Tracce – Brano Uno – Green Day

"For what it's worth, it was worth all the while."
For what it’s worth, it was worth all the while.

Quand’ero giovane c’era questa. Lei aveva gli occhi verdi ma che con la luce cambiavano, diventavano quasi azzurri. Aveva lunghissimi capelli mossi e rossi, ed un sorriso bianchissimo sulla pelle olivastra. Avevamo diciott’anni ed io iniziai non capendoci un cazzo di relazioni, crociata che orgogliosamente porto avanti ancora adesso. Mi ricordo di uno stupido quanto serissimo contratto in cui ci s’impegnava a non dire-fare determinate cose, che non so in che contesto includeva anche Alessia Marcuzzi. Forse evitare di spezzarmici il polso sopra, ma la butto lì. Contratto firmato con le nostre impronte digitali, stampato in doppia copia che chissà che fine ha fatto.
Ci fu la mia lunghissima e sudatissima prima volta, imbarazzante come tradizione vuole, ma fu lì che m’innamorai del suo corpo e di tutte voi maledette, un qualcosa da ringraziare e bestemmiare iddio per ogni giorno che vi mette in terra.
C’erano cene fuori, compleanni in cui il mio modo di vestire viene ancora preso per il culo perché la camicia di jeans coi bottoni a clip, PERLINATI, effettivamente a pensarci ora è un misto tra il terrore ed l’hipster che ancora manco esisteva il termine.
Ci furono ovviamente scazzi, l’ancor più ovvio periodo di pausa -che dovrebbe esser paragonato alla minaccia personale, per l’ansia che hai nel mentre-, ci fu la rottura definitiva e poi i mille strascichi, le gelosie.. e poi gli anni passano e vedersi, quelle rarissime volte, è un piacere ancor più raro.

Da lì, però, cominciò anche il mio inutile, infantile disturbante lamentarsi nei mesi dopo, la rottura.
E questo, più che una crociata, è un marchio di fabbrica.

Improvvisate#7: Una Favola Di Corsa [Morale Included]

loverunmain

18:25

Paolo si siede sul letto e si allaccia le scarpe nuove. Strette, che quasi gli si ferma il sangue nelle caviglie.
Maglietta e pantaloncini sono sempre gli stessi. Ogni sera, tornato dai soliti cinque chilometri di corsa, lascia asciugare un’ora i vestiti e poi li mette in lavatrice. La mattina dopo li ritira dal balcone e li lascia piegati accanto all’asciugamano.
Lo stesso asciugamano che ora prende e si mette intorno al collo.

18:27

Si ferma un secondo allo specchio, e come tutte le sere rinuncia subito ché tanto dopo sarà zuppo di sudore e sistemarsi i capelli ora sarebbe come lavare la macchina con il cielo carico di nuvole nere.
Si leva il braccialetto in cuoio comprato anni fa in Salento, lo poggia sulla mensola accanto allo specchio. Comincia a correre sul posto a passi lenti e regolari, si gira e mette la mano sulla maniglia.
Il cuore gli batte già forte.
Ma non per la corsa.

18:30

È all’angolo della strada, il piccolo incrocio che si forma con la fine della sua via e la strada principale. A quell’ora non passa un macchina, e l’unico pericolo arriva dallo stanco 906 che ogni tanto arranca tra le viuzze dei complessi residenziali.
Paolo continua a correre sul posto, guarda l’orologio ed i secondi fanno per arrivare a fine giro, quando sente i passi.
Li riconoscerebbe in mezzo alla maratona di New York.
Alice gira l’angolo della strada principale, guardando l’orologio. Alza lo sguardo che si schianta con quello di lui.
Si sorridono mentre lei si avvicina, e quando è ormai accanto a Paolo, lui da fermo fa qualche passo in corsa goffo, per prendere il ritmo con lei, e partono insieme.

18:54

Parlano, e tanto. La corsa ormai non li scalfisce più.
Quando s’incontrarono la prima volta, sempre correndo, non si scambiarono un parola. Ancora non si spiegano perché cominciarono a correre insieme, tra l’altro non erano e non sono nemmeno gli unici a farlo. Ma tant’è. Cominciarono e senza darsi appuntamento regolarono i loro tempi naturalmente, fino ad arrivare ad incontrarsi ogni sera alle sei e mezza. E negli ultimi tre mesi non c’è stato giorno in cui non hanno corso insieme.

19:12

Sono seduti a terra, all’angolo dove si incontrano.
Col fiatone, sudati, e col sorriso.
Si passano una bottiglia di integratori al gusto mirtillo, e continuano a parlare.
Si guardano e si raccontano la loro giornata, spettegolano sui rispettivi colleghi.
Alice sa che Paolo non è uno che di solito parla molto, lo ha capito.
All’inizio aveva enormi difficoltà, e lei ha sempre assecondato i suoi silenzi non parlando a sua volta, o raccontandogli cose stupide per farlo sciogliere.
Ci era riuscita. Ed era molto bello vedere il mondo con i suoi occhi, fatti di quell’ironia mista a cinismo che le piaceva tanto.

20:44

Sono abbracciati a letto.
Finalmente.
Era stata lei a saltargli addosso, interrompendolo e facendo quasi cadere entrambi sull’asfalto.
Si erano tolti i vestiti appena entrati dentro casa di lui, dopo un’adolescenziale corsa mano nella mano attraverso il giardino.
La scia di intimo, pantaloncini e scarpe da corsa portava al materasso in terra, con una piccola abat-jour che aveva appena illuminato il loro corpi in movimento, proiettando le ombre delle loro schiene curve e delle gambe di lei proiettate verso il cielo.
Ora l’ombra era del fumo di una canna, che bello correre e la salute ma il vizio perché levarselo, e dei loro corpi distesi ed abbracciati.
Non parlano, non ce n’è bisogno.
Non ora.

18:30 (del giorno dopo)

Paolo corre sul posto all’angolo, un sorriso ebete che cerca di scrollarsi via stampato in faccia.
La aspetta, questa volta con il cuore che batte quell’attimo in più ancora.

18:32

Da lontano una macchina fa strillare le gomme.
Paolo, che già non sorrideva da due minuti buoni, sorride ancora meno.
La macchina imbocca la strada principale, e lo punta.
A pochi metri da lui inchioda, fari smarmellati al massimo.
Lui si copre la faccia con le mani, mettendole tra lui e la macchina.
La portiera del guidatore si apre, un piede sinistro si poggia a terra, la mani si aggrappano a sportello e tetto e la testa di Alice spunta.
Imbronciata.
Anzi.
Avvelenata a bestia.
Lui non fa in tempo a dire nulla che lei gli punta il dito contro e grida:
“Tu sei unammerda!!”
Risale in macchina, sgomma e riparte.
Paolo rimane a guardare lì, dove prima c’era la macchina. Non la segue nemmeno con lo sguardo.
E in tutto ciò, si accorge solo ora di una cosa: sta continuando a correre sul posto, e non ha mai smesso di farlo per tutto il tempo.

Morale:
tieniti sempre pronto a scappare perché LE DONNE SONO TUTTE MATTE.

Improvvisate #6 – Era Maggio, Ora È Peggio

Quella sera stavo in gran forma. Ma forte eh, della serie “look at me, I’m an attention whore”.
Camicia bordeaux, cravatta nera e umorismo da vendere.
Il locale non lo conoscevo, zone tipo Via Candia e robe così per me sono tutt’ora out.
Devo abbassare la testa, fare qualche gradino per ritrovarmi in un posto carino fatto di legno e pietra. Il nome c’entra qualcosa con le fate, ed in effetti il posto di presta.

Siamo una decina, la maggior parte non li conosco ma mi trovo bene. Ci prendiamo ‘sto tavolone in legno grande, e mi siedo schiena all’arco che devi attraversa per entrare.
Si chiacchiera molto, si ride di più.

Ad un certo punto C. alza lo sguardo oltre le mie spalle ed inizia a sorridere, e grida felice il tuo nome. Quel nome che ancora non so ma pronuncerò, strillerò, urlerò millemila volte dopo quella sera.

Ci presentiamo, e sento qualcosa di forte. Strano.
Qualcosa di sopito, nascosto nella polvere di quei mesi brutti.
Probabilmente sono solo ormoni, ma in mezzo a quel mucchio di cosetti arrapati c’è qualcos’altro.

La serata s’impenna, ci si diverte tantissimo.

Scoprirò solo dopo qualche tempo che ne avevi un gran bisogno, di ridere. Che pure a te quei mesi stavan lasciando segni brutti, e proprio quella sera tornavi da una situazione del cazzo.

L’ultimo ricordo che ho di te, legato a quella sera, è del momento in cui rientro in macchina di C. Ricordo perfettamente che mentre mi mettevo seduto pensavo a te. Mentre allungavo la mano per prender lo sportello, e mentre lo chiudevo, io pensavo a te. Le prime parole uscite in macchine, mentre mi giravo la sigaretta un po’ brillo, sono state per dire “un sacco simpatica l’amica tua, proprio tanto”.

Sono passati cinque anni, e se ci penso mi sento male. Per un sacco di motivi.
Di tante cose che ricordo, il giorno esatto in cui finalmente uscimmo da soli non lo ricordo. Ricordo il ponte, l’Africa, i passi in sincrono e la tensione per i tuoi esami.

Dovrebbe essere domani, o forse era due giorni fa. Ricordo ma non ricordo.

Il resto è storia.

E che storia.

Uomini E Topa

Le basi.
Le basi.

Che uomini e donne siano differenti, lo si dovrebbe capire da una semplice cosa: il corpo.

Noi, pene.

Loro, vagina.

E tette, of course.

Da qui tutti i trattati di antropologia, psicologia, tutti i discorsi fatti con gli amici su lui che è uno stronzo e lei una troia PUF! spariti. In un attimo.

In questi giorni mi ritrovo invorticato in un paio di storie altrui che a vederle da fuori non puoi che trarre una sola conclusione: noi uomini siamo dei coglioni.
Il nostro grande problema è che nel momento in cui una qualsiasi pischella in un qualunque momento ci fa annusare il contenuto delle sue mutandine prese in 3×2 da Yamamay, è come se la parte razionale del nostro cervello prendesse la valigia, ci schiaffasse dentro il minimo indispensabile per star via un po’ di tempo e sbattesse la porta al grido di “ma tanto già lo sapevi/che ritorno da te/senza niente da dire”.

E rimaniamo soli, con un pezzo di cervello in meno ed un’erezione potentissima che dura per qualche giorno.
Lo infiliamo ovunque, come forsennati, come se temessimo un’evirazione obbligatoria che da lì ad ore porterebbe tutti gli uomini a guardare il proprio pene galleggiare in un barattolo sotto salamoia.
Quelle nuove tette sono diverse, un nuovo campo da esplorare, per non parlare del triangolo che sì, l’avevamo considerato eccome.
Si scopa, si fan promesse, si vola sul tappeto arcobaleno del “vienimi in faccia ogni volta che vuoi”.

Poi dopo qualche tempo sentiamo bussare.
Alla porta non c’è nessuno.
Di nuovo due colpi.
Poggiamo l’orecchio, ma nulla.
Alla terza volta capisci che non viene da fuori, ma da dentro la tua testa.
E non perché tu stia impazzendo.

È il tuo cervello che chiede di tornare, che ti vede in difficoltà e vuole dare una mano.
Solo che il cervello non è come quell’amico che dice “va beh, hai fatto la stronzata ma è ok dai, te vojo bene lo stesso”.
Eh no.
Lui torna, magari te lo dice pure che ti vuole bene, solo che durante la sua assenza ha collezionato una bella serie di cose: ricordi, rimorsi e sensi di colpa.
E non vede l’ora di farti vedere le diapositive.

“Vedi, uomo, questo sei tu con Lei.. ti ricordi? qui era quando avevate litigato male ma poi vi siete ubriacati e vi siete ammucchiati così bene sul letto che lei quasi lo voleva al culo ma poi no.. ecco sì, lo stesso culo che adesso è traforato da qualcun altro..
CLACK
qui sei sempre tu, però quando ti sei chiuso a riccio e non volevi risponderle, e da lì è stata solo distruzione, morte e sangue..
CLACK
ah beh, questa è la mia preferita! dai che te lo ricordi anche tu.. quando vi stavate promettendo amore eterno, la casa, i bambini.. e poi lei il giorno dopo ti vomitava veleno addosso per cose vecchissime, e tu invece di ascoltare ti incazzavi e la trattavi malissimo.. adoro questo momento.”

CLACK

Ecco il tuo cervello: ore di foto ormai strappate e momenti che non torneranno e frasi che era meglio farsicazzipropri.

Tutto questo, però, è amplificato nel momento in cui quella nuova valle di piaceri l’hai esplorata mentre eri uscito da casa vecchia. Tradotto: è peggio se le hai messo le corna, o se comunque l’hai lasciata per la nuova.

Perché è lì che le sfumature scompaiono e si taglia tutto con l’accetta. Quel poco di cervello rimasto, quello che non è andato in ferie perché tanto non lavora mai, non filtra più i pensieri e comincia a farti cacare dalla bocca le prime stronzate che gli vengono: voglio stare da solo, non sei tu sono io, è un periodo in cui non posso concentrarmi su troppe cose, mi dispiace.

Ora, non so se vale anche per le donne -non ho termini di paragone a riguardo in quanto le mie storie son sempre finite in tragedia- ma attivamente ci sono passato, a dire certe puttanate. Ed era sempre perché insieme al mio cervello, in ferie c’erano andati anche i miei coglioni, e quindi dire “oh guarda mi scopo/vorrei scoparmi un’altra” sarebbe stata, col senno di poi, un’uscita di scena dignitosa.
Di sicuro avrebbe evitato lunghe scie di cuori morti, o feriti male.
Certamente, avrebbe evitato lunghe ore di diapositive dei ricordi, mostrate da un paziente cervello e due palle litigiose.

Ci sono cresciuto, tanto e bene, in mezzo alle donne. Da mia nonna in giù, dalle mie migliori amiche passando per l’amica degli amici che becchi una sola volta.
Siete diverse, sì.
Perché avete quella marcia in più che viaggiare di pari passo con voi, anche se capita così raramente, è un piacere che vale la fatica del viaggio.
È quando ci ritroviamo ad inseguirvi, che ci stanchiamo subito.

Il nostro problema, tutto maschile, è che ce ne accorgiamo dopo, di questa bellezza.
Ci ricordiamo dei panorami visti insieme correndo di pari passo con voi solo dopo che ci ritroviamo fermi.
Immobili.
Soli.

Starvi dietro è impossibile, generalmente.
Siete pazze, imprevedibili, gelose senza motivo -non sempre-, quel cazzo di ciclo fa più morti dell’autore di Game Of Thrones, a volte spiegarvi una semplice cosa diventa più difficile che insegnare ai pinguini a volare ma cazzo, se siamo ancora qui a scrivere/leggere di quanto siam diversi (e ripeto: pene – vagina/tette, vincete già solo per numero di attributi) vuole dire che ne varrete la pena.
Sempre.

E quindi, in conclusione finale ultima, mi auguro che chi in cuor suo si sia sentito colpito, sfiorato o comunque gli siano fischiate le orecchie capisca che a volte fermarsi, guardarsi in faccia ed ammettere di aver fatto del male a chi prima si diceva di amare può servire a molti.
È una cosa terribile, solo a pensarci.

Realizzare di averlo fatto è peggio, ma poterlo ammettere a se stessi ed alla diretta interessata almeno è liberatorio.

Credetemi.

Di Rocce, Ragazzi E Rivoluzione

Poi studiano pure eh.
Poi studiano pure eh.

Sono seduto ad una scrivania che conosco da poco più di ventiquattr’ore.
Nell’altra stanza c’è qualcuno che si asciuga i capelli ma pur essendo sveglio dalle nove ancora non ho capito chi sia.
Un sole che ancora non mi aveva mai scaldato filtra da queste tende bianche.
Ascolto l’ultimo di Brad Mehldau e penso sia follemente fico. (così, tanto per)

Sono a Meolo, in provincia di Venezia.
Sono qui perché ho partecipato ad un concorso con una sceneggiatura per un corto, e su più di trecento storie hanno scelto la mia.

Chi?

I ragazzi di BigRock.

Che fanno questi a questa BigRock?

In prati..

E poi ma cos’è BigRock?

OH. Piano con le domande, eh.
In pratica sono una scuola di computer grafica. E fin qui, tutto ok.

Solo che loro filosofia non è: venite in classe, imparate, fate, ciao.
Qui tu entri in un modo, ed esci in un altro. E a me è bastato qualche contatto iniziale ed un giorno per capirlo.

Quando i ragazzi entrano per la prima volta a BigRock, ex fienile immerso nella campagna veneta, sono spinti da una passione enorme per tutto quello che riguarda CG, poligoni, pesature, zone bianche e nere, maquettes (così se mi leggono faccio quello che si è imparato i termini). Arrivano con questa passione selvaggia, incontrollata. C’è chi ha mollato tutto per venire qui e partecipare al master, chi si è sbattuto per pagarselo, chi fa avanti e indietro i weekend per tornare a casa.
Questa passione, però, non viene smorzata, né messa in riga al servizio della produzione.
Il loro impeto viene alimentato, nutrito con viaggi, feste, e con una sola, grande regola: vivere in gruppo.
Quello che Marco, il direttore, ha ribadito più volte è che i ragazzi devono divertirsi, devono studiare, ma prima di tutto devono imparare a stare e principalmente essere, un gruppo.

L’esempio più bello è il viaggio negli Stati Uniti che ogni anno la scuola organizza.

Ci sono quattro tappe: San Francisco, Los Angeles, il deserto del Nevada e Las Vegas.
E ok, ovvio, vanno alla Pixar ed in tutti i posti che fino al giorno prima la maggior parte aveva visto solo come logo all’inizio dei film d’animazione.

Il vero viaggio di scoperta però, come diceva Proust (Google saves), non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.
E sono proprio gli occhi di questi ragazzi che s’illuminano, quando ti parlano del viaggio, a farti capire quanto sia stato importante. Perché ci sono sì quattro tappe, ma nel mezzo loro si perdono. Per scelta, per modalità di viaggio, per viverselo davvero.
Sei jeep, nella numero uno in testa alla fila a volte si fa dire un numero e destra o sinistra.

“Quattro sinistra!!”

E via che alla quarta a sinistra si gira e poi così alla prossima ed alla prossima ancora.
È così che hanno bucato due volte nel deserto, lasciando la macchina lì. Così sono arrivati all’albero dei desideri di San Francisco dove chi vuole può attaccare ad un ramo il suo biglietto con su scritta la cosa che desidera. Così hanno trovato una città abbandonata in mezzo al nulla.

Così tornano da un viaggio con gli occhi nuovi.

Che poi sono gli stessi occhi di ragazzi giovani che fanno feste pazzesche, ma sul serio. Occhi curiosi, affamati del presente e con già apparecchiato per domani.

I fondatori, Marco e Guido, non sono persone normali.
Assolutamente no.
Sono rivoluzionari.
Hanno avuto un’idea, l’hanno portata avanti e dopo pochi anni hanno creato una vera e propria rivoluzione nel mondo della CG e non solo.
La filosofia di BigRock è un qualcosa che se applicato al mondo del lavoro nel settore dell’arte, della cultura, dell’informazione riuscirebbe a creare sinergie uniche in questo campo, ed allo stesso tempo così grandi da aiutare, anzi spingere migliaia di giovani a inseguire i loro sogni.
Nella vicina H-Farm questo concetto si allarga alle start up. Visitate il sito, dico sul serio, vale più di mille miei inutili aggettivi. Un luogo strepitoso.

Insomma, questa Grande Roccia è un luogo dove la magia si crea principalmente perché ne sei circondato.
Poi certo, sono persone anche loro: non è che non litighino, non abbiano i loro pensieri o non facciano la cacca come le donne.

Ma è un gruppo così bello ed unito che rende tutto il resto intorno meno merda, ecco.

Oggi è il loro ultimo giorno dopo sei mesi folli.
Non sono andato perché sarebbe come imbucarsi ad una festa in casa di qualcuno, da solo e senza nemmeno aver portato da bere.

(che poi la festa stasera ci sarà ed io andrò, è un’altra storia che probabilmente non vi racconterò perché non ricorderò)

Io a ‘sti ragazzi gli auguri ogni fottuto bene, dal primo all’ultimo, da chi mi ha cercato la prima volta a chi mi ha dato un tetto, da chi mi ha offerto quattro Spritz a chi mi ha fatto vedere dei video così stupidi che ho riso tantissimo per ore.

Mi auguro, anzi sono sicuro, che quando vedremo la prossima bomba a mano della Pixar, Dreamworks o chi per loro, lì in mezzo ci sarà un diavolo di BigRocker che avrà reso la nostra visione un’esperienza unica.

Bravi.
Grazi.
Bis.

E speriamo che stasera non mi puntino.