Roma Kaput Mundi

Lo è.

C’è stato un periodo, qualche anno fa, in cui si andava tutti in giro con i motorini fino a Trastevere e si beveva al Mr. Brown fino a cominciare a ridere da sentirsi male. Era il periodo del Villaggio Globale a sentire i concerti, a ballare e a bere Merlot scadente nella loro osteria. Serate che finivano con gente (me) ubriaca marcia nei carrelli della spesa trainata da gente altrettanto ubriaca. Weekend che finivano troppo presto ma che venivano vissuti dal primo all’ultimo minuto, come se spingendosi oltre il limite epatico fosse possibile rimandare l’arrivo del maledetto Lunedì, fatto di aule, banchi e professori che “tanto non capiranno mai”. Erano serate da passare infreddoliti su selle di mille motorini, di catene difficili da aprire dopo troppe vodka alla pesca (mi viene il vomito solo a scriverlo), serate di abbracci spontanei e guance rosse. Tutti erano amici di tutti, e nessuno era solo: c’era la comitiva, il gestore del locale, la cameriera, il passante. C’era Piazza Trilussa con i suoi scalini che ospitavano sempre qualcuno da incontrare, dove ti ci mettevi davanti e cominciavi a scrutare tra la folla manco si avesse tra le mani un libro di “Dov’è Wally?”. E la gioia di trovarlo, il proprio Wally, era sincera e spontanea, perché magari era pure un tuo compagno di scuola ma, che cazzo, non eri in quel cortile o nei corridoi ma in giro, e potevi fare quello che volevi.
Roma, in quei tempi e con la testa di un adolescente, era un intero mondo da scoprire, anche se magari si rimaneva (e si è rimasti) sempre nello stesso quartiere, quasi sulla stessa via.

In questi anni, però, troppe cose sono precipitate a Roma. Il connubio fra menti spappolate e politiche devastanti ha fatto precipitare la capitale in un vortice che risucchia tutto quello che di buono c’è. Ho visto locali chiudere sotto i colpi dei verbali dei Vigili, ragazzi morire per un rissa idiota, cambi di gestione che hanno obbligato ad alzare i prezzi abbassando la qualità. I Centri Sociali sono stati presi di mira da istituzioni che pensano solamente a gonfiare i propri portafogli e ad inchinarsi ai capetti che a Roma vogliono la disciplina e  l’ordine. Le associazioni culturali aggirano le regole con trucchetti da due soldi, mentre chi tenta di farle rispettare, quelle regole, viene additato e messo in un angolo, vessato di continuo fino a quando, stremato, rinuncia a portare avanti le proprie iniziative.
E faccio mea culpa, mea iper culpa per il fatto di non essermi mai davvero interessato a come funziona un luogo in cui le cose vengono fatte girare per il verso giusto, e pochissime volte mi sono impegnato davvero per far sì che questi posti potessero continuare ad avere i propri cancelli aperti.

Ora però ne ho la possibilità, perché da una settimana ho la fortuna, ed il piacere, di lavorare all’Angelo Mai Altrove. L’Angelo ha una storia forte, potente, fatta di occupazioni, sgomberi, altre occupazioni, delibere, ristrutturazioni, impegno, sudore, lacrime e risate. E’ uno di quei luoghi che, minimizzando, si potrebbe dire di “aggregazione”. E dico minimizzando perché non è solo questo, ma è mille cose di più. Mi sono bastati pochi giorni per capire che lì dentro ognuno è parte di un gruppo, che tu sia uno di loro da anni o da pochi giorni. Entrando in quel posto, si capisce che l’aria è piena di idee che vengono condivise e sviluppate, progetti che anche se a fatica vengono realizzati con i soldi di tutti.
L’Angelo, dove si trova ora, non era così: era una bocciofila dimenticata da tutti che è stata presa e trasformata in teatro e sala concerti, con due bar ed un’osteria in cui tutti sono i benvenuti. Non c’è una prima volta in cui si entra lì, perché c’è sempre un momento in cui riconosci una situazione vissuta, che siano gli gnocchi di Pina fatti in casa come faceva tua nonna, o i sorrisi di chi ti serve da bere come succedeva tempo fa. Quella dell’Angelo è una famiglia, che va oltre il legame di sangue ed arriva ad un livello più alto, un livello di collaborazione e sostegno che in giro, in questa città, non si trova più.

Ma non è tutto rosa e fiori: l’Angelo Mai, da otto giorni, è occupato. Ed il motivo è molto semplice.
Circa un mese fa sono stati costretti a chiudere il bar e l’osteria, uniche fonti di sostentamento (oltre all’entrata che però non è sempre a pagamento) per poter continuare a finanziare i concerti, le mostre, gli spettacoli, le rassegne cinematografiche. Un’imposizione che, nel giro di pochi giorni, ha portato i ragazzi a dover chiudere tutta la struttura. Un’imposizione giustificata dal fatto che, secondo la giunta Alemanno, i fondi non venivano usati per le cose citate sopra ma solo per guadagnarci sopra. Un’accusa grave ed infondata, un colpo duro per un collettivo fatto di ragazzi pieni di passione.
E proprio questa passione ha portato tutti a decidere di occupare, unica scelta possibile per poter far fronte alle spese di gestione e ai pagamenti di chi ci lavora quotidianamente. Una decisione difficile ma affrontata con gioia, nonostante il costante spauracchio dello sgombero.

(vi ricordo, nel frattempo, che “associazioni” come Casa Pound hanno ricevuto -gratis- dal comune di Roma edifici e spazi enormi per le loro attività come riunioni, cinghiamattanza ed organizzazione di raid contro chi è ritenuto “altro”.)

Insomma, l’Angelo è in pericolo.
Noi (perché sì, mi reputo già un “noi”) siamo pronti a tutto, perché luoghi come l’Angelo DEVONO rimanere aperti, DEVONO essere ancora luoghi di incontro per i cittadini, DEVONO continuare a proporre iniziative culturali. Ricordatevi che l’Angelo Mai ha ospitato centinaia di eventi, ed ultimamente ha ricevuto il supporto degli affezionatissimi Afterhours con un concerto davvero unico. E continua ad avere supporto da esponenti di tutti i generi.
Quello che credo però è che debba avere anche il vostro, di supporto. Anzi, soprattutto il vostro. E non intendo che dobbiate venire a spendere per forza, perché il supporto più grande che possiamo ricevere è la vostra presenza, il vostro passaparola, la vostra voglia di vedere ancora aperti posti come questo.

Solo con posti come l’Angelo Mai altrove si può ancora far qualcosa per la comunità, per poter tornare tutti sui motorini a cantare, per fare amicizia con il gestore del locale e col passante, per poter di nuovo incasinarci ad aprire la catena.

Per poter tornare, di nuovo, ad essere orgogliosi della nostra città e di chi ci abita.

Stessa Lotta, Altra Merda

“One does not simply walk into Malagrotta.”

Per chi non conoscesse la mia zona (Malagrotta – Ponte Galeria), a voi una piccola introduzione.

Mordor.

Fine introduzione.

Nella mia zona arrivano tutti i vostri rifiuti, di tutti voi che abitate a Roma. Quindi quando buttate i piatti di plastica, la carta, le mini istruzioni dell’iPhone5 ecco, arriva tutto qui. In più, quando andate all’ospedale per farvi il test dell’HIV dopo l’Erasmus, ecco anche la siringa che conteneva il vostro sangue arriva qui.
Qui da noi, in pratica, arriva la vostra merda.

Ora, come saprete (?) qui abbiamo la discarica di Malagrotta, aperta ormai da più di trent’anni, dove arrivano quasi 5000 tonnellate di rifiuti al giorno. È come se dall’alba al tramonto vi scaricassero a 500 metri da casa mille elefanti Africani. O poco meno di 45000 dei vostri preziosi iPhone5. Questo fa della discarica di Malagrotta il più grande impianto di “smaltimento” rifiuti d’Europa.
In più abbiamo inceneritori, gassificatori ed una raffineria perché che cazzo, se dobbiamo farle le cose facciamole bene.

Cosa comporta tutto ciò?
Innanzitutto, praticamente ogni giorno l’aria si riempie di quell’odore tipico della morte. Immaginate di annusare un barattolo di vetro che aprite dopo cinque anni, ed in cui avevate messo due uova sode, un passerotto, quattro cucchiai di merda di quattro tipi diversi (cena messicana, fagioli con le cotiche, pannocchie di Calcutta, aglio e cipolla) ed una copia di Libero.
Ogni sera, poi, i gabbiani ci deliziano con il loro passaggio della durata di circa un’ora che sì, col tramonto dietro vengono belle foto.. se al loro culo da cecchino non riesce un headshot.

La divisa da faggiano: un must che resiste a tutte le mode.

La cosa ben più grave e seria, però, è la morte vera e propria che l’insieme di queste cose porta con sé. Il tasso di mortalità, se non erro, si aggira attorno al 28%, media altissima rispetto a quasi tutte le altre zone di Roma (ma attenzione perché lo schifo arriva fino a Monteverde, e oltre). E non risparmia nessuno: dai ragazzi di quindici anni morti di leucemia a persone che a meno di settant’anni si beccano i tumori più strani.
Aria avvelenata, falde acquifere inquinate, la fiamma della raffineria che brucia manco fosse l’inizio di “Blade Runner”. Tutto insieme, tutto il giorno.

E qui arriviamo a Sauron, quello che tutto ha costruito e tutto controlla: Manlio Cerroni.
Due righe sull‘avvocato: è così vecchio che i dati sulla sua carta d’identità sono scene di caccia ed impronte di mani. È così ricco che potrebbe comprarsi due volte il debito della Grecia e comunque andarci sopra. Ha la pista per il suo elicottero nei pressi della discarica: leggenda vuole che mentre era a bordo, per due volte in due occasioni diverse l’elicottero sia precipitato. Illeso. Roba che io una volta sono finito in coma per aver sbattuto un ginocchio contro un tavolino.
Ed ovviamente, il caro vecchio Manlio ha le mani (i tentacoli) ovunque, e gli basta uno schiocco di dita per azzittire tutti e sentirsi dire “zì badrone”. Nulla sembra poterlo fermare.

Sembra.

La brace unisce. Da sempre.

Si perché da mesi, proprio di fronte a casa mia, si sta lavorando per sistemare il nuovo sito per la nuova discarica. E si, perché Malagrotta sembrerebbe leggermente piena, ma sono anni che l’attività viene prorogata. E visto che ormai la prospettiva di potermi godere almeno dei super tramonti sta (pronti per la chicca?) TRAMONTANDO, così come la speranza di molte persone della zona, i comitati di zona sono riusciti finalmente ad unirsi. Dopo trent’anni, finalmente migliaia di persone si sono ritrovate sotto la stessa bandiera. Niente politica, niente secondi fini (o almeno ci si prova).
In strada è scesa la gente, quella che la zona ha contribuito a farla fiorire davvero, con costanza e senso civico, con gli scioperi della fame, con la gente incatenata ai cancelli, con i cortei e le fiaccolate (di questi temi in particolare, avevo parlato qui e qui, sul mio blog serio).

È una lotta che va avanti da anni, ormai si può dire decenni. Una lotta in cui ci sono stati dei caduti, ovviamente solo dalla parte dei “buoni”. Ma nuove leve si sono aggregate, me incluso.
Ma è c’è ancora chi mi sorprende ed affascina, come mio padre e con lui centinaia di persone, che erano lì trent’anni fa e che ancora urlano, s’incazzano, fanno feste, organizzano manifestazioni enormi e coinvolgono sempre più persone.

Pasta al sugo, un altro sinonimo di coesione sociale.

Ed è stato scoprendo le foto che avete visto in questo post che ho capito che la lotta è la stessa, la merda è altra. Ma ci sono persone talmente incredibili da resistere ancora. Duri come la roccia, spaccano tutto ed arrivano oltre, ben oltre il limite entro il quale i più si fermerebbero stremati e umiliati.

Questa gente, come tutti quelli che lottano per le cause giuste per di più senza la copertura di nessuna istituzione, senza nemmeno sentire la necessità di avere accanto un partito.

Questi sono i nostri partigiani, e le iscrizioni sono aperte a tutti.

Pillole Salentine – #7 – Non È Un Addio

Un nuovo inizio.

Due mesi esatti.
Manco a farlo apposta, ma esattamente due mesi.
Arrivavo di Domenica, me ne vado di Sabato.
In mezzo tante facce nuove, belle e meno belle, ma di sicuro facce sopra a corpi con dentro cuori e cervello che qualcosa mi hanno lasciato.
C’è chi mi ha fatto ridere tanto, tantissimo. C’è chi mi ha fatto piangere, da una gatta che non c’è più a cani -umani- che ci sono ancora e che continueranno a fare del male. C’è chi mi ha insegnato qualcosa, dalla storia dei posti dove mi trovavo ad un particolare su un film che stavo vedendo. Ho mangiato cose nuove e gustato cose vecchie. Ho preso e perso chili, ma soprattutto preso. Tornato a Roma per una sera mi son sentito dire da tutti “ti trovo benissimo”, ed è stato bello perché mi ci sentivo, benissimo. Soprattutto perché se sono andato via dal Salento, ci dovevo -volevo- tornare ed era come tornare a casa.
Ho anche sfiorato la scopata, in Salento.

Ma soprattutto ho vissuto di nuovo con mia madre e mio fratello, e per quanto scontato sia dirlo -ma lo è?-, io gli voglio bene.
Mi ero quasi dimenticato cosa volesse dire avere la mamma accanto, che si preoccupa, si congratula, con cui spettegolare e vedere un film, che ancora ti dice “metti a posto” e che si sorprende quando lo fai senza che te l’abbia detto. Che capisce se c’è qualcosa che non va quando non parli per più di dieci minuti, e che gira gli occhi al cielo -per finta- quando non t’azzitti mai. Che ti prepara da mangiare sempre, e che si gode una cena che per una volta prepari tu. E le piace pure. Ci voglio bene a mamma mia, ma tanto.
E poi tuo fratello, che quando non c’eri è cresciuto e pure parecchio, che adesso è alto quanto te e ti senti di trattarlo com un coetaneo. Ma non lo è, e quindi certe volte ti ritrovi a parlargli da “adulto” e ti aspetti risposte da “ragazzo” e ti sorprendi da morire quando ti risponde, perché finisci per fare discorsi alti e ti piace. Tuo fratello con cui finalmente vai a vedere i concerti, con cui ti ammazzi dalle risate per le cazzate che dice -un genio, davvero-, tuo fratello con cui piangi e che ancora consoli perché in fondo è un po’ un bambino. Tuo fratello che convive con il diabete senza mai un lamento, che quando quella volta si è svegliato con l’ipoglicemia in cerca di zucchero ti è saltato il cuore in gola ed è finita con lui che tranquillizzava te. Tuo fratello di cui sei così orgoglioso quando va in viaggio studio in Germania, senza nemmeno pensarci due volte, che viene con te in campeggio e ti sopporta mentre stai sfranto e anzi, si ammazza dalle risate. Quel fratello che cresce lontano da te ma di cui sai poterti fidare, e che speri -sai- farà meglio di quanto tu possa aver fatto fin’ora. Bello lui. Continua così.

Domani torno a Roma, il vil denaro chiama.
Ma sappi mio caro Salento che voglio tornare, sappiatelo tutti.
Torno a Roma per continuare quello che ho cominciato qui, cercando di portarmi dentro il sole che mi hai regalato, i sorrisi che mi hai lasciato, il profumo di nuovo che mi è rimasto addosso.
Mi hai riempito gli occhi ed il cuore.

Questo non è un addio.

Diciassette Anni Fa

Happy Birthday

Diciassette anni fa mi ero appena trasferito nella nuova casa, dopo un periodo di stallo a casa di mia nonna. Ci avevano mandato via dalla vecchia, e per mesi abbiamo vissuto a San Saba tutti quanti. Ricordo che mio padre non dormiva per i rumori di quelli che abitavano sopra, abituato com’era al silenzio di quella che “una volta era tutta campagna”.
Io ero contento da morire: ero sempre con i miei ma allo stesso tempo con mia nonna, che come tutte le nonne non poteva crederci al fatto di potermi viziare tutti i giorni, tutto il giorno, e non solo nei mesi estivi o i weekend. Anche se stavamo stretti, dovevo svegliarmi ancora prima del solito per arrivare a scuola, anche se le abitudini per un po’ erano cambiate, io ero contento da morire. Ci festeggiai anche il mio compleanno, il mio decimo per l’esattezza, ed i miei zii mi regalarono l’orologio di Topolino, quello col sorcio al centro con le braccia a le lancette. Quanto mi faceva ridere quando erano tutte storte, perché lui comunque manteneva il classico sorrisone a bocca aperta tipico del topo più antisemita del mondo.

Diciassette anni fa ho visto la mia nuova casa costruirsi “da sola”. È un prefabbricato in legno, e gli operai insieme a papà dopo aver gettato la colata per le fondamenta, avevano piazzato le basi di legno che delimitavano le pareti esterne e quelle della camera. Era bello: sembrava una mappa, una planimetria, però vera, fisica. Ricordo che passavo da una stanza all’altra semplicemente scavalcando una trave. C’è una foto, che conservo ancora adesso, dove sono lì con quei capelli a caschetto (lisci), la felpa de Il Manifesto col bimbo che dorme, pugno chiuso e la scritta “La Rivoluzione Non Russa”, gli occhiali da sole rossi tondi alla John Lennon che adoravo appesi intorno al collo col cordino. Ma la cosa divertente era lo sfondo: una parete in legno a metà, più bassa di me, ed una finestra incastrata nel mezzo. Perché casa l’hanno costruita così: due travi in verticale, due travi in orizzontale, due travi in verticale.. e così via. Poi arrivava il momento di piazzare le finestre, e quindi rimaneva questa casa, un’immagine a metà tra la costruzione e la distruzione. Ricordo che con mamma abbiamo buttato 200 lire tra due delle travi che formavano la parete divisoria tra la mia (ormai ex) camera e la loro. Dicevano portasse fortuna. Ma l’immagine più forte è quella del tetto, poggiato sopra come un tappo su una scatola, fissato alle pareti ed alle due colonne.. e fine. Sembrava un’enorme costruzione in Lego, ma di legno. La Leg(n)o.

Diciassette anni fa usciva “One Hot Minute”, dei Red Hot. Io non sapevo nemmeno chi fossero, all’epoca ascoltavo.. boh, manco gli 883. Forse ero fermo a “Don Raffaè” ed a tutta la discografia di Battisti. Meglio di niente, per carità.
Ovviamente l’ho scoperto tardi, quell’album, e come molti non l’ho apprezzato subito. Il mio primo album dei Red Hot che comprai fu “Californication”, quasi cinque anni dopo. Poi seguì “Blood Sugar Sex Magik”, uscito che avevo cinque anni, che tutt’ora reputo il loro disco migliore, ed uno dei miei preferiti in assoluto.
Quando ascoltai OHM per la prima volta, non lo capivo proprio. Cronologicamente si piazza esattamente a metà tra i due prima citati, ma musicalmente è totalmente fuori da ogni schema musicale seguito dai quattro di L.A. (se mai ce n’è stato uno). Considerando che Frusciante aveva dato di matto durante l’estenuante tour per promuover il precedente album, e qui veniva sostituito da Navarro che veniva dai Jane’s Addction, l’aria in casa RHCP cambia totalmente. Per la prima volta il funk viene mischiato al metal. Il disco a volte si fa pesante come un tir di macigni che ti viene scaricato in faccia (vedi l’apertura con “Warped”), a volte dolce come il miele mischiato nello zucchero (“Tearjerker”). Flea è impazzito come non mai, tarantolato e “slappato” come non lo si sentiva da tempo, talmente galvanizzato da concedersi un solo con “Pea”. Chad Smith.. vabbè ho sempre considerato Smith il migliore del gruppo, e qui si capisce davvero perché: una ritmica pazzesca, una perfezione ed una carica tale da reggere tutto e tutti, per l’intera durata del disco. Kiedis, infine, è in totale stato di grazia. Oltre a strillare come sempre, in quasi tutte le canzoni, tira fuori una parte melodica a tratti lisergica, anche se coca ed eroina avevano fatto, di nuovo, la comparsa nella sua vita, oltre al Valium che aveva cominciato ad assumere dopo una imponente operazione ai denti. Questo però non lo trattiene dall’esprimersi al meglio, influenzando oltre il suo modo di cantare, anche quello di scrivere. (anche se meno rispetto agli album precedenti). Escono perle rare, tra cui le ballate come la già citata “Tearjerker”, “Falling Into Grace” e la splendida “Walkabout”.
Ne esce fuori un capolavoro per pochi, ed un album strano per molti. Di certo qualcosa che esula dal fantomatico percorso dei Red Hot Chili Peppers, qualcosa che solo la rabbia per la lontananza di Frusciante e l’irruente comparsata di Navarro hanno contribuito a farlo diventare il mio secondo album preferito della band, dopo “Blood Sugar Sex Magik” e “Californication”.

Tanto per la cronaca, se non erro la mia copia originale la regalai alla mia ex. O forse me l’ha ridata con un sacco di roba l’anno scorso. In caso contrario, spero esploda.

Diciassette anni fa un album mi ha cambiato la vita, anche se anni dopo.
E non smetterò mai di ringraziarli.

[ma grazie anche a Wil di Non Leggerlo per avermi ricordato, senza volerlo, del compleanno del disco e perché gli ho rubato l’immagine]

Pillole Salentine #6 – Pasticche dei freni e Compresse Blu(es)

Allora, l’ultima volta che ho parlato di Salento ero praticamente appena tornato dai Bud, contento e felice, pieno di fede per l’umanità e per il prossimo.
Ora, contento e felice lo sono ancora, per quanto riguarda la fede mi sento un po’ come Giordano Bruno quando ha cominciato a sentire caldo.

Orgasmici.

Ma prima piccolo spot per approfondire meglio la questione “concerto dei Bud”: strepitosi, unici, belli, bravi, bis. Dei quattro concerti classici più quello live allo StudioNero, quello di Leverano è stato il migliore. Sarà perché caricati più del solito per un’attesa infinita dovuta a due idioti che hanno presentato la serata tra balli di gruppo, pulcini pio e premiazioni con targa + foto ad ogni singolo rappresentante di qualunque cosa del paese, imbarazzanti come l’amico estraneo al gruppo classico che porti in vacanza e si mette a ruttare birra dal culo, fatto sta che Cesare ed Adriano hanno dato del loro meglio. Una scaletta diversa rispetto al solito, un finale praticamente a richiesta, un’energia che forse solo il Salento può darti. In più si sono anche fermati a salutarmi dopo avermi riconosciuto, poco prima del concerto, e son cose che fanno solo che piacere. Se poi il tuo amico amante del rap si comincia a scatenare e verso la fine, sudato e stremato, ti dice “sai che è cò ‘sto cazzo de gruppo? È che c’hanno una cifra dei Rage!!”.. son soddisfazioni.

Poi però, manco due giorni, ed ecco che l’essere umano ti schifa. È bastato un vicino durante una mattinata rovente, dove mi preparavo per “mettere i dischi” la sera stessa. Una scampanellata, una frase in dialetto dove però tua madre, dal salotto, capisce collare.. e la tragedia è fatta.
A cento metri da casa hanno investito la gattina di famiglia, Olivia.
Perché qui la gente deve correre, deve aver fretta, sembrano tutti protagonisti di “Speed”, dove se vai piano salta per aria la macchina. Merde.
Che poi io e Olivia non è che avessimo ‘sto gran rapporto, era più la gatta del resto della famiglia visto che ci passavano più tempo. Ma era comunque una gatta dolce, quando ci si metteva, bella e dolce. E vedere mamma e mio fratello distrutti, e sentire mio padre ammutolito al telefono, non è stato proprio bello. Doverle scavare una buca, poi, devo dire che alla fine mi ha abbattuto. E parecchio.
Quindi spero che qualcuno abbia letto il cartello minatorio appeso al semaforo dove se la sono portata via, spero che a qualcuno un po’ di senso di colpa sia arrivato, e spero che chi sia stato si affezioni tantissimo ad un animale e poi muoia.. non l’animale, ma proprio lui.

Olivia.

Ora mi consolo con il triste Zeus, che si vede bene quanto gli possa mancare quella stronzetta che lo trattava male. A volte spero di rivederla affacciata alla finestra che i avvisa di aprire la porta, o a quando questo inverno non andrà a sbracarsi sul letto di mamma. Ma so che non sarà così, quindi chiudiamo anche questa, che solo così si può fare.

Che dire poi?
Ah si.. ho anche lavorato.
Undici giorni netti.
Il posto peggiore della storia.

Ma ve la dico un’altra volta, che fa ridere parecchio.