sei mesi folli.
Non sono andato perché sarebbe come imbucarsi ad una festa in casa di qualcuno, da solo e senza nemmeno aver portato da bere.

(che poi la festa stasera ci sarà ed io andrò, è un’altra storia che probabilmente non vi racconterò perché non ricorderò)

Io a ‘sti ragazzi gli auguri ogni fottuto bene, dal primo all’ultimo, da chi mi ha cercato la prima volta a chi mi ha dato un tetto, da chi mi ha offerto quattro Spritz a chi mi ha fatto vedere dei video così stupidi che ho riso tantissimo per ore.

Mi auguro, anzi sono sicuro, che quando vedremo la prossima bomba a mano della Pixar, Dreamworks o chi per loro, lì in mezzo ci sarà un diavolo di BigRocker che avrà reso la nostra visione un’esperienza unica.

Bravi.
Grazi.
Bis.

E speriamo che stasera non mi puntino.

Tre Secondi, Il Tempo Di Dire “Anche No”

Tic Tac.
Dodici per l’esattezza.
E non intendo ventiquattro secondi.

Ma proprio dodici Tic Tac, di quelle miste, mela-arancia-banana-susina-fragola.
O almeno ti dico essere state dodici, quelle caramelline che mi facevano l’alito hawaiano e che mi hanno permesso di baciarti senza preoccuparmi del fantasma di quattro gillèmmon ed un tre once di idroponica fattincasa che si dibatteva dietro quella coltre fruttata.

Musica reggae che pompa anche fin troppo forte per il nonno seduto in veranda che dondola dentro di me. Il mio corpo che ondeggia senza cadere solo grazie ad un mix di forza di gravità e vibrazioni dei bassi.
Ti vedo con la coda dell’occhio: molto bassa, molto riccia e molto “sbattimi forte ma parliamo anche dell’ultimo di Wes Anderson”.
Scatti foto ad un tizio alla mia destra, che però all’ultimo si sposta ed il flash mi becca con un’espressione in volto tra il sorpreso, il “oh mio dove sono?!” ed uno che sogna fisso un letto autoriscaldato in una stanza di privazione sensoriale per le successive otto barra nove settimane.

Obama_What

Guardi la foto sul telefono, poi guardi me e scoppi a ridere.

In un secondo ti sono addosso, ti prendo per i fianchi e ti sollevo.
Tu non opponi resistenza, anzi. Ti aggrappi con braccia e gambe come un koala sotto emmedì e cominciamo a scambiarci più fluidi di quanti se ne vedano in un porno brutto. Mi guardi e ridi.
“Che c’è?”
“Hai l’alito che profuma di frutta!!”
“Ho appena mangiato dodici Tic Tac!! Ti da fastidio?”
“Macché!! Anzi!! Profuma di Hawaii!!”
“Ma dwai?”
Se rimane aggrappata dopo ‘sta stronzata me la sposo, se scappa fa bene.
Rimani.
Ok. Da domani soldi da parte per il gran giorno. Ma per il momento.. limonare duro.

Dopo tre ore siamo a casa tua, scampati per miracolo ad un posto di blocco, tre elicotteri dell’FBI ed agli attacchini di cacca pound.
Dopo dieci minuti nemmeno provo a dirti che non mi è mai successo, perché sarebbe una cazzata e già so che, anche se per una notte, di cazzate non voglio dirtene. Tu ridi, poi sorridi, mi guardi con quegli occhi che non so e fai per ricominciare.
E.. oh, se ricominciamo.
Dopo altre quattro volte te lo dico, che non mi è mai successo.

Ridiamo.
Fuori fa luce, e pure dentro di noi.

L'unica altra alba che mi piace vedere.
L’unica altra alba che mi piace vedere.

Dopo tre mesi entri in camera mia con addosso solo la mia maglietta con il faccione fatto di Super Mario, con annessa canna in bocca e la scritta “Wiid” a caratteri Nintendo. Tazza di caffè fumante in mano. Taglio di sole sulle cosce.
Dea.
Torni sotto le coperte, poggi la testa sul mio petto e la mano con la tazza sul piumone.
“Ti amo”, mi fai.
Cuore out of orecchie.
“Anch’io”, ti faccio.
Guardo la tua nuca e sento il tuo sorriso.
Benessere.

Hipsterismi.
Hipsterismi.

Dopo tre anni siamo a casa dei tuoi amici.
Nelle ultime settimane siamo tesi, tu sempre presa dal tuo correre di casa d’altri in casa d’altri per arredarle, io a sbattermi tra il secondo libro da far uscire ed il trasloco da te.
I progetti si sono ammucchiati da una parte, tutti e due troppo presi da noi stessi senza riuscire però a dirselo in faccia, ad ammetterlo ed andare avanti da soli.
Stasera però siamo tranquilli, senza forzature ci facciamo trasportare in chiacchiere sul perché non siamo scappati tutti quando potevamo farlo. Poi ci accorgiamo di suonare vecchi e per sorridere degli anni che scorrono cominciamo a parlare di quando, come coppie, ci siamo conosciuti.
Iniziano loro con il volo perso per Londra, il caffè di lei, presa in una telefonata col capo per giustificarsi, versato addosso a lui, nervoso nel mandare mail per posticipare la riunione col marketing. Da lì le scuse, le risate, le cene per finire con una splendida casa e due pesti che in quel momento erano nascosti sotto il tavolo a sentire gli adulti.
Risate, “uccheccarini”, silenzio.
Tocca a noi.

Dopo tre ore siamo da te.
Mi lanci addosso di tutto, dai vestiti ai libri di Pessoa alla lampada a forma di chitarra ad altri vestiti, però sporchi.
“Per tutti questi tre anni mi hai mentito? PER TRE ANNI?”
“Tesoro, non credo che possa essere chiamato mentir..”
“Zitto cazzo!! ZITTO!! Sparisci, prendi la tua merda e sparisci PERDIOCAZZOMMERDA!!”

Dopo tre minuti mi ritrovo fuori dalla tua porta, cercando di capire le tre seguenti cose:

– cosa starà pensando la signora Pulletti, la tua vicina, che crede io non la veda ma i suoi capelli bianchi quasi celesti che spuntano dalla sua porta socchiusa si vedono eccome;
perdiocazzommerda? che straminchia significa?
– davvero l’ha fatta finita perché ho mentito sul numero di Tic Tac che avevo mangiato la sera che ci siamo incontrati?

Cioè, le dissi dodici, ma saranno state, tiè, tre. Ma non puoi lasciarmi dopo tre anni per questo, non dopo che ho pronti i miei quattro stracci chiusi in scatoloni pronti per essere portati da te.
No, cristo.

Guarda qui.
Guarda qui.

Ti vedo con la coda dell’occhio: molto bassa, molto riccia e molto “sbattimi forte ma parliamo anche dell’ultimo di Wes Anderson.
Scatti foto ad un tizio alla mia destra, che però all’ultimo si sposta ed il flash mi becca con un’espressione in volto tra il sorpreso, il “oh mio dove sono?!” ed uno che sogna fisso un letto autoriscaldato in una stanza di privazione sensoriale per le successive otto barra nove settimane.

Guardi la foto sul telefono, poi guardi me e scoppi a ridere.

Cazzo ridi, stronza ingrata?

Mi giro verso gli altri e chiedo, nell’ordine

cartina
filtro
sigaretta

che il resto ce l’ho io.

Mi giro di nuovo verso di te e non ci sei più.
Meglio così.
Saremmo stati male ebbasta.
Saremmo arrivati a pensare di aver buttato tre anni.

E invece io ho buttato solo tre secondi per immaginarmi tutto, per poi tornare a farmi sturare le orecchie da questi bassi troppo bassi, e ‘sti alti che non durano mai più di tanto.

Abruzzo: Un Weekend Che Ci Voleva

"Foto che non c'entra Gnente", Ponte Galeria, (poco fuori) Roma.
“Foto che non c’entra Gnente”, Ponte Galeria, (poco fuori) Roma.

Tre giorni di montagne e nuvole, foglie secche e grappa, tavole sempre piene e camini che a starci davanti avrebbe problemi anche Vulcano.

Un mix tra “Stand By Me” e “Il Grande Freddo”, ma senza cadaveri nei boschi o essere amici da una vita. Non tutti, almeno. Iniziare stringendosi la mano e cercando in tutti i modi di non dimenticarsi il nome dell’altro, per finire abbracciati tra un “è stato un piacere” ed i mille “ribecchiamoci a Roma”.
Ed allo stesso tempi condividere risate che non ti facevi e non facevi fare ai tuoi amici di sempre, con un buonumore che da qualche settimana avevi detto “lo metto qui che così me lo ricordo” e che ovviamente non trovavi più ma che all’improvviso BAM! eccolo e senti che bello, tiene quasi caldo qui in montagna.

Una camminata in un bosco che aspettavi da tempo senza cercarla, quei silenzi di sottofondo e quei rumori improvvisi, secchi. Ricci che ti cadono sulle spalle sfiorandoti la testa mentre ti fai una foto, quasi a volerti sgridare per le tue distrazioni da uomo di città.
La legna da raccogliere, tronchi caduti a fare da leva e ancora tante risate, tagli sui pollici, la pioggia che ti sorprende nell’unico momento di relax, quello fatto di panini e vino e racconti. E poi quelle stronzate che ti illuminano il cervello e che ti fanno capire come l’uomo, pur di faticare di meno, se ne inventerebbe di ogni.

Lo zaino porta legno porta legna. Brevetto, please.
Lo zaino porta legno porta legna. Brevetto, please.

E dopo due giorni di tutto questo e molto altro, due tappe così pesanti che al giro d’Italia sarebbero quelle da centoventi chilometri di salita con pendenza al novantaquattro percento.
La seconda è L’Aquila.

Non c’ero mai stato, all’Aquila, né prima né dopo quella notte. E soprattutto dopo mi ero ripromesso di andarci ed invece eccomi lì, ieri, per la prima volta.
Era sera, buio, con pioggia leggera ma così fitta che è facile immaginare l’acqua infiltrarsi nelle crepe. Crepe che sono ovunque, e sono tutte enormi. Ed anche loro si possono tranquillamente paragonare a delle enormi cicatrici.
Ed i punti per provare a richiuderle sono tanti, diversi, ma che a poco sembrano servire. Sembrano sacchi stracolmi di macerie che qualcuno ha provato a chiudere con il filo da cucire.

Camminando per le strade, i vicoli, mi ha colpito l’odore di legna, quello classico della segatura e delle falegnamerie. All’inizio non capivo da dove arrivasse: intorno a noi c’erano solo piccoli cumuli di calcinacci, impalcature in ferro che amplificavano il rumore delle gocce di pioggia tanto da farle sembrare i passi di un qualche mostro nascosto nel buio, e tanto silenzio. Poi ho collegato: praticamente tutte le porte, soprattutto quelle ad arco, avevano delle strutture in travi di legno che ne sostenevano la struttura. Tonnellate di pietra e cemento sostenute da quattro travi messe in croce.

E poi le tante finestre aperte. Una delle cose più inquietanti che abbia mai visto con i miei occhi.
Decine di finestre aperte su stanze in cui ormai non c’è più nessuno che si possa affacciare, fumare una sigaretta guardando stancamente le vecchiette che camminano con le buste della spesa, o lo studente di corsa con i libri sottobraccio.
Finestre che sembrano occhi spalancati di edifici sofferenti, in punto di morte, increduli nel momento di andarsene.

Due cose, però, mi hanno colpito in modo molto positivo.

La prima, anche se molto strana, è stata della musica in filodiffusione che abbiamo sentito due volte in due vicoli diversi. Premetto, entrambe canzoni di merda da hit radio, ma mi hanno fatto pensare tantissimo alla Overture 1812 di Tchaikovsky che parte nelle strade di Londra in “V per Vendetta” per arrivare a esplodere insieme al palazzo di Giustizia. E spero di poter vedere altrettanta gente per le strade di quella splendida città.

La seconda [JINGLE PUBBLICITARIO] è il ristorante-pizzeria-facciamo un filetto al Montepulciano da sentirsi male “Oro Rosso” di cui ho trovato solo questa versione brutta di una pagina FB. Proprio al centro storico, vicino ad una rotonda e a due passi dallo strano e molto Berlinese auditorium in legno colorato, costruito all’ingresso del Parco del Castello. Si mangia benissimo, c’è un cameriere simpatico quanto sudato e ripeto, quel filetto con crema al Montepulciano era una cosa che vale il viaggio.

Insomma, un weekend che ci voleva, soprattutto per questo weekend.

Nel Bene E Nel Mare

“Che io in Germania non potrei mai andare a vivere. Parliamoci chiaro, in Italia abbiamo il clima mite, il buon cibo. E poi i posti da vedere, i monumenti, la cultura, la storia. Cazzo il mare!! Abbiamo il mare!!”.

Allora, tralasciamo per qualche riga la questione mare, che affronteremo brevemente ma di testa. Quello all’inizio è il mattone classico che l’italiano ti propina tornando dalla Germania (o come dalla Gran Bretagna, dalla Francia e così via), o rispondendoti dopo avergli detto che pensi di trasferirti. Solitamente chi dice questa sfilza di cliché che nemmeno tua nonna quando ti ammoniva di “copritte li reni” sta seduto al gate di Schoenefeld con la felpa della FIAT e sotto la maglietta “I ♥ Berlin”, occhiali da sole Prada falsi come Pannella e panino con prosciutto da 12€ all’etto preso al Kadewe. Parla come se la Germania fosse stata scoperta l’altro ieri da esploratori napoletani con le Hogan.
Il concetto che il venditore abusivo di birre alla sagre tenta di esprimere con frasi prese dal calendario di padre pio, tra un morso al panino ed una ravanata di pacco, non sarebbe nemmeno troppo esagerato, almeno per quanto riguarda il binomio clima-cibo. A Berlino, perché lì sono stato e di questo parlo, si passa dal “freddino oggi” al “ti prego pisciami addosso”. Anche il cibo non è che sia eccellente: preferisco una singola mozzarella ovolina ad una dieta basata esclusivamente su stinco di porco affogato in lardo umano con contorno di cipolle e crauti.
Ma ci si abitua a tutto no? Per i vego-vegetariani noi non dovremmo essere predisposti a mangiare carne e invece guarda quanto sangue mi cola sul mento.
La cultura vabbè, a un certo punto cheppalle le rovine: a Berlino potresti girare per musei e gallerie e studi d’arte per giorni senza dormire e ancora non avresti nemmeno iniziato.

Ma arriviamo al mare, perché è qui che voglio andare a parare. La rovina dell’Italia, oltre agli italiani stessi, è proprio il mare. Il nostro mare, insieme alle sue spiagge, sono il più grosso cesso a cielo aperto che si possa immaginare. Peggio di quella fiumana di gente che ogni anno si “purifica” nel Gange.
Parlo nello specifico del Salento, che conosco bene ormai ma ne parlo soprattutto perché altrimenti certa gente mi accusa di parlare di cose che non conosco solo perché non lo prendo al culo. Come loro. Ma vabbè, sto divagando.
Voi in Salento venite quelle due settimane al massimo dove correte da Otranto a Santa Maria di Leuca, con tappe nei vari locali più o meno chiccosi del cazzo. “Ma che mare, ma altro che [Sicilia, Sardegna, Caraibi], GUARDACHEMMARECAZZOOOOO!!”, o “ma costa pochissimo questo Mojito fatto col rum dell’Eurospin” sono le frasi tipiche da dire in circostanze salentine.

E via che migliaia di famiglie urlanti e senza dio si riversano con i loro materassini, le loro parmigiane e la loro innata, italianissima maleducazione. Mamme che chiamano i loro figli manco fossero la Magnani prima di essere sparata, vecchi catarrosi che giocano a racchettoni con la pallina che regolarmente finisce più sui tuoi coglioniche in aria tra di loro, cellulari usati come stereo con ancora sparata a palla quella merda infinita di “mossa mossa” che spero quel cretino sia finito in coma per abuso di fisarmonica.
Cicche, bottiglie, carta: tutto in spiaggia, però stasera andiamo alla sagra ecologica che fanno la differenziata.
In questo esatto momento sono a Punta della Suina.
Vi linko quello che trovereste cercandola sulle immagini di Google. Via aspetto qui.
Pronti?

Via.

Fatto?
Bella vero? “Che mare eh? Altro che  [Sicilia, Sardegna, Caraibi], guarda che sabbia dioooooomiooooo!!”.
Bene, adesso guardate qui:

Che spettacolo.
Che spettacolo.
Che mare eh?
Nel caso servisse la cassetta per il pesce che non pescherete.
No dico: guarda che bello.
No dico: guarda che bello. Nel caso affogassi nella sabbia.

Bello vero?
“Eh ma quella è roba da mareggiata, che vuoi farci?”.
Ci faccio che ho pagato cinque euro per il parcheggio, e mi aspetto che qualcuno levi la merda che comunque, qualcun altro, in mare ha buttato. Perché mentre qui vicino allo stabilimento privato è così pulito che manco in ospedale, io sono vicino a così tanta plastica che se la sciolgo faccio il pieno ad una nave mercantile per i prossimi sei mesi.

Il mare, in Italia, è il male.
È il posto dove la feccia maleducata di città viene a fare le stesse cose che fa a casa sua: sporcare, dare fastidio, farsi vedere. A discapito del prossimo più vicino, che sia quello d’ombrellone o quello di casa vacanza.
Se non ci fosse il mare, forse occuperemo il nostro tempo a rivalutare città che solitamente ignoriamo. Come la nostra, per esempio. Potremmo andare in musei che di solito usiamo solo come riparo dalla pioggia, ci godremmo di più scorci ed angoli che solitamente ignoriamo, magari anche impegnandoci a rivalutarli ed a renderli più belli.

E invece no, tutti al mare.
Guarda qui, altro che Germania.

Norway Road Trippin’ – Ultimo Quarto – Di Copenaghen, Scelte E Fette Di Torta

Qualcosa all’orizzonte.
Copenaghen.
Quanto ti costerebbe mollare tutto? Cosa ci perderesti, e quanto invece potresti guadagnarci nel dare un abbraccio sincero a quelle poche persone che hanno contato qualcosa nella tua vita e dir loro arrivederci?
Non lo so, ma ci penso, e tanto.
Ore passate a viaggiare, a guardare fuori da un finestrino ti costringono a pensare.
Anche se non vuoi.
Pensi a tante cose, a quanto ti è costato fare alcune scelte in passato, a cosa hai perso e a quanto poco hai guadagnato.
La tua è una vita di facciata, e lo sai. Stai bene perché ti sta bene.
Hai amato con tutto te stesso, hai dato tanto, spesso ricevendo altrettanto, hai persone che ti vogliono bene ed una famiglia che c’è, anche se non c’è.
Ma comunque fingi, comunque non stai bene.
Eternamente insoddisfatto.
Non l’ho mai letto, ma c’è chi mi paragona sempre a “Il giovane Holden”.
Ho il cuore sempre pieno, ma al momento sbagliato, con le persone sbagliate, nel posto sbagliato.
Punto.
Ma se ci fosse quel pulsante reset, quel grosso pulsante rosso protetto da una piccola teca di vetro, magari con dei pulsanti che ti permetterebbero anche di scegliere la data.. lo premeresti? Cancelleresti davvero, non so, 4 anni della tua vita per aggrapparti a quello che hai perso e che non sai cosa, come sarebbe stato?
È difficile come scelta, vero?
Siete soddisfatti della vostra vita? Le scelte che avete fatto, dal prendere quel filone in più dal fornaio l’altro giorno che se adesso lo tirate a terra arrivate in Cina, fino allo sposarvi.. vi hanno soddisfatto?
Ma questo è solo uno stupido gioco per farvi dire a voi cosa non va, mentre io mi dileguo. La mossa Kansas City.
Io sono contento a tratti. La felicità mi annoia. La felicità in sè è noiosa: tutti quegli abbracci, quei sorrisi, quel conto in banca sempre paro, quei vasi in balcone sempre curato, l’aperitivo assicurato due volte a settimana e la corsetta a Villa Pamphili. Ma davvero vi basta tutto questo?
Io ora ho circa cinquecento euro di buffi con i miei amici per questa vacanza che -ehi!!- non è ancora finita, non ho un lavoro e l’unica proposta che mi è arrivata è di tornare in cuffia in un altra fossa dei leoni (no grazie), ogni canzone che il mio iPod passa sembra ricordarmi che ogni schiaffo preso è stato meritato e dovuto, non scriverò mai nulla che possa passare sotto la forma di un libro, cerco sempre di ributtarmi in qualcosa che è stato e che non potrà mai più essere, ed ho una tremenda, terribile, fottutissima paura di dare un abbraccio sincero a quelle poche persone che hanno contato qualcosa nella mia vita e dir loro arrivederci.
Ma adesso mi son fermato, e penso che a casa mi aspetta un persona speciale, qualcuno che le mie fobie, paure, ansie e voglia di solitudine le accetta. Ed io ancora non me ne rendo conto, perché non sono abituato ad una persona che ti dice “fai ciò che vuoi” sapendo che hai bisogno di stare una sera da solo. Una persona che mi vuole un bene tanto, ed io di contro.
Che sa quanto sia difficile per me, ora, dare. E che lo accetta.
Ed io nemmeno mi rendo conto di quanto questo sia straordinariamente bello.
So che non devo tirare troppo la corda ma so che posso chiedere, senza dover dare. Ho qualcuno, accanto a me, che mi accetta per quello che sono, e non solo per quello che sembro o sono sembrato.
Che a sbagliare son bravi tutti, ma a capire le persone ci riescono in pochi.
E magari, dietro a messaggi frettolosi, strade sfocate fuori da un finestrino, lacrime solitarie e scienziati che vogliono ricominciare dall’inizio, dietro a tutte queste e mille altre cose, magari una fetta di felicità la trovo tagliata pure per me.